23 Gennaio 2022 - Anno C - III Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 22 gen 2022
- Tempo di lettura: 6 min
Ne 8,2-4a.5-6.8-10; Sal 18/19; 1Cor 12,12-30; Lc 1,1-4; 4,14-21
Il compimento della profezia
nell’oggi della fede

“Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi …, anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teofilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto” (cf. Lc 1,1-4). Quelli appena ascoltati sono i versetti con i quali Luca spiega le ragioni che lo hanno spinto a scrivere il suo “resoconto” sulla vicenda storica di Gesù, il cui scopo è quello di far prendere coscienza della “solidità” della fede in Cristo.
Vediamo allora come pervenire a questo fondamento “solido” della fede. Intanto partiamo dal destinatario del suo Vangelo che egli qualifica come “Teofilo”. Letteralmente significa “amante di Dio” o “amato da Dio” (dal greco theos = Dio e philos = amico, amato, amante). Dal significato del nome si capisce allora che ciascuno di noi, nella misura in cui si scopre amato da Dio o amante di Dio, può essere il destinatario del suo Vangelo. Costui, nell’intenzione dell’autore, non può limitarsi ad ereditare passivamente la fede, al contrario, è chiamato a “mettere ordine”. Il termine “ordine”, al quale si riferisce Luca, non consiste solo nel dare la giusta collocazione alle cose ricevute dalla tradizione, ma porle in relazione tra di loro, in modo da scoprirne il senso. Mettere ordine significa allora esplicitare, verificare e fondare il loro contenuto.
Per comprendere più chiaramente il compito che Luca chiede al suo destinatario è opportuno un riferimento biblico. Mettere ordine è un atto di intelligenza creativa ed è lo stesso col quale Dio, dopo avere creato la materia informe, le conferisce un ordine, ovvero le dà una forma, una vita, un senso. La Bibbia, come anche la filosofia, traduce questo atto divino con un’operazione che consiste nel passaggio dal caos (assenza di ordine) al cosmos (mettere ordine)[1]. Passare dal caos al cosmos è quanto ciascuno di noi è chiamato a fare con tutta quella serie di dati e informazioni – apparentemente disordinati – come: eventi, fatti, esperienze, racconti, letture, ricordi … che eredita dalla tradizione religiosa, ai quali deve dare un senso logico, al fine di “comprendere quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità” (Ef 3,18) dell’amore che Dio ci ha rivelato in Cristo Gesù, ed essere “pronti a dare ragione a chiunque ce ne domandi conto” (cf 1Pt 3,15). Mettere “ordine” nelle cose della fede significa, in ultima analisi, intuire il Verbo di Dio, ovvero la ragione, il senso, lo scopo del disegno salvifico di Dio, per mezzo del quale e in vista del quale egli ha fatto ogni cosa (cf. Gv 1,3; Col 1,15-20; Eb 1,1-3).
L’odierno brano evangelico fa tuttavia riferimento anche ad un altro “inizio”, e precisamente quello relativo alla vita pubblica di Gesù e che Luca fa coincidere col discorso inaugurale che lui tiene nella sinagoga di Nazaret. Due “inizi”, dunque, caratterizzano questo brano biblico: quello del Vangelo (1,1-4) e quello della predicazione pubblica di Gesù (4,14-21), che la liturgia associa diligentemente tra loro come se fossero due parti di una sequenza unitaria. Questa associazione liturgica si rivela come un’interessante intuizione, che posta all’inizio del nuovo anno liturgico, ci guiderà a scoprire il mistero rivelativo di Cristo. Anche noi, allora, mossi dallo stesso desiderio lucano ci apprestiamo a commentare quest’esordio nazaretano di Cristo, del quale domenica prossima scopriremo un esito piuttosto sorprendente.
Proviamo allora a ricostruire la scena. Luca ci racconta del ritorno di Gesù al suo paese d’origine, dopo che la notizia della sua fama si era sparsa un po’ dovunque. I Nazaretani, mossi evidentemente anche da un orgoglio paesano, decidono di invitarlo nella loro sinagoga, per un momento di preghiera comunitaria. Gesù accetta l’invito e come era solito fare già prima di trasferirsi a Cafarnao[2], si reca di sabato nella sinagoga, dove, seguendo la tradizionale liturgia della preghiera[3], sale sulla tribuna di legno (che corrisponde al nostro ambone) preposta per la proclamazione della Parola di Dio, legge e commenta un brano del profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore” (Is 61,1-2). Tutto si svolge in un clima solenne che non nasconde però la particolare euforia, dovuta anche all’incontro cosi atteso con quel concittadino illustre e autorevole, quale si era rivelato Gesù. L’evangelista Luca – come un esperto narratore – si sofferma però solo su alcuni momenti della celebrazione, in modo particolare quello in cui Gesù, una volta consegnato il rotolo del profeta, sta per cominciare il suo commento. “Gli occhi di tutti erano fissi su di lui”, ci dice Luca, come a volere sottolineare l’intrepida attesa che l’assemblea manifesta nell’ascoltare la novità della sua parola.
