23 Giugno 2024 - Anno B - XII Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 22 giu 2024
- Tempo di lettura: 7 min
Gb 38,1.8-11; Sal 106/107; 2Cor 5,14-17; Mc 4,35-41
“Passiamo all’altra riva”

“In quel medesimo giorno, verso sera, (Gesù) disse loro: ‘Passiamo all’altra riva’. E lasciata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: ‘Maestro, non t’importa che moriamo?’. Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: ‘Taci, calmati!’. Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: ‘Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?’. E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: ‘Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?” (Mc 4,35-40).
Al termine del discorso parabolico (Mc 4,1-34), tutto incentrato sul tema del “regno di Dio”, Marco ci presenta una serie di miracoli che sembrano rispondere alla domanda che i discepoli formulano alla fine di questo brano evangelico: “chi è costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?”. In realtà la domanda, sia pure in forma diversa, la ritroviamo già nel primo capitolo, sulla bocca di coloro che interagiscono con Gesù e si lasciano interpellare dalle sue opere e dal suo insegnamento: “Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda perfino agli spiriti impuri e gli obbediscono” (Mc 1,27); e addirittura sulla bocca degli indemoniati, i quali però reagiscono aggressivamente: “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?” (Mc 1,24). Ed è interessante notare che sia nei confronti degli indemoniati come nei confronti della tempesta, la risposta di Gesù è sempre la stessa: “Taci” (cf. Mc 1,25; 4,39). Come a dirci che tanto nell’uno quanto nell’altro caso Gesù ha sempre a che fare con delle entità malefiche che insidiano la vita dell’uomo e quella del creato. Si tratta di “spiriti impuri”, caratterizzati da un’identità personale e non solo di generiche forze demoniache, i quali proprio perché conoscono fin troppo bene Cristo fanno di tutto per ostacolarne la vera conoscenza,o quanto meno di depistarla, visto che Gesù “impedisce loro di parlare, perché lo conoscevano” (cf. Mc 1,34).
Al pari di questi interlocutori, anche noi vogliamo lasciarci interpellare da Gesù, dalle sue opere e dal suo insegnamento. E anche la nostra reazione può essere di stupore o di aggressione. L’uno o l’altro atteggiamento rivela la nostra vera intenzione nei confronti di Gesù. Nel tentativo di favorire una possibile scelta, Marco struttura il suo Vangelo come un cammino di fede, durante il quale il lettore è chiamato a dare una risposta personale a Gesù, sebbene l’evangelista riveli sin dagli inizi del suo Vangelo la meta di questo cammino, come attestano i vari appellativi che vengono riconosciuti a Gesù come “Figlio di Dio” (cf. Mc 1,1; 3,11), o ancora come “Santo di Dio” (cf Mc 1,24). Ma per quanto il lettore conosca già la meta del suo cammino, ciò non toglie che è chiamato a compiere le stesse tappe degli apostoli, con tutto ciò che esse comportano: dubbi, incertezze, paure, resistenze, scoraggiamenti, timori, ma anche slanci, conquiste, gioie, vittorie e conferme. Nello specifico, l’episodio evangelico di oggi, si rivela decisivo per gli apostoli, per un’autentica esperienza di fede. Da qui il tentativo di capire a quali condizioni anche noi possiamo prendere parte del loro cammino di fede.
