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23 Maggio 2021 - Pentecoste Anno B


At 2,1-11; Sal 103/104; Gal 5,16-25; Gv 15,26-26; 16,12-15


Pentecoste o Babilonia:

la scelta di una logica di vita relazionale


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Se l’Ascensione conclude il ciclo dell’esistenza terrena di Gesù, la Pentecoste apre quello della Chiesa nel mondo, inaugurando la “vita nuova in Cristo” (Rm 6,4), che san Paolo qualifica anche in termini di vita “secondo lo Spirito” (cf. Gal 5,16.25). Per questa specifica ed originaria opera dello Spirito mi piace associare la Pentecoste all’Annunciazione, specie in quell’affinità che l’evangelista Luca ci permette di rilevare all’inizio dei suoi due racconti biblici. Nel Vangelo lo Spirito “colma” della sua presenza il seno di Maria (cf. Lc 1,28), allo stesso modo con cui negli Atti degli Apostoli “riempie” il Cenacolo (cf. Lc 2,2), autentico grembo della Chiesa. Se attraverso Maria, lo Spirito, dà forma al corpo terreno di Cristo; tramite la Chiesa, lo stesso Spirito, dà forma al suo corpo mistico (cf. Gal 3,26-28). Nell’uno e nell’altro caso ci troviamo dinanzi a forme di fecondità che esaltano l’azione misteriosa dello Spirito: quella fisica e quella spirituale. La vita di fede necessita dell’una come dell’altra. Entrambe contribuiscono alla crescita “in età sapienza e grazia” (Lc 2,52) dell’unico corpo di Cristo (cf. Rm 12,4-5) che è la Chiesa.

La festa della Pentecoste[1] si presta ad una straordinaria ricchezza di spunti riflessivi che dà una luce nuova alle diverse manifestazioni dello Spirito nel corso della storia biblica, con le quali dischiude e realizza il piano divino della salvezza. Sarebbe un’impresa già pressoché ardua la sola citazione dei numerosissimi passi biblici dove si fa riferimento allo Spirito. Non è facile elencarle, tantomeno sviscerarle e commentarle. Per questa ragione mi limito al solo Nuovo Testamento, e più precisamente a Giovanni e Paolo, attingendo da loro il contributo di questo commento. Nel farlo vorrei raggruppare e sviluppare le loro considerazioni intorno a tre temi principali, nella speranza di suscitare in voi un rinnovato interesse per lo Spirito e favorire la vita spirituale che da essa scaturisce, al fine di alimentare e ridare vigore alla fede di ciascuno di voi. Tali temi potremmo così titolarli: l’intelligenza e la conoscenza della vita di Dio per mezzo dello Spirito (cf. Lc 24,45; Gv 14,20.26; 1Cor 2); la diversità e l’unità dei carismi, con cui egli manifesta la sua opera nella Chiesa, in vista dell’utilità comune (cf. 1Cor 12-14); la vita spirituale alla quale egli dà origine (cf. Rm 8). Essi, pur distinti, sono in realtà intrinsecamente interconnessi, tanto da rendere praticamente impossibile parlare dell’uno senza fare riferimento agli altri. Ciascuno di essi, com’è evidente, ha uno o più brani biblici di riferimento, ed evidenziano un aspetto e una funzione specifica dello Spirito, che lascio alla vostra intelligenza creativa individuare e approfondire il significato. Non vi limitate perciò solo ad una lettura informativa, ma sforzatevi di svilupparne soprattutto una formativa, o se si preferisce performativa, lasciando allo Spirito la possibilità di suggerirvi i tempi e i modi con cui assimilarne i contenuti. Non abbiate fretta: Dio ha pensieri, tempi e modi diversi dai nostri (cf. Is 55,8). Si tratta di entrare nella logica della sua vita relazionale e aderire alla sua mentalità, che è alla base di ogni autentica conversione, come attestano tutti coloro che interagendo con lui, hanno imparato ad accogliere i suoi pensieri, lasciandosi scandire da lui i tempi e i modi della conversione.

In merito al primo tema vi rimando ancora una volta al Discorso di Addio di Gesù (Gv 13,31-17,26), a testimonianza dell’estrema importanza che esso assume nel piano profetico di Cristo e nello sviluppo successivo della Chiesa. Diverse sono le citazioni in cui Gesù fa riferimento alla promessa dello Spirito e al suo compimento, durante questo discorso. Vi segnalo quelle principali, sulle quali anche voi potrete soffermarvi a meditare e sviluppare un contributo personale: Gv 14,16-20.25-26; 15,26; 16,7-15. Anche Luca fa riferimento a questa promessa e alla sua realizzazione in diversi brani del suo Vangelo: 11,13; 12,12; 24,49, e poi anche negli Atti degli Apostoli: 1,4-5.8; 2,1-4; 2,38; 4,31; 5,32. Matteo ne parla all’inizio e alla fine del suo Vangelo 3,11; 28,19-20; Marco, invece, la lascia intendere al momento del mandato battesimale di Cristo (cf. Mt; Mc 16,15-18).

