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22 Ottobre 2023 - Anno A - XXIX Domenica del Tempo Ordinario


Is 45,1.4-6; Sal 95; 1Ts 1,1-5b; Mt 22,15-21


“Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”

Il difficile equilibrio tra fede divina e fede politica



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“È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare? Gesù conoscendo la loro malizia, rispose: ‘Ipocriti perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo … Di chi è l’immagine e l’iscrizione? Gli risposero: ‘Di Cesare’. Allora rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 22,18-21).

A conclusione delle quattro parabole[1], i farisei prendono atto che Gesù, sia pure con un discorso metaforico, si riferiva proprio alla loro condotta morale e religiosa[2]. Ma incapaci di confutare le sue osservazioni “tennero consiglio” per escogitare il modo con cui controbatterlo e trovare di che accusarlo. Decisero allora di inviare i loro discepoli insieme agli erodiani a discutere con lui (cf. Mt 22,15), perché l’argomento non era di loro diretta competenza, in quanto riguardava la legittimità o meno delle tasse[3] da versare all’Impero Romano (cf. Mt 22,17). Una questione politica dunque, con la quale gli erodiani avevano maggiore dimestichezza[4], anche se essi non erano minimamente interessati a conoscere il pensiero di Gesù, quanto piuttosto a mettere in atto il piano strategico dei loro mandanti, ovvero quello di “coglierlo in fallo nei suoi discorsi” (Mt 22,15). Tuttavia, dalla ricostruzione che Matteo fa dell’episodio, si capisce che essi conoscevano bene Gesù: ne apprezzavano la chiarezza e l’onestà intellettiva e spirituale; e soprattutto la sincerità e la franchezza con la quale discuteva con i suoi interlocutori: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non ha soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno” (Mt 22,16). Perciò essi vanno direttamente al sodo e gli chiedono di esporre apertamente il suo parere nei confronti della decisione dell’Imperatore: “È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?” (Mt 22,17). Matteo non lo esplicita ma si coglie una sottile insidia dietro la loro domanda: il loro scopo era, infatti, quello di costringere Gesù a prendere una posizione estrema, per la quale essi avrebbero comunque trovato il modo di accusarlo: qualora Gesù si fosse esposto a favore della tassa, lo avrebbero tacciato di vigliaccherie e di incoerenza: lui così coraggioso nel prendere posizione nei confronti delle autorità religiose, si sarebbe poi rivelato incapace di prendere posizione nei confronti dell’autorità politica e per giunta di un’autorità straniera. D’altra parte se avesse manifestato la sua contrarietà alla decisione imperiale, lo avrebbero incriminato di cospirazione politica sovversiva[5]. La questione, a loro giudizio, era così ben architettata che Gesù non avrebbe dovuto avere nessuna via di scampo. Mai e poi mai si sarebbero immaginati che lui potesse smascherare le loro intenzioni. Gesù, infatti, conoscendo la loro “malizia”, disse: “Ipocriti[6] perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo … Di chi è l’immagine e l’iscrizione? Gli risposero: ‘Di Cesare’. Allora rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 22,18-21). Il che è come dire: se Cesare vi offre dei servizi pubblici e sociali di cui voi beneficiate, allora è giusto che gli rendiate il tributo; allo stesso modo con cui Dio, nel rendervi il perdono e la salvezza, vi chiede di rimanere fedeli alla sua legge. Tra l’altro voi stessi riconoscete la liceità del tributo previsto per il tempio (cf. Mt 17,24-27), eppure non protestate. In ogni caso si tratta di un’imposta da versare all’una o all’altra autorità. La questione, dunque, lungi dall’essere esclusivamente politica riguarda invece la difficile gestione del rapporto tra l’autorità politica e quella divina; tra la tensione trascendente[7], propria di Dio e quella immanente, propria della politica. Quale mediazione tra questi due estremi?[8] Com’è evidente, Gesù esprime e sintetizza la sua risposta in una formula geniale: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”, con la quale definisce un principio umano-divino valido per sempre.