Marco ci introduce nell’episodio con un invito che Gesùrivolge ai discepoli di ogni tempo: “Passiamo all’altra riva”. Passare all’altra riva ci rimanda immediatamente al cammino esodale, il che comporta un’uscita da sé, dal proprio Egitto, dalla propria terra, dalla propria visione di vita, dalla propria tradizione culturale, religiosa, ecclesiale e soprattutto dal proprio egocentrismo, che molto spesso impedisce di passare dalla fede nell’io alla fede in Dio. Uscire è la prima cosa che Dio chiede ad ogni chiamato, come ad Abramo. Senza questo atto il cammino di fede rischia di ridursi solo a una conoscenza teorica di Cristo, priva com’è di un vissuto relazionale fatto di fiducia reciproca. La fede, infatti, è non solo conoscenza di Gesù, ma soprattutto una relazione personale con lui, che richiede una progressiva adesione al suo Vangelo. Il che comporta la decisione di ‘salire’ con lui sulla barca della vita, o della Chiesa, e avere il coraggio di inoltrarsi anche negli eventi più rischiosi, come può essere una tempesta, o incresciosi, come può essere uno scandalo, così comuni di questi tempi; anzi così frequenti che rischiano di affondare la Chiesa e di far naufragare la nostra fede. Convinti, però, che questa ‘salita’ nasce solo da un atto d’amore, da una risposta all’invito di Cristo: “Passiamo all’altra riva”. Passiamo, cioè, all’altro modo di vedere la vita, quello di Dio. D’altronde avere fede significa vivere la stessa vita, con tutto ciò che essa comporta, ma dal punto di vista di Dio. Eppure questa fede, oggi, è così difficile. Da dove nasce questa difficoltà? Ed è indice di che cosa? Che forse è più sensato e leggero vivere da soli che con Dio? Non ha forse detto Gesù: “Prendete il mio giogo e imparate da me, perché io sono mite e umile di cuore; e troverete riposo per le vostre anime; poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero”? (Mt 11,29-30).
Si tratta però di salire sulla barca e prendere Gesù “così com’è”, ovvero così come lo conosciamo, per quel poco che sappiamo di lui o abbiamo sentito dire di lui. La fede, per come l’ha insegnata Gesù ai suoi apostoli, non prevede una fase teorica e poi una traduzione pratica. Per Gesù non esiste una scuola previa, ma egli introduce i suoi discepoli direttamente nel vivo della vita e della relazione con Dio. Ad avere fede s’impara credendo e a credere s’impara vivendo la relazione con Dio. Non esiste altro modo per imparare a pensare e a vivere la fede come Cristo. E ciò non avviene nelle situazioni idilliache, ma in circostanza drammatiche, quando cioè abbiamo la chiara percezione che la nostra vita è in pericolo, e che noi non abbiamo altro a cui appellarci se non a Cristo. “Nell’angoscia gridarono al Signore” – dice il salmista – “la loro anima languiva nell’affanno” (Sal 106).
Anche per noi, come per gli apostoli, sopraggiungono, prima o poi, situazioni in cui siamo chiamati a dare prova della fede. Si tratta di circostanze decisive che giungono inaspettate e apparentemente sembrano non avere alcun nesso con la nostra vita spirituale. Tuttavia, se vissute e interpretate alla luce di Dio, diventano fondative per noi e per gli altri. Talvolta queste circostanze possono apparirciparadossali, come nel caso dell’episodio evangelico, dove proprio colui che invita gli apostoli a “passare all’altra riva”, si addormenti nel momento di maggiore bisogno, e per altro col capo su un cuscino, che in altri luoghi viene detto di non avere nulla su cui posare il capo (cf. Lc 9,58). Mi ha sempre sorpreso questo comportamento di Gesù, da chiedermi come facesse a dormire in una simile circostanza. Si vede che disponeva di una tempra psicologica davvero straordinaria. Da qui la valenza simbolica dell’episodio, che allude a quelle volte in cui Dio ci appare assente, sordo o addirittura indifferente, proprio nelle situazioni più drammatiche. “Maestro, non t’importa che moriamo?”, chiesero gli apostoli a Gesù.