Nel Discorso di Addio Gesù parla dello Spirito in termini di Consolatore o di Paraclito, il cui significato, sia pure con qualche leggera sfumatura, è sostanzialmente lo stesso. Si tratta di una terminologia proveniente dal mondo giuridico. Paraclito, infatti, deriva dal verbo “paracaleo”, che letteralmente significa “chiamare vicino”, per svolgere la funzione di “difensore” o “soccorritore”, durante un processo, e quindi di “avvocato”; per estensione di “consolatore”, ovvero di colui che sta dalla parte dell’accusato per difenderlo. Gesù parla dello Spirito come di un “altro Consolatore” (Gv 14,16), per distinguerlo dal primo, che è lui stesso, come attesta lo stesso Giovanni nella sua prima lettera (cf. 1Gv 2,1). Tale Spirito viene conferito con la specifica funzione di consolare i discepoli afflitti, a causa della drammatica situazione alla quale, l’imminente dipartita di Gesù, apriva la loro prospettiva di vita futura. Egli, consapevole della loro tristezza, si procura di consolarli, promettendo loro di “non lasciarli orfani” (cf. Gv 14,18). Lo Spirito viene dato, perciò, in primo luogo ai discepoli, poiché sono coloro che più di tutti hanno condiviso la vita di Gesù e la sua relazione di comunione col Padre, per questa ragione essi sono gli unici in grado di riconoscere e accogliere la dinamica con cui lo Spirito si manifesta. Gli altri, “il mondo”, con la loro logica di vita, non possono riceverlo, per il semplice fatto che non sono educati a conoscerlo e a riconoscere i segni della sua presenza e della sua azione. Si deduce, dunque, la necessaria partecipazione alla vita di comunione di Cristo, come condizione fondamentale di questo dono, senza la quale lo Spirito rischia di essere donato invano (cf. Gv 14,16-20). Basterebbe questo breve riferimento biblico, per capire quanto siamo lontani dalla dinamica comunionale di Cristo e quanto sono distanti dalla sua pedagogia educativa i nostri percorsi formativi, o meglio ‘in-formativi’, del sacramento della Confermazione.

Un’altra funzione dello Spirito è quella di svolgere tra i discepoli lo stesso ruolo di “insegnante”, svolto da Gesù: egli educa non solo a fare “memoria” di tutto l’insegnamento di Gesù, ma spiega loro anche tutto il suo significato (cf. Gv 14,25-26). Egli non parlerà da sé, né insegnerà altro da quanto udito da lui, ma li guiderà alla comprensione della “verità tutta intera”, la stessa esposta da Cristo durante il suo insegnamento (cf. Gv 16,13), quella cioè della sua relazione di comunione col Padre. La verità è la vita di Cristo col Padre nello Spirito. Si tratta di una visione di verità, alquanto diversa, rispetto a quella proveniente dall’insegnamento filosofico, dove la sua comprensione dipende esclusivamente da uno sforzo speculativo e la sua definizione assume una connotazione prevalentemente concettuale e razionale. Secondo questa prospettiva gnoseologica non sono le idee che generano una nuova visione della vita, ma è la vita dà origine ad una nuova forma di creatività e intelligenza spirituale, come sembra emergere dal passo giovanneo: “In lui (Cristo) era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). Quella di Cristo non è un’astrazione, ma la rivelazione di una relazione d’amore, di un vissuto relazionale che getta un fascio di luce sulla vita stessa di Dio, mentre illumina quella degli uomini. Lo Spirito allora, per mezzo della sua intelligenza, costituisce il vero esegeta della vita divina.

Gesù è pienamente consapevole che per ora gli apostoli non sono ancora in grado di comprendere e portare il peso di una simile verità (cf. Gv 16,12), perciò lo Spirito guiderà, in futuro, la loro intelligenza alla sua piena partecipazione e comprensione (cf. Gv 16,13-15). Egli “convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio” (Gv 16,8). Stando all’evangelista Giovanni, il peccato consiste nel non riconoscere l’origine e l’identità divina di Gesù. Questo mancato riconoscimento rende praticamente inefficace l’opera redentiva di Cristo e quindi la riconciliazione col Padre (cf. Gv 16,9-11). Gesù, inviando lo Spirito, consente all’intelligenza dei suoi discepoli di cogliere appieno il significato del piano salvifico del Padre, dispiegato nelle Scritture e, al contempo, di renderlo partecipe anche a tutti i popoli. È lo Spirito, infatti, che per mezzo del suo linguaggio d’amore, rende comprensibile il piano salvifico di Dio alle persone presenti in Gerusalemme nel giorno della Pentecoste, attraverso gli apostoli. Quella degli apostoli pertanto altro non è che la manifestazione di questa rinnovata intelligenza umana (cf. At 2,1-11).

