24 Dicembre 2023 - Anno B - IV Domenica di Avvento
- don luigi
- 23 dic 2023
- Tempo di lettura: 6 min
2Sa 7,1-5.18b-12.14a.16; Sal 88/89; Rm 16,25-27; Lc 1,26-38
“Beata te perché hai creduto”
La fiducia che ci abitua a pensare, amare e a vivere come Dio

“Disse Davide al profeta Natan: “Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto una tenda. Natan rispose al re: Va, fa quanto hai in mente di fare, perché il Signore è con te. Tuttavia in quella stessa notte Dio disse a Natan, va e riferisci a Davide: Forse tu mi costruirai una casa perché io vi abiti? … Il Signore farà a te una casa … e renderà stabile il tuo regno” (cf. 2Sam 7,1-16).
“L’angelo Gabriele fu mandato da Dio … a una vergine di nome Maria … Entrando da lei le disse: Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù … Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine” (cf. Lc 1,26-33).
Quelli appena sintetizzati costituiscono i brani biblici con cui la Liturgia della Parola di questa quarta domenica di Avvento, ci introduce direttamente nel mistero del Natale. Si tratta di due brani molto importanti perché attestano l’origine e il compimento della profezia relativa all’Incarnazione del Verbo di Dio. Due episodi che ci fanno capire quanto lungo e travagliato sia stato nella storia biblica il processo rivelativo che ha portato all’affermazione di questa verità di fede. Benché costituisca uno dei fondamenti della fede cristiana il Natale appare oggi, a livello culturale e sociale, una delle celebrazioni religiose più svilite e prive di senso. Ritengo perciò quanto mai necessario acquisire quelle conoscenze teologiche che ci mettono in grado di dare ragione di questo evento a chiunque ce ne chiede conto (cf. 1Pt 3,15-16); così da evitare i suoi due estremi – tipici della nostra mentalità culturale –: la riduzione magica e fiabesca e l’eccesso razionalista e scientifico. Da qui l’esigenza di acquisire quella intelligenza spirituale, capace di predisporci ad accogliere questa straordinaria verità con la ragionevolezza della fede evangelica, quella cioè che ci fa accogliere con lo stupore dei “poveri in spirito” (Mt 5,3) “il messaggero che annuncia la salvezza” di cui parla il profeta Isaia (Is 52,7).
Con questo rinnovato spirito evangelico ci accostiamo ai nostri episodi biblici e prendiamo atto che quello davidico, tratto dal secondo libro di Samuele (7,1-5.18b-12.14a.16), si rivela particolarmente significativo. Esso dà, per così dire, il “la” a quella straordinaria intuizione rivelativa di Dio che avrà il suo compimento nell’Incarnazione del Verbo. Davide è tra i primi a sviluppare questo tipo di riflessione teologica nell’ambito della fede ebraica. E lo fa in modo piuttosto audace, ritenendo addirittura di voler costruire un tempio a Jahvè, come confiderà al profeta Natan (cf. 2Sam 7,2). Non che questa idea fosse nuova. Anzi, nell’ambito delle religioni confinanti, essa era più che praticata. La novità sta nel fatto che essa rompe decisamente con la tradizione religiosa mosaica, specie se si parte dal presupposto che il Nome di Dio non poteva essere pronunciato (cf. Es 20,7), il suo Volto non poteva essere visto (cf. Es 33,18-20), tantomeno la sua Presenza poteva essere contenuta (cf. 1Cr 17,3-4; 2Sam 7,5-6). L’intuizione di Davide, infatti, faticherà non poco ad essere compresa e accettata già dallo stesso profeta Natan, come attesta la sua cautela dinanzi alla proposta del re, il quale dopo un’entusiasmante adesione sembra poi ricredersi e manifestare la volontà contraria di Dio (cf. 2Sam 7,3-5). L’incidenza di questi presupposti mosaici è così forte nella mentalità ebraica che l’Incarnazione di Cristo verrà apostrofata, dagli stessi ebrei, come un vero e proprio scandalo. In effetti lo scandalo che essi avvertono nasce dalla coscienza di una reale assurdità che Dio, dall’alto della sua divina trascendenza e perfezione, possa concretamente ridimensionarsi e ridursi alla natura umana. Secondo questa mentalità, infatti, Dio non sarebbe più perfetto e onnipotente, poiché sottoposto alle stesse leggi della natura umana, come quella del divenire, della mutabilità, del limite, della debolezza, della fragilità. D’altra parte è anche vero che privare Dio della possibilità di farsi uomo sarebbe come limitarne anche la sua onnipotenza. Chi potrebbe impedire a Dio di andare oltre se stesso? La questione dunque è sapere quale concetto di onnipotenza abbiamo di Dio, per evitare di ingabbiarlo all’interno di schemi che potrebbero ridurre la sua imprevedibile libertà creativa. Il suo modo di manifestarsi e darsi a conoscere non è forse sempre al di là di ogni immaginazione e aspettativa umana? La storia della rivelazione biblica, infatti, ci insegna che per comprendere la logica rivelativa di Dio occorre imparare a ‘pensare Dio da Dio’, ovvero acquisire il suo modo di pensare, di amare, di salvare e quindi il suo modo di comunicarsi e darsi a conoscere. Occorre allora entrare nella mentalità rivelativa di Dio e cogliere la ragione del suo piano salvifico, poiché solo in questa luce diventa possibile superare l’assurdità della sua incarnazione. Perché effettivamente la sua incarnazione è – come dice san Paolo – una follia per i Greci; uno scandalo per i Giudei; una stoltezza per i pagani (cf. 1Cor 1,20-25), ovvero per quelli che sono abituati a pensare Dio secondo i parametri della logica umana. Si tratta di imparare a vivere, pensare, operare, muoversi ed esistere in Dio (cf. At 17,27-28). Credere allora non significa annullare la propria ragione, ma andare oltre la stessa, esattamente come prevede il termine metanoia (dal greco meta = “oltre” e noéo = “pensare”), che noi traduciamo con conversione (letteralmente “andare oltre il modo abituale di pensare”).
