23 Febbraio 2025 - Anno C - VII Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 22 feb
- Tempo di lettura: 5 min
1Sam 26, 2.7-9.12-13.22-23; Sal 102/103; 1Cor 15, 45-49; Lc 6, 27-38
Perfetti nella misericordia

“Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36). È la formula con la quale Gesù sembra sintetizzare tutto il Discorso sulle beatitudini, che la Liturgia ci sta proponendo in queste domeniche. Nella versione matteana troviamo un’espressione molto simile a questa: “Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). La “misericordia” del Padre costituisce per Gesù l’ideale di “perfezione” a cui i suoi discepoli devono tendere durante la loro vita. Essa è il vertice delle beatitudini. Non c’è beatitudine più perfetta di chi si compiace dell’amore di Dio. In realtà con questa esortazione Gesù non fa che riformulare l’ideale di santità richiesto da Dio, attraverso la legge mosaica: “Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo (Lv 19,2). L’amore costituisce perciò la manifestazione della santità di Dio. Così, accanto alle sollecitazioni sociali che ci inducono alla perfezione nelle varie discipline umane, come quella fisica, sportiva, professionale, artistica, poetica, musicale, matematica, scientifica … Gesù ci invita a diventare perfetti nell’amore. Cristiano è colui che decide di specializzarsi nell’arte dell’amore.
Ma è possibile raggiungere la perfezione dell’amore divino? Non c’è la possibilità che questo ideale esponga al rischio dell’illusione o della presunzione? La risposta di Gesù impedisce ogni illusione o deriva spirituale. La forma d’amore che egli richiede ai suoi discepoli nasce da un’esperienza pratica e concreta, maturata direttamente sul campo, sedimentata ed espressa nelle seguenti formule: “amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Dà a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro” (Lc 6,27-30). In altre parole si tratta di: “fare agli altri quello che vogliamo che gli altri facciano a noi” (Lc 6,31). Ecco la regola d’oro che è alla base di ogni tipo di relazione umana. Essa costituisce il criterio per chi intende determinare le condizioni per una migliore qualità della vita. Seguire Gesù significa, allora, aver fatto la scelta preferenziale dell’amore. Nulla, dunque, che possa esporre al rischio dell’illusione, dell’orgoglio o del giudizio. Non a caso Gesù continua dicendo: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato … perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio” (Lc 6,37-38).
In questo consiste la perfezione dell’amore. Amare come Dio significa, perciò, fare della propria vita una perenne donazione di sé all’altro, esattamente come ha fatto Gesù, per il quale “non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Questa forma d’amore costituisce per Gesù il compimento della legge. È a questo che si riferisce quando, dice: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti, non sono venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17). Se la legge mosaica prevedeva di “Amare Dio con tutte le forze … e il prossimo come se stessi” (Lv 19,18; cf. Lc 10,25-28; Mc 12,29-31; Mt 22,37-40), il comandamento di Gesù richiede la totale disponibilità a dare perfino la propria vita per Dio e per il prossimo. Ecco il limite estremo a cui Gesù conduce l’amore. Nessun altro, prima di lui, aveva osato chiedere così tanto e si era spinto così oltre nella pratica dell’amore.
Davanti a tutto ciò qualcuno potrebbe obiettare che anche a livello umano esistono forme d’amore così estreme e gratuite come, per esempio, quello materno. Sebbene nessuno possa mettere in discussione questa straordinaria forma d’amore è anche vero che essa si manifesta per lo più a livello filiale. La stessa madre, infatti, che è disposta a dare la vita per il figlio, trova già difficoltà a darla per il marito. Figuriamoci poi se una madre sarebbe disposta a consegnare il proprio figlio nelle mani dei nemici, come testimonianza d’amore per loro. Ebbene Dio si è spinto fino a questo limite, dando il proprio Figlio nelle mani dei carnefici. San Paolo nella lettera ai Romani dice che già è difficile trovare qualcuno che sia disposto a dare la vita per un giusto, figuriamoci per un peccatore (cf Rm 5,7). Gesù, invece, prevede la possibilità che i suoi discepoli siano disposti non solo a manifestare attenzione verso i nemici (Lc 6,27), ma persino a dare la vita per loro (cf. Gv 15,13).
