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24 Aprile 2022 - Anno C - II Domenica di Pasqua

Aggiornamento: 24 apr 2022


At 5,12-16; Sal 117/118; Ap 1,9-11.12-13.17-19; Gv 20,19-31


Chiamati a passare

dalla fede in Gesù storico al Cristo Risorto


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Se il tempo quaresimale ci ha predisposto ad assimilare la logica della passione, quello pasquale ha la funzione di abituarci alla vita del Risorto, durante il quale lo Spirito apre gradualmente la nostra intelligenza alla comprensione del mistero di Cristo, come quella degli apostoli che lo riconobbero “Messia, Signore e Salvatore”, come traspare dal Discorso di Pietro a Pentecoste: “Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2,36) e ribadito, con maggiore vigore, anche nel Discorso davanti al Sinedrio: “Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvi” (At 4,11-12). Per noi, oggi, questa comprensione apostolica necessita di essere tradotta nel passaggio da una fede tradizionale e individualista ad una fede evangelica ed ecclesiale.

Si capisce allora il senso dei numerosi Racconti delle apparizioni e del costante riferimento al libro degli Atti degli Apostoli che la Liturgia ci propone in questo tempo pasquale, come a voler rispondere a quelle domande che attraversano perennemente il cuore di ogni credente: come e dove è possibile incontrare il Risorto? E quali sono le condizioni che fanno della nostra fede individuale una fede ecclesiale? In questa prospettiva il brano evangelico dei Due discepoli di Emmaus, previsto per la Domenica di Pasqua, si profila come l’icona della Chiesa che cammina accanto a ciascuno di noi, come maestra e compagna della nostra fede. Magari anche la sua presenza, come quella di Cristo, ci appare talvolta misteriosa, sconosciuta e a tratti quasi irritante (cf. Lc 24,18). Ma come Cristo anch’essa si accosta con discrezione, proponendoci la sua millenaria sapienza come luogo esplicativo di senso di un’esistenza che spesso ci risulta assurda e incomprensibile, esattamente come la passione e morte di Cristo erano apparse tali ai due discepoli. Indubbiamente anche a noi le parole di Gesù urtano la nostra sensibilità e scuotono profondamente la nostra coscienza: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,25-27). E ciò accade specie quando ci scopriamo “sordi e duri di cuore”, quando cioè facciamo fatica da aderire o addirittura rifiutiamo la logica della passione di Cristo. Tuttavia è proprio quando decidiamo di lasciarci “spezzare” la nostra “dura cervice” (Es 32,9) che egli si dischiude alla nostra intelligenza, permettendoci di vederlo e riconoscerlo nella veste del Cristo Risorto (cf. Lc 24,30-31).

Non è forse a partire da questo incontro personale con Cristo nella sofferenza che anche noi, oggi, riusciamo a incarnare il suo Vangelo, come Cristo ha incarnato la Parola di Dio, fino a diventare, con lui e in lui, sacramento vivente e salvifico per gli altri? Non è forse da questa fondativa relazione con Cristo che occorre lasciarsi trasfigurare, per fare della nostra vita un’esistenza eucaristica, capace cioè di farci dono per l’altro nelle nostre relazioni personali e quotidiane? Non è un caso allora che il libro degli Atti traduca questo stile di vita oblativo di Cristo in uno stile di vita ecclesiale, vissuto all’insegna della comunione d’amore, in vista della quale gli apostoli vivevano “mettendo ogni cosa in comune, vendevano le loro sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (At 2,44-45). Si tratta di uno stile di vita evangelico piuttosto lontano dalla nostra prassi ecclesiale, spesso animata da un individualismo borghese che ci fa sembrare perfino utopistico quel modo evangelico di vivere la fede. Un’immagine questa della prima comunità ecclesiale che riflette da vicino quella descritta da Matteo 6,25-53, dove Gesù chiede ai suoi discepoli di vivere la vita abbandonati all’estrema fiducia del Padre. Di essa sembriamo aver perso ogni entusiasmo e anelito, svuotati come siamo dal benessere, considerato come la sola garanzia del nostro futuro. Tutt’altra rispetto alla fede degli apostoli, della quale il libro degli Atti evidenzia la straordinaria efficacia convertiva (cf. At 2,37-41; 5,14), la nostra appare vuota e scialba e non poche volte siamo costretti a moltiplicare le parole, per accreditarla davanti agli altri, incapaci come siamo di incidere sulla loro intelligenza e portarli alla conversione.

