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22 Maggio 2022 - Anno C - VI Domenica di Pasqua


At 15,1-2.22-29; Sal 66/67; Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29


L’amore: segno distintivo della prassi evangelica



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Qualche domenica fa nel commentare il brano della Pesca miracolosa di Giovanni 21,1-8, abbiamo notato come Pietro, deluso e scoraggiato dall’epilogo della vicenda di Cristo e dal suo comportamento, si era esposto alla tentazione di ritornare alla vita passata e come questa, a partire da lui, aveva condizionato anche i suoi amici apostoli (Gv 21,3). Questa stessa tentazione, sia pure sotto forma diversa, sembra riguardare anche la comunità di Antiochia, nell’attuale brano degli Atti degli Apostoli, dove uno spinoso problema stava rischiando di alterare la vita evangelica della neonata comunità, inducendola a una grave crisi identitaria. La questione sorse ad opera di alcuni cristiani provenienti dal giudaismo, i quali insegnavano che: “Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati” (cf. At 15,1). Si trattava per altro, di un gruppo ai quali “gli apostoli non avevano dato alcun incarico di predicare” (At 13,24). In pratica essi ritenevano la salvezza di Cristo, predicata dagli apostoli, ‘imperfetta’, per questa ragione sostenevano l’idea di doverla integrare con la legge mosaica. Secondo questa interpretazione coloro che aderivano all’annuncio evangelico, specie se provenienti da culture pagane, dovevano prima aderire alla fede mosaica e poi diventare cristiani. Tale passaggio, oltre alle numerose prescrizioni legali, prevedeva la pratica del rito della circoncisione[1] che secondo loro garantiva, da una parte la vera appartenenza alla fede mosaica e, dall’altra predisponeva le persone all’accoglienza della fede cristiana. Una vera e propria manipolazione del Vangelo di Cristo. Dinanzi all’inevitabile confusione generata da questo insegnamento, Paolo e Barnaba ritennero opportuno un fermo e decisivo intervento chiarificativo. La questione, tuttavia, si rivelò più impegnativa del previsto, per cui fu portata a Gerusalemme, dove fu discussa dalla comunità apostolica che ritenne superfluo continuare ad esercitare la pratica della circoncisione, in quanto la fede in Cristo costituisce il vero e unico presupposto della salvezza. A nessun altro obbligo, dunque, la comunità antiochena era tenuta se non a quello di una totale apertura, comprensione e disponibilità alla volontà di Dio, unico e vero segno di appartenenza alla fede cristiana.

I fatti narrati in questo capitolo degli Atti potrebbero apparire per noi una questione marginale, in realtà si rivelano estremamente importanti, poiché ci mettono in guardia dai diversi problemi che si vengono a creare anche nelle nostre comunità, tutte le volte che in una situazione di crisi religiosa ed esistenziale come la nostra, ci scopriamo incapaci di cogliere e attuare la proposta evangelica, e avvertiamo la tentazione di integrarla con una serie di prescrizioni morali e religiose provenienti perfino da altre fedi. Mi riferisco a quella sorta di sincretismo religioso, piuttosto diffuso tra i cosiddetti ‘cristiani anagrafici’, i quali nel tentativo di risolvere pacificamente le tensioni provenienti dall’attuale pluralismo religioso, ritengono di creare una religione universalmente condivisa, rischiando così di snaturare non solo l’essenza del cristianesimo, ma anche lo specifico delle diverse fedi religiose. Si tratta di una tentazione che insidia in modo particolare coloro che ignari e scettici della proposta evangelica, trovano opportuno appellarsi ad un impegno morale che garantisca quantomeno una salvezza personale. Nulla di più lontano dalla predicazione di Gesù e degli apostoli, secondo la quale la salvezza sta nella pratica del comandamento dell’amore, come descritto nell’odierno brano evangelico di Giovanni 14,23-29. Tale salvezza non dipende dall’osservanza minuziosa delle varie norme morali o religiose, come ritenevano i Giudei cristiani, ma dalla fede in Cristo, ovvero dalla giustificazione che proviene dall’amore gratuito di Dio in lui.

Ma in cosa consiste questa salvezza? Essa sta nel vivere le relazioni quotidiane e interpersonali come luogo della comunione d’amore divino, quale condizione per un’autentica esperienza di libertà morale e spirituale dal peccato. Tale amore è la stessa vita divina che prende dimora in noi e tra noi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Amare secondo il comandamento di Cristo significa allora “stare con lui” (cf. Mc 3,19), allo stesso modo con cui lui “sta presso il Padre” (cf. Gv 1,2). Si tratta di una relazione abissale, imperscrutabile, misteriosa che trascende le nostre possibilità conoscitive, ma che anche noi, come i discepoli, possiamo conoscere nella misura in cui lo Spirito Santo ce ne rende partecipi; quello stesso Spirito che Gesù consegna ai discepoli come specifica eredità del suo insegnamento. Una consegna che si attua, però, a condizione che lui ritorni prima al Padre: “Io vado al Padre, affinché il Padre mandi nel mio nome lo Spirito Santo”. “Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto” (cf. Gv 14,26.28). In altre parole gli apostoli, pur essendo stati istruiti da Gesù, non sono ancora nella condizione di attuare e cogliere il significato profondo di questo suo comandamento. Essi necessitano dello Spirito Santo, per acquisire la sua stessa intelligenza. Solo così essi potranno far parte della stessa comunione d’amore di Gesù col Padre. Non si tratta solo di una relazione umana, ma di una comunione d’amore divina, più specificamente divinoumana che crea le condizioni per un’autentica esperienza di salvezza.

Dinanzi allo scenario multireligioso della nostra società culturale, che rischia di creare forti crisi di identità religiosa, come quella antiochena, occorre più che mai, come ci ricorda Pietro nella sua prima lettera, imparare a dare ragione della nostra fede cristiana (cf. 1Pt 3,15). Una simile operazione nasce evidentemente da un rapporto più intenso e frequente con la Parola di Dio che assume un ruolo sempre più centrale nella nostra vita spirituale, relazionale ed ecclesiale. È a partire da questo intimo rapporto con la Parola che può scaturire una rinnovata prassi d’amore evangelico, quale segno distintivo della salvezza cristiana.

[1] Quello della circoncisione (dal latino circumcidere che significa “incidere intorno”) è un rito piuttosto diffuso nelle varie esperienze religiose del mondo. Esso ha origine antichissime. In base ad una scultura tombale del 2400 a.C. di Sakkara, sembra che era esercitato già dagli antichi Egizi, a partire dai quali si estese anche in ambito cananeo: la terra di Abramo che lo assunse come segno di alleanza della fede in Dio (cf Gen 17,10-14). Tale rito consiste nel taglio del prepuzio che avvolge il glande dell’organo maschile. Quali siano le ragioni di questa pratica in ambito biblico rimangono tutt’ora discusse. Per gli stessi musulmani costituisce uno dei doveri religiosi principali, per quanto il Corano non ne parli. In senso lato la Bibbia parla anche di circoncisione delle labbra, del cuore e delle orecchie, come segno di adesione alla parola di Dio.

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