Esso affonda le sue radici nel pensiero profetico di Isaia il quale, come evidenzia il brano della prima lettura, senza negare l’autorità del potere politico dell’imperatore persiano Ciro, sostiene che la funzione governativa del re sia garantita e fondata dalla sovranità di Dio. L’esercizio politico dunque non solo è necessario, ma è sostenuto da Dio. Secondo la visione isaiana della storia, Dio si serve anche del potere politico per orientare e realizzare il suo disegno salvifico nel mondo, come attesta l’appellativo attribuito a Ciro, il quale viene definito addirittura “eletto”[9] di Dio (cf. Is 45, 1). Un titolo che in ambito ebraico viene riconosciuto solo al Messia o al massimo condiviso dai profeti e re giudaici. Su questa base Gesù sostiene la tesi che nessuno dei due poteri può essere esercitato senza l’ausilio dell’altro[10]. Essi sono, per così dire, complementari. Dio costituisce senza dubbio il fondamento dell’autorità politica: “Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse dato dall’alto”, dirà a Pilato durante il processo (cf. Gv 19,11), ma il suo esercizio richiede un’autonomia che non può essergli negata. Essa è voluta da Dio, come espressione di libertà. Pertanto i due ambiti vanno sì distinti, ma non separati, poiché contribuiscono a tracciare il processo formativo dell’identità sociale, politica, culturale e spirituale dei singoli come quella di un popolo[11].

Un argomento, certo, non semplice e soprattutto di non facile gestione, come manifestano i risultati, non certo incoraggianti che emergono dalla storia, durante la quale il rapporto tra potere spirituale e temporale è stato spesso esemplificato o ridotto a favore di una dimensione tutta spirituale e trascendente della vita, oppure a favore di un’entità tutta terrena ed immanente della politica. In realtà questi due estremi esprimono la tensione antinomica o polarizzante del Regno di Dio, che per Gesù sta nel difficile equilibrio tra “ciò che va reso a Cesare e ciò che è dovuto a Dio”. Fede divina e fede politica costituiscono perciò i termini che traducono la duplice dimensione divino-umana del Regno di Dio nel mondo. Ogni cristiano pertanto è chiamato a reinterpretare continuamente questo rapporto nell’oggi della propria vita culturale, sociale e politica. Per questa ragione egli necessita di uno sguardo sapienziale, capace cioè di interpretare la realtà sociale e la storia nella luce del piano salvifico di Dio, come fa il profeta Isaia a proposito dell’editto di Ciro.

Anche noi, dunque, ci accosteremo a questo tema, convinti della necessità del suo approfondimento e della sua attuazione, oggi, più che mai, nel particolare contesto culturale e sociale nel quale viviamo. E anche se non tutti saremo chiamati ad un simile impegno politico, ci sforzeremo quantomeno di coglierne il senso. Autorità divina e autorità politica non vanno pensate in modo esclusivo, ma in modo integrale. La loro polarità si realizza nell’unità della divino-umanità di Cristo. Il credente, come Gesù, è chiamato perciò a stare nel mondo senza essere del mondo (cf. Gv 17, 11), a vivere la città, pur sapendo che la sua patria è il cielo[12], come afferma il mirabile equilibrio delineato nella Lettera a Diogneto.