Ma in che modo anche noi possiamo rifare la stessa esperienza di fede degli apostoli nel Cristo Risorto? Dinanzi a questa domanda si rivelano cariche di speranza le parole che Gesù rivolge a Tommaso al termine della sua travagliata esperienza di fede: “Ti hai creduto perché mi hai veduto. Beati quelli che non vedono e credono” (Gv 20,29). Dobbiamo ritenerci beati allora quando siamo fatti oggetti di una simile esperienza di fede. Rimane tuttavia aperta la domanda poiché ci invita a scoprire il modo in cui possiamo incontrarlo nelle “passioni” della nostra vita. Per questa ragione troviamo assai utile rifarci al brano evangelico attuale che ci descrive le tappe che hanno condotto Tommaso ad esprimere una delle più belle formule di fede cristiana. Tommaso vien colto in uno di quei momenti di crisi di fede, di cui anche noi facciamo esperienza, quando delusi dalle circostanze ecclesiali, veniamo attraversati dall’idea di ritornare alla vita di prima. Da qui quel pernicioso pensiero che si insinua progressivamente, come un tarlo nella nostra mente, fino a farci ritenere utile appartarci e isolarci dalla comunità, sottraendoci alle nostre responsabilità ecclesiali. Al pari dei suoi amici apostoli anche Tommaso era rimasto profondamente sconvolto dall’atteggiamento assunto da Gesù durante la sua passione e soprattutto dall’epilogo inaspettato della sua morte. Egli che per l’innanzi s’era abituato a vederlo “potente in opere e parole” (Lc 24,19), faceva fatica ad accettarlo fragile e indifeso “dinanzi ai suoi carnefici” (cf. Is 53,6-8). E non è difficile immaginarlo triste, mentre ripete le stesse parole dei due discepoli di Emmaus: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele” (Lc 24,21). Ma come loro anch’egli rimane scettico davanti ai discepoli che gli ripetono: “Abbiamo visto il Signore” (Gv 20,25). Malgrado tutto non esita a incaponirsi nel suo scetticismo: “Se non metto le mie mani nel suo costato … io non credo” (Gv 20,25).

Quella di Tommaso è la tipica situazione di chi non si accontenta più del sentito dire, ma esige un’esperienza personale. La sua esigenza interpreta perfettamente la nostra situazione: anche noi avvertiamo la necessità di passare da una fede abituale, ad una fede fondata su un’esperienza personale, autentica, non filtrata dalle interpretazioni degli altri. Avvertiamo cioè di voler “mettere il dito nella piaga”, nel senso più teologico del termine, ovvero di partecipare al mistero della passione di Cristo. Quella di Tommaso infatti non è un’esigenza empirica, tipica del razionalista che vuole toccare e vedere, ma un’istanza specifica di chi è giunto ormai alla maturità spirituale e avverte, più che mai, il bisogno di aderire totalmente alla vita di Cristo. Egli infatti non chiede di toccare una qualsiasi parte del corpo di Gesù, ma di “mettere il dito nella sua piaga”, ovvero di partecipare della sua passione e morte. È questa la condizione che lo induce a riconoscere Gesù come: “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20,28). L’esperienza di Tommaso, in fondo, non fa che esplicitare il senso del saluto e del gesto che Gesù rivolge ai suoi discepoli, al momento della sua apparizione agli undici: “Pace a voi. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco” (Gv 20,19-20). Perché mai Gesù “mostra loro le mani e il costato” se non per offrire un segno di riconoscimento della vericità del suo corpo morto e risorto? Un’esigenza dunque quella di Tommaso che viene presentata da Gesù come criterio di riconoscimento prima ancora che istanza empirica della fede. La “pace” che Gesù offre loro non è appena appena la formula di un saluto, ma la disposizione spirituale necessaria per operare un simile riconoscimento. Essa costituisce la definitiva riconciliazione con Dio, quella cioè che sperimenta chi, al termine di un percorso di inquietudine spirituale, partecipa della pienezza dell’amore di Dio. La pace che Cristo posa nei cuori dei suoi discepoli è quella che mette fine alla loro prolungata resistenza e paura dinanzi alla logica della croce. È la pace di chi ha consegnato a lui totalmente la propria ragione. La fede nel Risorto non sboccia finché siamo bloccati dalla paura. Solo la pace di Cristo, che scioglie ogni tensione, ansia e preoccupazione ci dispone alla straordinaria esperienza della risurrezione. Nessuna differenza perciò tra la nostra e la fede degli apostoli, poiché nell’uno e nell’altro caso essa consiste nel riconoscere Gesù come Cristo, Figlio di Dio, perché credendo in lui possiamo partecipare della vita di Dio, compresa e vissuta come esperienza salvifica. Essa non è il risultato delle nostre riflessioni intellettive, ma un dono della rivelazione del Padre (cf. Mt 16,17).

Veramente un “momento favorevole” (2Cor 6,2) e decisivo, allora, quello che la Chiesa ci propone in questo tempo pasquale, nel quale siamo chiamati a ricentrare la nostra fede, per estenderla anche a quelle persone che pur vivendo tra noi, esulano dai nostri orizzonti culturali, religiosi e spirituali, affinché anche noi possiamo ripetere con Giovanni: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei discepoli che non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (cf. Gv 20 30). Per noi dunque che pur non avendolo visto Risorto, crediamo in lui (cf. Gv 20, 29), attraverso la testimonianza degli apostoli e di coloro che ci precedono e ci accompagnano nella fede.

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