Ma come si fa a entrare in questa logica rivelativa di Dio? In questo suo modo di pensare e amare apparentemente assurdo e incomprensibile? Come entrare in questa dinamica di fede? Per rispondere a queste domande ci rifacciamo al brano evangelico di Luca 1,26-38 e quindi alla testimonianza di Maria. Il racconto che l’evangelista Luca ci offre della sua chiamata, costituisce senza dubbio il paradigma di ogni vocazione nella Chiesa. Esso aiuta a creare quelle disposizioni interiori, fondamentali, a chiunque decide di intraprendere l’avventura divina della fede evangelica. Se da una parte, come sottolinea il testo, Maria sperimenta, al pari di ogni uomo e donna, l’assurdità dell’annuncio dell’Angelo: “Com’è possibile? non conosco uomo” (Lc 1,34), e il comprensibile turbamento che può generare nel suo animo una simile promessa divina (cf. Lc 1,29), dall’altra ci traccia la via privilegiata da percorrere per giungere alla sua attualizzazione. Maria, malgrado l’età e la sua semplice preparazione culturale e teologica, capisce subito che un simile Mistero non può essere compreso e sviscerato con la sola forza della ragione, al contrario esso va principalmente accolto nelle viscere del proprio seno, ovvero va fatto proprio: come carne della propria carne, osso delle proprie ossa (cf. Gen 2,23), in quella cella segreta dello spirito umano, dove solo Dio può dimorare. È qui che si concretizza quella originaria intuizione davidica di dare una casa a Dio. Lo spirito è il luogo dove Dio più di ogni altro desidera abitare, essere adorato e glorificato (cf. Gv 4,21-24). La chiamata di Maria, dunque, al di là dell’unicità e irripetibilità che la caratterizza, è un evento dello Spirito e come tale, ciascuno di noi, è chiamato ad accoglierlo pienamente. Qui non si tratta di saper ragionare e neppure di avere qualità ascetiche, ma di essere totalmente disponibili all’opera che Dio intende realizzare in noi, per mezzo del suo Spirito. “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38), non è la formula suggestiva di una ragazza che nutre un forte anelito spirituale, ma la resa totale dinanzi all’opera di Dio, riconosciuto come l’Onnipotente, ovvero come Colui al quale nulla è impossibile (cf. Lc 1,37), neppure farsi uomo. Ella capisce che una simile opera potrà compiersi solo a condizione di lasciare lo Spirito libero di essere Dio in lei. Il che significa che il Mistero accade in lei non perché è capace di comprenderlo, bensì perché ha il coraggio di tuffarsi totalmente nell’abisso della sua apparente e assurda illogicità. La fede non s’origina da un atto di comprensione, che comunque non va escluso, ma da un atto di radicale fiducia, affidamento e abbandono alla Parola di Dio e di radicale certezza che ciò che lui chiede accade veramente (cf. Mc 9,23). Non a caso questo è proprio ciò che le viene riconosciuto dalla cugina Elisabetta, quando, ricevendola in casa, le dice: “Beata te che hai creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1, 45). Agli occhi di Elisabetta, Maria è beata non perché è Madre di Cristo, ma perché ha creduto nella promessa dell’Angelo. Guardare a Maria significa allora lasciare che lo Spirito agisca in noi nello stesso modo con cui ha operato in lei e ripetere le sue stesse parole: “Avvenga di me come tu hai detto”, tutte le volte che ci ritroviamo a sperimentare l’assurdità di questa e di altre promesse divine nell’oggi della nostra storia.




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