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22 Settembre 2024 - Anno B - XXV Domenica del Tempo Ordinario


Sap 2,12.17-20; Sal 53/54; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37



La logica del bambino evangelico


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“Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti. E preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e abbracciandolo disse loro: Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” (Mc 9,35-37).

Con queste parole la Liturgia della Parola ci dà modo di approfondire ed esplicitare ulteriormente il tema di domenica scorsa: pensare come Dio. La riflessione pertanto si rivela decisiva per chi vuole imparare a “dare ragione della propria fede in Cristo” (cf. 1Pt 3,15) e a giustificarla nel contesto sociale contemporaneo, sempre più spesso caratterizzato da un pluralismo culturale e religioso. In questo senso il discepolo che vuole veramente conformarsi a Gesù non deve limitarsi a imitare pedissequamente solo il suo stile di vita evangelico, ma anche a pensare come lui, scoprire, cioè, le ragioni che lo inducono a ragionare, a parlare e ad agire in modo evangelico. Nell’attuale brano di Marco, Gesù riprende questo discorso durante il suo viaggio verso Gerusalemme, dove, per ben tre volte, si sofferma ad esporre chiaramente ciò che accadrà al termine della sua vita. L’evangelista raccoglie questo suo pensiero sotto forma di “annunci della passione e della risurrezione” (cf. Mc 8,31; 9,31; 10,33-34), al termine dei quali Gesù espone anche le sue “condizioni”, per coloro che “mettendosi alla sua sequela” (cf. Mc 8,34-38), sono attraversati dall’idea di voler essere i “primi” (cf. Mc 9,33-37) e ambiscono ad esercitare un ruolo di comando (cf. Mc 10,35-45) perfino nel regno dei cieli.

Tra queste condizioni ve n’è una in particolare, sulla quale intendiamo soffermare, quest’oggi, la nostra attenzione: quella in cui Gesù prende a modello del suo modo di pensare un bambino (cf. Mc 9,36-37). Marco colloca questo esempio a seguito del “secondo annuncio della passione” (cf. Mc 9,31), quando Gesù, malgrado la sua sollecitudine, prende atto della chiara difficoltà dei discepoli nel comprendere un argomento così delicato e profondo, come appunto quello della “passione”. Durante il viaggio, infatti, essi, tutt’altro che intendi ad ascoltare le istruzioni del maestro, “avevano discusso tra loro su chi fosse il più grande” (Mc 9,34). Di contro Gesù “preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse …” (Mc 9,36).

L’esempio del bambino si rivela pertinente specie per chi, ancora oggi, nella comunità cristiana è abituato a concepire i ruoli non come servizio, ma come forma di prestigio personale, ed è attraversato continuamente dalla tentazione di “primeggiare e porre gli altri al servizio di sé” (cf. Mc 9,35). Costoro, come gli apostoli, rischiano continuamente di strumentalizzare non solo gli altri, ma perfino la logica evangelica di Gesù, per fini personali. L’episodio fa luce perciò non solo sul tipo di relazioni che animano la comunità apostolica di Gesù, ma anche su quelle che caratterizzano la vita delle nostre comunità ecclesiali.