[1]Operai della vigna (Mt 20, 1-16); I due figli (cf. Mt 21, 28-32); I vignaioli omicidi (cf. Mt 21, 33-45); Il banchetto nuziale (cf. Mt 22, 1-14). [2] Ad essi si riferiva quando parlava degli operai che lamentavano la gratuità con cui il proprietario della vigna elargiva la paga agli operai dell’ultima ora; del figlio che declina l’invito a lavorare nella vigna; dei vignaioli omicidi che decidono di uccidere il figlio del re pur di impossessarsi definitivamente della vigna; degli invitati alle nozze che rinunciano a partecipare al banchetto organizzato per il figlio del re. [3]La questione stava diventando insostenibile. Essa andava avanti da quando l’Impero Romano nel 63 a.C. aveva occupato la Palestina meridionale e sottomesso al proprio dominio il Regno di Giuda, fino a occupare Gerusalemme. Questa intollerabile situazione politica aveva generato non pochi malumori e motivi di dissenso da parte del popolo israelita. E in particolare di alcune frange più estremiste del gruppo dei farisei, come quella degli zeloti che erano partigiani accaniti dell’indipendenza politica del regno di Giuda. Costoro venivano considerati dai Romani come una sorta di terroristi e criminali, che si ribellavano con le armi alla loro presenza nel territorio giudaico. Per essi perdere la vita nel combattimento costituiva una forma di martirio per santificare il nome del Signore. Altri invece erano riusciti a creare un compromesso, trovando perfino benefici sociali ed economici nella collaborazione col potere romano. Lo stesso Erode Antipa, pur trovando la situazione disonorevole per il suo rango, aveva comunque accettato una forma di alleanza con l’istituzione imperiale, dal momento che gli veniva concesso la possibilità di esercitare il suo governo esente da tributi, ma sotto il controllo di Governatore romano. I farisei da parte loro patteggiavano per l’indipendenza nazionale, perché a loro avviso nessun potere straniero poteva sovrapporsi alla sovranità del Signore sul Popolo Eletto. Essi non gradivano la sottomissione, per cui vedevano malvolentieri l’imposizione delle tasse romane. [4] A causa della loro posizione religiosa i farisei evitavano di esporsi direttamente nelle questioni politiche. Quando però la circostanza lo richiedeva si facevano scudo degli erodiani, che in quanto membri della dinastia di Erode il Grande (da cui il nome), avevano maggiore competenza nelle questioni politiche. Una mossa astuta dunque la loro, come annota Matteo. [5] Non a caso Gesù sarà condannato con un capo d’accusa chiaramente politico: “Abbiamo trovato costui che impediva di dare tributi a Cesare” riferisce l’evangelista Luca (Lc 23,2). [6] È interessante notare che il termine ipocrita nella sua radice semantica greca ypokrites indica l’“attore, ovvero colui che simula i gesti, imita i linguaggi, la voce degli altri. Ypokrites dunque originariamente non aveva alcun significato morale. Il valore negativo che gli attribuisce Gesù e dopo di lui gli evangelisti nasce proprio nel contesto farisaico, dove il ruolo al quale Dio li chiama viene riconosciuto troppo gravoso e impegnativo, per cui invece di essere coerenti con i loro impegni morali e religiosi, si limitano a simulare la fedeltà alla legge. L’ipocrita pertanto è uno che smette di essere autenticamente se stesso e preferisce vivere dietro una maschera. [7] La dimensione trascendente è certamente una qualità specifica della fede ebraica, ma la sua traduzione storica si è rivelata spesso fallimentare, come attestano i vari epiloghi politici a partire dal regno di Saul, le cui realizzazioni hanno assunto spesso forme sincretiste, come dimostra l’esito del regno salomonico. A dire il vero Israele, pur disponendo di una straordinaria intuizione teocratica, non si è mai distinto nella sua risoluzione sociale, a testimonianza del difficile equilibrio che caratterizza il rapporto tra la dimensione spirituale e quella terrena del Regno di Dio. Un problema questo rimasto irrisolto perfino al tempo di Gesù, quando Israele mal digeriva il dominio dell’Impero Romano, del quale tuttavia si giovava volentieri dei servizi offerti, ostacolandone però l’esazione, come facevano gli Zeloti. [8] Per i farisei la soluzione stava nelle indicazioni tracciate da Mosè e più chiaramente da Davide: quella