23 Luglio 2023 - Anno A - XVI Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 22 lug 2023
- Tempo di lettura: 9 min
Sp 12, 13.16-19; Sal 85; Rm 8,26-27; Mt 13,24-43
La parabola:
il linguaggio preliminare del Regno di Dio
“Tutte queste cose Gesù disse alla folla in parabole e non parlava ad essa se non in parabole, perché si adempisse ciò che era stato detto dal salmista: Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” (Mt 13,34-35).
Ancora una volta la Liturgia ci propone una pagina evangelica tratta dal Discorso missionario di Gesù, durante il quale egli si impegna a spiegare ai suoi discepoli l’oggetto principale della sua predicazione: il Regno di Dio. E lo fa con una serie di parabole – sette per la precisione – con le quali egli li introduce nella comprensione del suo mistero, seguendo il metodo dell’analogia, ovvero paragonando il Regno a un elemento tratto dalla natura o dalla vita umana, che ne evidenzi un aspetto caratteristico. Non a caso quasi tutte le parabole sono caratterizzate dalla formula introduttiva: “Il Regno dei cieli è simile a …” (Mt 13,24.31.34). A testimonianza della difficile definizione del Regno, la cui essenza divina è intuibile solo attraverso un confronto con le realtà terrene. Durante il loro racconto egli giustifica anche l’uso di questo suo linguaggio parabolico, utilizzato prevalentemente nei confronti delle folle; ben diverso da quello usato con gli apostoli, ai quali “parlava loro apertamente del Padre” (Gv 16,25).
Questa distinzione di uditorio ci fa capire che Gesù disponesse di un duplice linguaggio: uno più a carattere semplice e introduttivo, riservato alle folle; l’altro più esplicito e diretto, riservato agli apostoli[1]. Una simile elasticità comunicativa ci interpella, perché da una parte ci fa prendere atto della sua metodologia missionaria, che variava a seconda dell’uditorio – elasticità tanto importante quanto impellente, specie nel contesto della nostra attuale evangelizzazione – dall’altra ci fa rendere conto di quanto siamo ancora molto lontani dal cogliere il senso di questa realtà divina. Anche a noi, infatti, nonostante la nostra prolungata familiarità con la fede cristiana, il Regno continua ad apparirci come un qualcosa di sconosciuto, che facciamo fatica a capire e perciò, come le folle, ci scopriamo ancora bisognosi di un linguaggio elementare, fatto di similitudini.
Cogliamo allora l’occasione per addentrarci maggiormente nel mistero di questa realtà divina, chiedendoci: A cosa allude Gesù quando parla del Regno di Dio? A quali immagini ricorre per spiegare la sua presenza operante nel mondo? In realtà queste domande non ci sono nuove, perché già domenica scorsa abbiamo in qualche modo risposto ad esse, quando abbiamo commentato la Parabola del seminatore (cf, Mt 13,3-9), con la relativa spiegazione (cf. Mt 13,18-23). Anche in quella circostanza Gesù, rifacendosi al profeta Isaia, spiega la ragione di questo suo linguaggio (cf. Mt 13,13-15), con qualche variante interpretativa. Egli, infatti, aveva notato che durante la sua predicazione, non tutti gli ascoltatori erano ben disposti ad accogliere il suo messaggio evangelico; alcuni perché si mostravano del tutto indifferenti al suo annuncio; altri perché rifiutavano e contrastavano apriori il suo insegnamento; altri infine perché facevano fatica a comprendere perfino il suo linguaggio. Da qui la ragione della parabola, la cui funzione, rispetto all’uso che ne fa Isaia, è quella di introdurre l’ascoltatore nel mistero del Regno, attraverso alcune metafore. Se parlare direttamente e apertamente del Regno era riservato solo agli apostoli, per le folle occorreva usare un linguaggio che permettesse loro almeno di immaginare come potesse essere la vita del Regno. In fondo la parabola ha questo di specifico: suscitare domande che favoriscono l’immaginazione e la riflessione, in modo da giungere così alla conoscenza anche delle verità più impegnative e nascoste. Questa innovativa interpretazione del linguaggio parabolico, sembra essere ulteriormente ribadita nel brano evangelico di oggi, dove Gesù, citando il Salmo 78,2, dice: “Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”. La parabola è dunque una metafora, un’immagine che al tempo stesso vela e svela, lasciando intravedere la misteriosa relazione divina che Gesù intesse col Padre. Ecco il nucleo vitale del Regno, che sta a fondamento del mondo e della vita relazionale; sul quale egli intende condurre l’attenzione degli ascoltatori. Un’operazione nient’affatto semplice, se avesse usato con loro un linguaggio, per così dire, teologico, come quello riservato agli apostoli, ai quali “parlava apertamente del Padre” (Gv 16,25), rivelando loro “i segreti del mistero del regno dei cieli” (Mt 13,11). Costoro, infatti, vivendo quotidianamente con Cristo, avevano acquisito una maggiore familiarità con la vita relazionale della sua origine divina. Il Regno dunque è essenzialmente costituito dalla relazione d’amore che passa tra Gesù, il Padre e lo Spirito, all’interno della quale egli intende introdurre i suoi ascoltatori, e a partire da loro, estenderla al mondo intero.