Riconsiderando più attentamente questa forma d’amore di Gesù, viene da chiedersi: ma cosa lo induce ad essere così generoso e disponibile nei confronti degli altri? Questo suo ideale non rischia di diventare utopico, per noi che, invece, facciamo fatica già a donare un semplice oggetto di nostra appartenenza? In un contesto culturale e sociale come il nostro, poi, profondamente egoico, dove a stento riusciamo a uscire dal nostro egocentrismo e a vedere oltre noi stessi, cosa dovrebbe indurci ad amare l’altro e a credere che la logica della misericordia sia vincente su quella dell’odio? Si tratta allora di capire cosa anima il cuore di Gesù e scoprire il segreto del suo amore; poiché è a questo livello che anche noi possiamo persuaderci a praticare il bene piuttosto che il male; benedire invece di maledire; porgere l’altra guancia quando già una è stata percossa; praticare la gratuità verso chi professa l’interesse; essere benevoli con chi ci calunnia; essere generosi con chi ci porta via il salario e perfino il lavoro; restare miti dinanzi a chi oltraggia il nostro nome … Tutte forme di altruismo che risultano assurde e incomprensibili se il nostro cuore non è animato da quella traboccante eccedenza d’amore che Dio ha “riversato” nel cuore di Gesù e continua a riversare, senza misura, nel nostro cuore e nel cuore di tutti i “giusti e ingiusti”, indipendentemente dalla loro disponibilità, generosità, gratitudine o malvagità (cf. Lc 6,35.38). A cosa potremmo paragonare questo amore se non al sole che continua a irraggiare, a riscaldare e a illuminare ciascuno di noi, anche quando le nubi del nostro peccato ne precludono la vista, ne opacizzano la luce e ne diminuiscono il calore?
La misericordia, specie quando si manifesta nella forma del perdono, è la forma più matura dell’amore e può essere praticata solo da chi dispone dello stesso e infinito deposito della misericordia di Dio. Proprio come fa Davide nei confronti di Saul, nell’episodio che la liturgia ci propone quest’oggi (1Sam 26, 2.7-9.12-13.22-23). Davide, nominato segretamente da Samuele re d’Israele, viene introdotto nella corte del re Saul, il quale a seguito delle sue imprese vittoriose, comincia a vederlo come una seria minaccia per il trono. Durante la sua permanenza al palazzo, Davide viene ripetutamente sottoposto a delle prove, come pretesto per trovare in lui un motivo di che accusarlo. Malgrado tutto Davide riesce vittorioso in ogni impresa. L’invidia rode il cuore di Saul, al punto da deciderne la morte; per scampare alla quale Davide fugge nel deserto di Zif, dove continua ad essere perseguitato dal re. Durante una notte, però, Davide ebbe l’occasione propizia: entrò furtivamente insieme ad alcuni suoi compagni nell’accampamento del re e mentre tutti dormivano profondamente, Abisài, suo nipote, chiese il permesso di uccidere il re. Davide, pur potendo, impedì di compiere un simile gesto; ma nell’andarsene portò via la lancia e la brocca d’acqua del re. Al mattino, quando giunse ad una distanza debita dall’accampamento, si recò sulla cima di un monte là vicino e gridando mostrò al re la sua lancia, a testimonianza della possibilità che aveva avuto di vendicarsi, ma vi rinunciò per l’amore che nutriva verso il consacrato del Signore. Ravveduto da questo gesto di perdono, Saul si pente e riaccoglie Davide nel suo palazzo. Come non leggere questo gesto di Davide alla luce della parabola del figliol prodigo, quando il padre, rivolgendosi al figlio maggiore, dice: “questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,32). Così è per ciascuno di noi che torna a sperare nel Padre dopo un’esperienza di peccato; così è per coloro ai quali concediamo il perdono dopo essere stati oggetti delle loro offese.




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