Ma a cosa allude Gesù quando propone ai suoi discepoli l’esempio del bambino? È chiaro che con questo esempio Gesù non intende ripristinare le condizioni di una ipotetica vita primordiale, innocente e pura, come si presume erroneamente sia quella dei bambini; benché meno far dipendere i suoi discepoli dalle direttive di un fanciullo, vista la scarsa esperienza che questi ha della vita e delle dinamiche che caratterizzano la vita comunitaria e sociale; ancor meno intende sovvertire o eliminare le gerarchie e i ruoli – così necessari per ogni comunità ecclesiale e sociale. Proporre un bambino a modello dei suoi discepoli non significa neppure che essi devono pensare e agire come bambini, ovvero in modo ingenuo e puerile – come purtroppo accade di sperimentare, non di rado, anche oggi nelle comunità cristiane – ma guardare al modo con cui i bambini vivono la loro filialità, e più precisamente alla fiducia incondizionata che essi pongono nei genitori, al senso di protezione e sicurezza che ricevono da loro quando si sentono minacciati; all’affetto, agli sguardi, agli abbracci da cui sono circondati nei momenti di tenerezza; di incoraggiamento nei periodi di crisi;  di attenzione in quelli di solitudine, di abbandono e di sfiducia. Allo stesso modo dei bambini essi devono immaginare e vivere il rapporto col Padre che è nei cieli. La questione, allora, non è accogliere il bambino in quanto tale, ma accoglierlo “nel suo nome”, ovvero come espressione di quella logica relazionale che in Gesù diviene condizione e luogo di salvezza. Non a caso Marco annota che Gesù, nel proporre il bambino ai discepoli, “lo abbracciò”, come a voler a rendere ancora più evidente quella identificazione che egli esplicita a parole: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me”. Accogliere un bambino nel nome di Gesù significa, allora, accogliere in lui la presenza di Dio, la quale deve essere accolta con la stessa attenzione, premura e cura con cui si accoglie una creatura fragile e delicata come può essere un bambino. Significa inoltre accogliere la vita relazionale e filiale che Gesù intesse col Padre: “chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. In altre parole, accogliendo il bambino, il discepolo decide di accogliere e vivere la sua relazione con Gesù all’insegna di quella che Gesù vive col Padre. Come il bambino non può esistere senza il padre, così il discepolo non può vivere senza di lui: “senza di me non potete far nulla”. Al contrario “chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto” (Gv 15,5). Per questa ragione egli non vuole che i suoi discepoli ‘rimangano’ bambini, ovvero ingenui, ma che ‘diventino’ come lui: figli di Dio, assumano cioè la sua stessa logica filiale. È a questa logica filiale che essi devono convertirsi, se vorranno “entrare nel regno dei cieli” (Mt 18,3)[1]. Ed è questo recupero che garantisce loro la possibilità di raggiungere la piena maturità spirituale, necessaria per essere suoi discepoli. Per fare ciò essi devono avere il coraggio di rivisitare radicalmente il modo con cui concepiscono e vivono le loro relazioni interpersonali e quotidiane, imparando a conformarle alla logica relazionale della vita trinitaria. È su questa base che essi potranno creare i presupposti per un’autentica vita relazionale evangelica, quella stessa che Gesù vive col Padre, nello Spirito.

Diametralmente opposta a questa logica del bambino evangelico è quella di chi viene invece definito dalla Bibbia come “empio” e “stolto”, ovvero quella di chi vive secondo la logica dell’opportunismo, della scaltrezza, della malizia. Per costoro, il successo, la ricchezza, l’astuzia, il dominio, il trionfo, il potere, la supremazia sono l’espressione di “chi nella vita ci sa fare” e sa come vanno gestite le dinamiche del mondo. Per questa ragione non temono niente e nessuno. Interessante e di estrema attualità è il ritratto che di loro fa il libro della Sapienza (cf. Sap 1,16-2, 24). Essi tramano nei confronti del “giusto”[2] continue strategie di sopraffazione: “su tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni; ci rimprovera le trasgressioni della legge e ci rinfaccia le mancanze contro l’educazione ricevuta” (Sap 2,12). Da qui la loro perversa decisione di “metterlo alla prova, con le loro violenze e tormenti per verificare la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione” (Sap 2,19). Ma non sanno che così facendo mettono in realtà alla prova Dio, che è la vera forma di peccato (cf, Mt 4,7; Dt 6,16). In realtà, essi non sono che vittime della logica del maligno, accecati come sono dall’amara e dolorosa trama dell’invidia, definita “la carie delle ossa” (Prov 14,30). San Giacomo la ritiene, insieme alla gelosia, all’origine della “falsa sapienza” (cf. 3,14-16), che anima la mentalità del mondo. L’invidia è causa di continue polemiche, litigi e calunnie e perciò è all’origine di tanti mali e tormenti personali e comunitari. L’invidioso fa di tutto per impossessarsi di ciò che non è suo e quando non riesce ad ottenerlo, fa di tutto per eliminare perfino l’altro. “Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi?” (Gc 4,1) – si chiede san Giacomo, dopo aver sperimentato un clima carico di tensioni perfino all’interno della sua comunità – “Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra dentro di voi?” (cf. Gc 4,1).