Ma quali sono le immagini alle quali Gesù ricorre per descrivere la realtà del Regno? Il brano evangelico di oggi ce ne presenta tre: quella della Zizzania (cf. Mt 13,24-30), del Granello di senape (cf. Mt 13,31-32) e del Lievito (cf. Mt 13,33). Questo primo gruppo prevede anche la spiegazione della parabola della zizzania (cf. Mt 13,36-43), che però, a giudizio di alcuni studiosi, pare essere un brano postumo, appartenente più alla prima comunità cristiana che non alla predicazione di Gesù[2]. Così mentre con la parabola del Seminatore Gesù provoca l’attenzione delle folle sulla tipologia dell’ascolto; con quella della Zizzania, fa loro luce su quelle forze nemiche che impediscono al Regno di Dio di radicarsi nel cuore dell’uomo e di espandersi nel mondo. Gesù identifica queste potenze ostili al Regno con l’azione del “nemico”, termine col quale egli qualifica la figura del diavolo. Anch’egli, al pari di Dio, opera nel mondo e la sua azione si manifesta attraverso coloro che ne sposano la logica perversa ed occulta.

Ma quali sono le origini del male e come si è introdotto nel mondo? È una domanda destinata a rimanere avvolta nel mistero. Il libro della Sapienza ne dà tuttavia un’interpretazione, quando dice che il maligno è entrato nel mondo per invidia dell’uomo, seminando morte e distruzione tra tutti coloro che aderiscono alla sua logica malvagia (cf. Sap 2,23-24). Gesù stesso sembra ribadire il carattere misterioso delle sue origini, quando afferma: “Mentre tutti dormivano venne il nemico” (Mt 13, 25), come a sottolineare la difficoltà a districarsi nel buio arcano della memoria storica, per venirne a capo. La sua azione è così intrecciata con la nostra esistenza che ci riesce particolarmente difficile distinguerla. Essa alberga dentro di noi come una legge misteriosa, che ci porta ad agire diversamente da quello che vogliamo, intralciando e condizionando i nostri pensieri, le nostre scelte, le nostre azioni, al punto che pur volendo fare il bene che vogliamo, ci ritroviamo a fare il male che non vogliamo (cf. Rm 7,14-25). Questo stato di cose fa del nostro cuore, ovvero del luogo dove maturiamo simili scelte, un autentico “campo di battaglia”, come afferma Dostoevskij, o un “guazzabuglio”, come ribadisce Manzoni. Spesso vorremmo persino risalire alle sue cause, per “sradicarlo” dal cuore, proprio come i contadini chiedono al padrone di farlo dal campo, ma non di rado la nostra volontà morale si scontra con queste forze maligne, fino a sfociare nella cruda realtà del peccato. Nonostante i nostri sforzi il potere del male sembra rimane fuori dalla nostra portata. In realtà neppure Gesù l’ha estirpato. Egli ci ha insegnato a combatterlo e a vincerlo, ma non a sradicarlo. È questa un’operazione che solo Dio potrà compiere, poiché solo lui sa distinguere il bene dal male (cf. Mt 13,28-30). Grano e zizzania sono infatti due piante molto simili che non è facile distinguere immediatamente a un occhio inesperto. La vittoria definitiva su di esso spetta solo a Dio, quando Cristo “consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza” (1Cor 8,6). L’unico atteggiamento che possiamo avere nei suoi confronti è quello descritto da Paolo, quando dinanzi alle ripetute richieste di essere liberato dalla sua “spina nel fianco”, Cristo gli rispose: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2Cor 12,9). Il male infatti è più grande di noi, per combatterlo è necessaria la grazia che viene da Cristo. La grazia, quando è accolta, si rivela di una straordinaria potenza rinnovativa e redentiva. Essa, come il granello di senape o come il lievito, è una porzione divina apparentemente esigua e limitata, ma dotata di un incredibile forza evolutiva e lievitante, capace di trasformare la propria forma originaria e l’intera pasta della nostra umanità.

Queste due ulteriori immagini ci offrono, allora, l’occasione per riflettere sull’apparente piccolezza del Regno di Dio, rispetto ai regni e alle suggestive realtà del mondo. Il Regno di Dio, se confrontato con tutti i sistemi filosofici e politici, che si sono susseguiti nella storia, come le diverse organizzazioni sociali, le figure regali, gli stili e i modelli di vita che essi hanno proposto, ci appare come quello meno attraente, eppure è quello che nel tempo si rivela come il più vero, autentico e duraturo. Pensiamo, per esempio, al Vangelo, come possibile modello di vita sociale a cui ispirarsi. Esso difficilmente gode di una stima culturale, politica, filosofica, sociologica, eppure nessuna organizzazione sociale promuove lo sviluppo dei singoli e della comunità, dando loro pienezza di senso esistenziale, quanto il Vangelo. Come non pensare, in questa ottica, a quella schiera innumerevoli di persone che, nel corso della storia, hanno trovato il senso e la pienezza della loro esistenza, nell’alveo della vita evangelica, esattamente come gli uccelli che vedono nella chioma dell’albero di senape la possibilità di trovare riparo per sé e per i propri piccoli nei nidi che hanno modo di costruire su di esso. Attraverso questa parabola, allora, Gesù intende invitarci a non cedere alle suggestioni del canto delle sirene, ovvero al fascino irresistibile delle realtà del mondo, poiché molto spesso dietro di esse si nasconde la logica perversa del maligno.