cioè di delineare il profilo di un potere Teocratico assoluto, dove Dio viene posto a capo di tutti gli ambiti della vita umana. Una simile soluzione tuttavia è valida per un popolo che come quello ebraico ha scelto di vivere all’insegna della fede religiosa, seppure non tutti gli israeliti si dichiaravano credenti, ma risulta incompatibile per chi non si professa credente o riconosce solo l’autorità politica dello Stato. [9] Stando all’interpretazione che il profeta dà dell’editto emanato da Ciro nel 538 a.C., col quale concede a tutti i popoli deportati in Babilonia dal padre Nabucodonosor, tra i quali anche gli ebrei di rientrare nelle rispettive terre d’origini, la sua politica internazionale rientra nel piano salvifico di Dio. Anche Gesù, al pari del profeta, riconosce nella storia la misteriosa regia di Dio che guida in modo imperscrutabile gli eventi umani, verso il compimento escatologico del suo piano salvifico. [10] Non è facile ricostruire il pensiero politico di Gesù. I Vangeli ci riferiscono solo di rari episodi nei quali viene interpellato su questo argomento, tra i quali questo di Matteo. Anche nel dialogo col governatore Pilato, emerge che Gesù, pur disapprovando la sua personale gestione del potere, non mette in discussione l’autorità, ritenuta, al contrario, come proveniente da Dio (cf. Gv 19, 11). Dalla sua prassi evangelica scaturisce infatti il profilo di un uomo che non si lascia inquadrare da nessuna organizzazione politica o sociale. Egli realizza l’immagine dell’uomo religioso secondo il cuore di Dio (cf. 1Sam 13, 14), dell’uomo cioè integrato nel mondo senza assimilare tuttavia la mentalità del mondo. un equilibrio non facile. Perfino al suo ristretto gruppo di discepoli non ha mai dato alcuna struttura organizzativa politica o sociale, o norma giuridica che non sia quella del comandamento dell’amore reciproco (cf. Gv 15,9-17). A coloro che come i figli di Zebedeo gli “domandano di sedere a destra e a sinistra del suo regno”, che manifestano cioè evidenti interpretazioni politiche nella gestione del Regno di Dio, egli risponde che la forma di potere che deve caratterizzare e regolare la loro vita comunitaria è quella del servizio, svolta secondo la logica del bambino. “I capi delle nazioni dominano sulle persone, ma tra voi non sia così”, “chi infatti vuole essere il primo si faccia servo di tutti” (cf. Mt 20,20-28). Questa presa di distanza dalla dimensione politica non va certamente interpretata come un disinteresse per la vita sociale, bensì come un reale riconoscimento dell’autonomia delle rispettive sfere. [11] In ultima analisi Gesù non condanna il potere romano, poiché ne riconosce l’importanza, ma come ogni profeta ne denuncia i soprusi, specie quando viene esercitato come forma di dominio e di oppressione dell’altro. Del resto ogni potere politico quando viene esercitato in questo modo è sempre soggetto a denunce, come traspare anche dal passo evangelico in cui querela l’operato di Erode, definito “volpe” (cf, Lc 13,32). Le interferenze, come dimostrano le testimonianze storiche si rivelano spesso dannose, perché motivate solo da interessi personali. [12] La tentazione di ridurre il Regno di Dio all’una o all’altra dimensione è sempre in agguato, come attestano le diverse interpretazione che si sono sviluppate nel corso della storia. Gesù stesso ha faticato non poco a convertire i suoi discepoli alla mentalità del Regno di Dio, i quali fino al giorno dell’Ascensione hanno continuato ad intenderlo come Regno d’Israele e a sperarne la sua realizzazione terrena (cf. At 1,6). Anche i cristiani, nel corso della storia, non sempre sono riusciti a conservare l’alto profilo morale e spirituale di Gesù; piuttosto hanno dovuto reinterpretare continuamente questo rapporto in riferimento alla forma politica con la quale hanno interagito. Lo sforzo di tradurre la fede in politica rivela evidentemente il difficile compito di conferire alla dimensione spirituale una forma istituzionale, grazie alla quale diventa possibile ‘assicuragli’ un riconoscimento giuridico nel mondo. La stessa Chiesa si è ritrovata costantemente coinvolta in questo processo istituzionale, al fine di per poter interagire con le varie forme politiche di Governo.

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