È interessante rilevare la perfetta continuità tra l’opera di Cristo e quella dello Spirito. Entrambi sono concordi nella testimonianza del Padre, il cui obiettivo è la riconciliazione dell’uomo con lui. Tanto Cristo quanto lo Spirito non intendono far cadere l’attenzione degli altri su di loro, ma rivelare e rendere partecipi i discepoli della stessa verità e vita di comunione che essi condividono col Padre (cf. Gv 16,14-15; cf. Gv 15,26-27). È qui il segreto della verità e della logica relazionale che la costituisce: entrambi individuano il centro del loro io personale nella comunione d’amore col Padre. Una logica di vita questa con la quale faremmo bene a confrontarci, specie quando all’interno della Chiesa, cediamo alla tentazione di ostentare il nostro io, e considerare le qualità del nostro governo e della nostra intelligenza come condizione di dominio e di possesso e metro di giudizio nei confronti degli altri.

Anche san Paolo, attraverso i suoi scritti, offre un contributo notevole alla conoscenza dello Spirito e alla vita spirituale che da esso scaturisce. Più che trasmettere ciò che Gesù dice in merito allo Spirito, come fanno spesso gli evangelisti, egli, ancora più di Giovanni, sviluppa una riflessione teologica sulla vita spirituale e su ciò che essa comporta a livello ecclesiale. Durante tutta la sua attività predicativa egli fa suo il mandato missionario di Gesù: “andate in tutto il mondo e fate miei discepoli tutti i popoli”, sua l’opera battesimale di Dio: “battezzandoli nel nome del Padre, Figlio e Spirito Santo” e suo l’insegnamento dello Spirito: “insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (cf. Mt 28,18-20). Per lui essere discepoli di Cristo significa in primo luogo condividere la sua stessa causa evangelica e quindi promuovere e favorire lo sviluppo della sua Chiesa. La vita ecclesiale è allora vita nello Spirito, secondo la manifestazione carismatica dei suoi doni (cf. 1Cor 12-14). “Camminare secondo lo Spirito (cf. Gal 5,16), significa perciò condividere la stessa logica di vita dello e nello Spirito (cf. Rm 8). Non si tratta di un’altra vita, ma della stessa vita quotidiana trasfigurata dallo Spirito di Cristo, il quale impregna le relazioni umane dello stesso amore che circola nella vita trinitaria. Non più una vita individuale, dunque, vissuta all’insegna dell’egoismo, dell’egocentrismo, del possesso e del dominio dell’altro, ma una vita di comunione, realizzata secondo l’unità e la distinzione delle relazioni intratrinitarie. La vita nello Spirito è perciò la vita nuova in Cristo (cf. Rm 6,4). Quel Cristo che fino ad allora aveva vissuto fisicamente con gli apostoli, ora vive spiritualmente tra gli apostoli, per mezzo del comandamento dell’amore (cf. Mt 18,20). Cristo in loro e loro in Cristo: ecco lo specifico della vita ecclesiale e spirituale. Ecco l’opera del corpo mistico di Cristo che Paolo sente di dover realizzare attraverso la sua chiamata apostolica. Dovremmo imparare a considerare più da vicino la vita di questo straordinario testimone di Cristo e approfondire più attentamente il significato teologico dei suoi scritti, se intendiamo conoscere anche nella nostra vita personale l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo (cf. Ef 3,18-19), di cui egli viene reso partecipe e fatto divulgatore universale. È su questa esperienza che si fonda la possibilità di una rinnovata Pentecoste nella Chiesa. È lo Spirito che rende libere e dà credibilità alle nostre relazioni ecclesiali. Pertanto tutte le volte che in esse sperimentiamo frutti come: “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5, 22) è segno che stiamo camminando secondo lo Spirito. Diversamente quando nelle relazioni interpersonali percepiamo: “fornicazioni, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere” (Gal 5, 19-21) è segno che esse sono ancora condizionate dalla logica del mondo. Allo stesso modo tutte le volte che anche nella Chiesa percepiamo quel subdolo e strisciante tentativo di dominare sull’altro è segno che la logica imperialistica ed egemonica che alimentava l’idea babilonese di costruire una torre capace di raggiungere l’altezza del cielo, fino a confrontarsi con Dio, è ancora attiva in noi e tra noi. Come non vedere, per esempio, nella teoria genter, con la quale si cerca di uniformare la diversità sessuale, facendola dipendere solo da una scelta arbitrale dei soggetti, quell’antico progetto babilonese di annullare tutte le diversità e uniformare i popoli in base alla sola lingua dell’impero? Diversamente è proprio dello Spirito l’unità dei popoli, nel pieno rispetto della diversità dei generi, delle lingue, delle culture. Le ideologie uniformano e dividono l’amore unisce e distingue. Dove domina l’uniformità e la divisione lì opera il nemico, dove invece c’è unità e diversità lì è presente lo Spirito. A ciascuno la scelta di seguire la rispettiva logica di vita relazionale.


[1] Si tratta di una festa, come la Pasqua, che i cristiani ereditano direttamente dalla tradizione religiosa ebraica, celebrata al termine di un periodo di sette settimane (cinquanta giorni), a conclusione di tutte le festività pasquali. Con essa, inizialmente, gli ebrei celebravano la festa del raccolto e dei doni della terra e successivamente quella del dono della Legge, fatta a Mosè sul monte Sinai. Per i cristiani invece la Pentecoste diventa la festa dei doni dello Spirito.

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