Ma inaspettatamente accade un imprevisto. Gesù fa un commento estremamente sobrio, limitando il suo intervento alle seguenti parole: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. Non sappiamo se Gesù si sia effettivamente limitato a dire solo queste brevi parole o se esse siano la sintesi che Luca fa del suo commento. Sta di fatto che costituiscono il nucleo vitale del commento a cui dovrebbe ispirarsi ogni evangelizzatore. Lungi dal prolungarsi Gesù va diritto all’essenziale, concentrando l’attenzione degli ascoltatori esclusivamente sulla sorprendente attualità di quella profezia isaiana: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete ascoltato”. Egli pone l’accento solo sul compimento della profezia nell’oggi della fede. Pertanto mentre Isaia si era limitato a prefigurare quell’evento egli ne stabilisce l’accadimento storico. Parola e vita diventano nella sua persona un tutt’uno inscindibile. Essa costituisce l’accadere stesso di Dio tra gli uomini. La credibilità della sua persona sta nel far vedere ciò che dice, mentre l’autenticità della sua parola sta nell’esplicitare ciò che compie. La sua parola è tanto persuasiva da poggiare sulla testimonianza della sua vita. Il segreto della sua autorevolezza è tutto qui: Gesù fa ciò che dice e dice ciò che fa. In lui la Parola di Dio diventa la vita degli uomini, esattamente come afferma Giovanni nel Prologo: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). In Cristo la parola di Dio manifesta tutto il suo potere creativo, comunicativo e fattivo. In questo senso l’oggi della fede di cui parla Gesù si compie tutte le volte che come lui rendiamo credibile, visibile e concreta la Parola di Dio con la nostra testimonianza di vita.
In un contesto culturale e sociale come il nostro, dove la parola sembra essere stata svuotata del suo significato originario e i fatti sembrano essere ridotti solo ad eventi casuali, privi di significato, il commento di Gesù sulla profezia di Isaia diventa un monito per chiunque è chiamato ad esercitare nella Chiesa l’ufficio dell’insegnamento o della “docenza”, come lo definisce san Paolo (cf. 1Cor 12,28), e più estesamente, per chiunque svolge il compito dell’evangelizzazione e della catechesi. In particolare per noi sacerdoti che ci ritroviamo a svolgere un compito così delicato e decisivo nella Chiesa, come l’omelia, spesso ridotta ad uno sterile e noioso discorso personale. Più che mai si avverte l’esigenza profetica di lasciar parlare Dio attraverso la nostra parola, così da renderlo visibile con la nostra persona. Da qui l’impellente bisogno di evangelizzatori che sappiano liberare la Parola di Dio di quegli inutili orpelli o commenti retorici, tesi spesso ad ostentare la propria capacità oratoriale, per dire solo ciò che serve, così da renderla “viva ed efficace” (Eb 4,12), capace cioè di penetrare nel cuore delle persone e generarvi la vita stessa di Dio, che fa perennemente nuove tutte le cose di prima (cf. 2Cor 5,17; Ap 21,5).
[1] Basterebbe leggere i primi due capitoli della Genesi per rendersi conto di questa operazione divina. [2] Cafarnao costituiva un po’ il ‘quartiere generale’ di Gesù e della sua piccola comunità di discepoli. Egli aveva deciso di trasferirvisi all’inizio della sua vita pubblica, poiché rispetto a Nazaret, situata nell’entroterra della Galilea, sorgeva sull’omonimo lago (lago di Cafarnao o di Genesaret, a seconda della città di riferimento), per questa ragione offriva maggiori possibilità di interazioni con le persone. Ed è proprio sulla riva di questo lago che egli incontra, conosce e chiama i primi discepoli alla sua sequela. [3] Gesù, in questo momento di preghiera, segue il rituale previsto dalla liturgia della parola che si rifà allo schema descritto nel libro di Neemia 8,2-4a.5-6.8-10 (prima lettura), dove compaiono importanti elementi liturgici che struttureranno in seguito anche la preghiera settimanale cristiana. La sinagoga costituisce il luogo ufficiale della preghiera, a seguito della distruzione del tempio e della deportazione degli ebrei in Babilonia, i quali non disponendo più di un luogo dove offrire i propri sacrifici a Dio trasformarono le case private o pubbliche in luoghi dover riunirsi per la loro preghiera.




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