Un discorso molto simile vale anche per la Parabola del lievito, con la quale Gesù sembra invitarci a non ridurre il Vangelo a uno strumento per le nostre imprese imperialiste. Non sono pochi coloro che continuano ad immaginare l’evangelizzazione come a un mezzo di egemonia religiosa, culturale e politica nel mondo, come lo è stato per molti credenti nell’epoca della cristianità o durante le imprese colonizzatrici di alcuni paesi cristiani. E invece con questa parabola Gesù ci ricorda che noi siamo chiamati ad essere solo lievito, non pasta, ovvero pochi, piccoli, limitati e circondati di zizzania, poiché è così che lui intende salvare il mondo. Egli, infatti, non salva in virtù delle opere compiute da noi, ma con la sua misericordia (cf. Tt 3,5), e ciò non viene da noi, ma è un dono di Dio, … affinché nessuno possa vantarsene (cf. Ef 2,8-9). La parabola diventa così un ulteriore monito per ricordarci che siamo e saremo servi inutili: dormiamo o vegliamo il regno di Dio avanza (cf. Mc 4,27). Magari questo modo di agire di Dio può apparirci assurdo, al punto che, come afferma san Paolo, non sappiamo neppure cosa chiedergli o come procedere in modo conveniente nella nostra evangelizzazione. Ma è in queste circostanze che lo Spirito, facendosi interprete dei nostri gemiti inesprimibili, dei nostri aneliti più autentici e profondi, li consegna a Dio (cf. Rm 8,26-27), affinché si compia solo la sua opera nel mondo. Come non rileggere, in questa chiave, la profezia dimenticata dell’allora Card. Ratzinger il quale, durante un ciclo di lezioni radiofoniche tenuto nel 1969, così tracciava la propria visione sul futuro dell’uomo e della Chiesa: “Siamo a un enorme punto di svolta nell’evoluzione del genere umano … Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare negli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali”. Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede al centro dell’esperienza. “Sarà una chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico, flirtando ora con la Sinistra e ora con la Destra. Sarà povera e diventerà la Chiesa degli indigenti … un processo lungo, ma quando tutto il travaglio sarà passato, emergerà un grande potere da una Chiesa più spirituale e semplificata”. Allora e solo allora vedranno “quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto”.
In conclusione, cosa intendeva dire Gesù attraverso queste parabole? Secondo una certa mentalità religiosa il Messia avrebbe dovuto creare intorno a sé una comunità di gente pura e santa, e condannare i peccatori alla perdizione eterna. Gesù, con la sua predicazione, aveva effettivamente compiuto dei segni miracolosi che avevano dato adito ad una reale attività messianica, ma contrariamente alle attese, egli non aveva condannato al fuoco eterno nessun peccatore, anzi, li accoglieva con misericordia, rifiutando di esercitare quel giudizio che spetta solo a Dio (cf. Gv 12,47). Questo comportamento inatteso aveva generato persino la crisi del Battista (cf. Mt 11,2-6), il quale s’aspettava un’evidente manifestazione della giustizia divina finale. Gesù invece si limita a gettare il seme del regno, ad operare nel mondo secondo la logica del granello di senape, e a far lievitare la santità di Dio nel cuore delle persone. Tutte azioni apparentemente insignificanti, che contrastano con la mentalità trionfalistica del mondo, ma che rivelano la logica espansiva dell’amore evangelico. Così è per coloro che decidono di sposare la causa di Cristo.
[1] È interessante notare che tra tutti gli evangelisti, Giovanni sia l’unico a darci l’idea del linguaggio usato da Gesù con gli apostoli. Senza di lui noi non avremmo avuto alcuna possibilità di gettare, per esempio, lo sguardo nel mistero della relazione divina che intercorre tra Gesù, il Padre e lo Spirito; o di comprendere la natura trinitaria del Regno di Dio; o ancora di intuire la verità della vita eterna, come emerge dal discorso di Addio. Un linguaggio impegnativo, profondo, teologico, fatto per coloro che avevano acquisito una maggiore familiarità col mistero della vita divina. Più tardi sarà Paolo a sviluppare questo orientamento linguistico con le sue lettere. [2] Cf. I Vangeli, traduzione e commento a cura di G. Barbaglio – R. Fabris – B. Maggioni, Cittadella Editrice, Assisi 1978, 316.




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