Un’osservazione acuta questa di Giacomo che ci offre una chiave di lettura per capire i disordini che caratterizzano anche le nostre comunità ecclesiali, sociali e internazionali. Quanti di noi vivono solo secondo la logica dell’accumulo, animati da quell’antico, indomabile e insaziabile desiderio di possedere le cose e le persone? (cf. Es 20,17; Dt 5,21). Non è forse questa anche per noi la causa di tante tensioni e guerre tra persone, gruppi, popoli e nazioni? Quanti individui o Stati cosiddetti “potenti”, o più precisamente “prepotenti”, dietro la maschera di una presunta e affabile democrazia, sono in realtà intenzionati solo ad accaparrarsi dei beni altrui? Una logica questa che – come osserva ancora acutamente San Giacomo – ci lascia perennemente insoddisfatti, perché “desideriamo ma non possediamo … chiediamo, ma non otteniamo, perché chiediamo male” (cf. Gc 4,2-3).

Basterebbe prendere coscienza di quanto queste dinamiche siano presenti e attive dentro di noi, per capire quanto siamo realmente lontani dalla logica del bambino evangelico. Se poi pensiamo che Dio è proprio grazie alla loro piccolezza, semplicità e umiltà di spirito che sovvertirà la logica dei potenti, allora capiremo più in profondità la logica rivoluzionaria profetizzata da Maria nel Magnificat: “Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili” (Lc 1,51-52). I bambini, come i “miti” di cui parla Gesù nelle Beatitudini, saranno i veri “eredi” della terra (cf. Mt 5,5). Forse dovremmo imparare a prendere più sul serio questa profezia, quando ci ritroviamo ad essere vittime di soprusi, infamie, disonori, calunnie e violenze, quando, cioè, dinanzi alle forme di ingiustizia, anziché cedere alla facile tentazione di appellarci ai potenti di turno o alle varie forme di potere politico, culturale, religioso, come di solito fanno i potenti, consegniamo la nostra causa a Dio, senza smettere di confidare nella sua provvidenza, esattamente come un bambino. Sono convinto che saranno queste circostanze limiti a confermare il nostro reale cammino di conversione alla mentalità evangelica di Cristo.

 

 


[1] Si tratta di una logica che Paolo definisce in termini kenotici, ovvero di abbassamento e svuotamento di sé: un autentico paradosso per chi invece è abituato a vivere primeggiando e dominando sull’altro. Essa prevede, infatti, di rinunciare all’affermazione dell’io a favore di Dio, di abbassarsi per essere esaltato, di morire per vivere, perdere per avere, di farsi ultimo per diventare primo, di servire per governare. Vivere in questo modo significa diventare, come Gesù, un vero “segno di contraddizione” (cf. Lc 2,34), destinato a scontrarsi con la logica di vita del mondo. 

[2] Il libro della Sapienza definisce “giusto” (Sap 2,12), colui che è capace di perseguire l’ideale della giustizia e della pace, di cercare il bene e rifiutare il male, di fuggire l’indifferenza ed assumersi le proprie responsabilità, anche quando diviene consapevoli delle conseguenze, talvolta anche tragiche, che un simile stile di vita comporta. Il giusto è colui che nel perseguire questi gli ideali di vita, è convinto di vivere secondo il cuore di Dio (cf. 1Sam 13,14). È seguendo questa logica di vita che egli conforma la propria vita al modo di pensare di Dio.

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