Per quanti di noi queste circostanze diventano motivo di imprecazione contro Dio, da indurci a ritenerlo perfino responsabile della nostra fine. Dio, dove sei? È la domanda che siamo soliti rivolgergli con un tono di rimprovero, quando invece sarebbe più giusto dire: Uomo, dove sei? (cf. Gen 3,9), evocando la domanda che Dio rivolge ad Adamo, all’indomani della sua decisione di sottrarsi alla relazione con Dio. Non è forse vero che anche noi facciamo di tutto per vivere senza Dio e poi accusarlo di essere responsabile delle conseguenze delle nostre scelte? Più che Cristo, allora, sembra che sia la nostra fede ad assopirsi in queste circostanze. Quella descritta da Marco è chiaramente una situazione limite, tipica di quelle in cui Dio mette a dura prova la nostra fiducia in lui. In situazioni così difficili i problemi sembrano accavallarsi e sopraggiungere tutti insieme, senza esclusione di colpi, da toglierci il respiro. Essi rendono così offuscata la vita che il futuro ci appare seriamente compromesso, o per lo meno sperimentare la difficoltà a intravedere l’alba di un nuovo giorno. Anche la notte, allora, durante la quale si scatena la tempesta, non fa che evocare quei momenti di crisi profonda, dove la luce della nostra ragione sembra affievolirsi, da non avere più la capacità di vedere in modo nitido e chiaro le cose. In queste circostanze le onde delle nostre paure ci appaiono più potentiche mai, da risvegliare in noi le angosce più ancestrali, sballottandoci qua e la, fino a farci perdere il controllo totale della vita e mandarci alla deriva. “Perché siete così paurosi?Non avete ancora fede?” chiede Gesù. Anche se non possiamo escludere un tono di rimprovero, le sue domande ci invitano ad andare alle radici della nostra fede e a capire cos’è che la rende così fragile? E forse è proprio così che capiamo che la fragilità è spesso determinata dalle nostre paure, dai nostri dubbi, dalle nostre incertezze, dalle nostre indecisioni. In effetti, proprio quando non abbiamo più nessuno a cui fare riferimento o risorsa umana a cui appellarci, Cristo si rivela in tutta la sua straordinaria potenza. “Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: “Taci, calmati! Il vento cessò e vi fu grande bonaccia”. In cosa consiste la “bonaccia” a cui Gesù riporta il mare e il vento? Egli non elimina le loro tensioni, ma le riporta al loro equilibrio naturale. Già a suo tempo il filosofo Eraclito (VI-V sec. a.C), aveva espresso molto bene questo delicato e fragile equilibrio dell’armonia: “Se esistono nell’universo degli opposti, delle realtà che paiono non conciliarsi, come l’unità e la molteplicità, l’amore e l’odio, la pace e la guerra, la calma e il movimento, l’armonia tra questi opposti non si realizzerà annullando uno di essi, ma proprio lasciando vivere entrambi in una tensione continua. L’armonia non è assenza bensì equilibrio di contrasti”. Avere fede significa allora riconoscere Dio come il solo che può dominare queste forze naturali. Il solo che può riportarle al loro naturale equilibrio. Esse diventano malefiche se sbrigliate e lasciate a se stesse.
Quel Dio o quella fede che sembravano assopiti da tempo, improvvisamente sembrano riemergere alla nostra coscienza. Davanti a questo straordinario prodigio, anche noi, come gli apostoli, vogliamo lasciarci stupire e sorprendere da Cristo. Non importa se non sappiamo ancora definire la sua identità divina. D’altronde anche la fede degli apostoli, almeno in questa fase del loro cammino, rimane ancora allo stato interrogativo: “Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?”. Magari ci saremmo aspettati già una professione di fede, come quelle manifestate dagli spiriti impuri: “Io so chi tu sei: il santo di Dio! (Mc 1,24), o “Tu sei il Figlio di Dio” (Mc 3,11), e invece Marco si limita a descrivere solo il “timore” degli apostoli. Può sembrare poco, ma il timore, ovvero la percezione della grandezza di Cristo e della sana inquietudine spirituale che ne deriva, costituisce una straordinaria leva per sollevare la fede dalle profondità del nostro torpore spirituale. Il suorecupero, tuttavia, dipende dal coraggio che abbiamo di rispondere all’invito di Gesù: “Passiamo all’altra riva” e di intraprendere insieme a lui l’avventura della fede.




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