23 Aprile 2023 - Anno A - III Domenica di Pasqua
- don luigi
- 22 apr 2023
- Tempo di lettura: 5 min
At 2, 14.22-33; Sal 15/16; 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35
“Spiegarela parola” e “spezzare il pane:
i criteri lucani per riconoscere il Risorto

“Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti. Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui … Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (Lc 24,25-27.30).
L’evangelista Luca descrive così i momenti fondamentali in cui i due discepoli di Emmaus riconobbero il Risorto. Per lui i gesti dello “spiegare la Parola” e dello “spezzare il pane” compiuti da Gesù costituiscono i criteri per comprendere il senso della sua “passione e morte” e per riconoscerlo nella veste del Risorto. In effetti “spiegare la Parola” e “spezzare il pane” sono indissociabili: l’uno si comprende e si completa alla luce dell’altro. Non si può spiegare il senso pieno della Parola, senza spezzare o, se vogliamo, rinnegare il proprio io, la propria cultura, la propria ragione. D’altra parte non è possibile spezzarsi o, più chiaramente, farsi dono per l’altro senza aver compreso la ragione dell’amore oblativo di Cristo.
Questi due criteri lucani ci danno modo allora di sviluppare ulteriormente il discorso di domenica scorsa. Anche noi, infatti, come i due discepoli di Emmaus siamo spesso attraversati da situazioni così tristi e dolorose da non avere più gli “occhi capaci di riconoscerlo” (cf. Lc 24,16). Si capisce allora la necessità di acquisire i suoi criteri per imparare a vivere da risorti nel quotidiano della nostra vita ecclesiale. Ancora una volta, dunque, la partecipazione personale alla sofferenza di Cristo diventa la condizione fondamentale per “entrare nella sua gloria” (Lc 24,26). Pertanto, come Tommaso, anche i due discepoli sembrano invitarci a ripercorrere le tappe della loro esperienza di fede, per andare oltre le piaghe delle nostre sofferenze.
Ma come si fa a passare attraverso la sofferenza? Di solito quando si fa questo tipo di esperienza nella vita la reazione più istintiva e naturale è quella di schivarla o rifiutarla, e invece stando all’insegnamento di Gesù sembra che sia inevitabile attraversarla, come attesta anche il suo rimprovero: “Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24, 25-26). Per Gesù, dunque, la salvezza è oltre la piaga. Si rivela interessante perciò a questo riguardo l’interpretazione che il Card. Martini dà di questo brano lucano, quando nel commentare il “cammino dei due discepoli verso Emmaus” lo ritiene come una sorta di fuga da Gerusalemme. L’invito che invece Gesù rivolge loro è quello di ritornare sul luogo della “sua passione e morte”. Si comprende in questa chiave la ragione per cui egli: “cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”. Il che significa che occorre necessariamente ripercorrere a ritroso certe esperienze dolorose se s’intende comprenderne il senso. E per farlo non c’è altro modo che farne memoria, ovvero rileggerle alla luce del piano rivelativo e salvifico di Dio, esattamente come Cristo fa con i due discepoli. Gesù, infatti, nello “spiegare le Scritture” non ripercorre tutta la storia della salvezza, ma si limita ad offrire loro i criteri per interpretare le testimonianze di quei profeti che nella loro sofferenza hanno lasciato intravedere quella del messia salvatore. Basti pensare ai Canti del Servo sofferente del profeta Isaia. Spiegando le Scritture Gesù spiega la loro intelligenza, toglie cioè, dalla loro mente, quelle ‘pieghe culturali’ che ostruiscono la comprensione del senso pieno del piano rivelativo di Dio[1]. E chi più di lui poteva offrirne le chiavi di lettura, i criteri per comprenderlo e darne la spiegazione più autentica. Nessuno più di lui ha ricapitolato nella sua vita la sofferenza del mondo, trasformandola in luogo salvifico. È in lui che tutte le sofferenze dell’umanità, qualunque sia la loro forma o condizione, trovano il loro senso e il loro fine.
Spiegare significa allora educare i discepoli a compiere il delicato atto della fede, quello cioè che consente di passare dal vedere fisico al vedere spirituale[2]. È compiendo questo passaggio nel sepolcro che Pietro e Giovanni hanno “visto e creduto” nella risurrezione di Cristo (cf. Gv 20,8). È chiara allora la ragione per cui i due discepoli di Emmaus, pur camminando con lui non riescono a riconoscerlo. Essi non avevano ancora compiuto questo passaggio. “Spiegando loro le Scritture” Gesù li abitua a vedere la sua vita gloriosa oltre la “passione e morte”. Non che Cristo fosse un’altra persona rispetto a Gesù. Tutt’altro. Solo che ora egli si mostra loro in un’altra forma, non più fisica, ma spirituale, quella appunto del Risorto. Forma alla quale essi non erano affatto abituati, perché era del tutto fuori da ogni parametro esperienziale. Per questa ragione essi dovevano superare la tristezza che impediva loro di vedere Gesù nel nuovo modo di essere in mezzo a loro. Per farlo essi avevano bisogno di partecipare alla sua sofferenza. Ed è quello che Gesù fa “spezzando il pane”.

“Spezzare il pane” non è solo un gesto rituale e liturgico, ma costituisce il momento in cui essi decidono di condividere fino in fondo la “passione e morte di Cristo”. È qui che si dischiude la loro intelligenza spirituale, come attesta lo stesso Luca: “Si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (Lc 24,31). Ciò significa che il mistero eucaristico si svela alla nostra intelligenza nella misura in cui riusciamo a spezzare o meglio a rinnegare la nostra mentalità egocentrica, per far dono della nostra vita agli altri, come ha fatto Gesù. La frazione del pane, perciò, sta a significare che la nostra intelligenza spirituale non si esaurisce nella comprensione intellettiva, ma si completa e raggiunge la sua pienezza nella comunione eucaristica, ovvero nella partecipazione piena all’amore oblativo di Cristo per il mondo. È a questo punto che essi “partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro; i quali dicevano: Davvero il Signore è risorto” (Lc 24,13-14). L’eucaristia diventa così il nucleo propulsivo che permette alla prima comunità ecclesiale e ancora oggi a noi, di irraggiare nel mondo la luce del Cristo risorto.
[1] In realtà Gesù ha sempre svolto questo tipo di attività, durante tutta la vita, come nel caso della spiegazione delle parabole (cf. Mc 4, 33-34). [2] Si tratta di uno sguardo a cui i Vangeli accennano già durante l’esperienza della vita terrena di Gesù, come l’episodio di Pietro, quando a Cesarea di Filippo intuisce per la prima volta, nella persona di Gesù, la presenza del Cristo (cf. Mc 16,15-20).




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