22/11/2020 - 34° Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - Cristo Re dell’Universo
- don luigi
- 22 nov 2020
- Tempo di lettura: 7 min
Ez 34, 11-12.15-17; Sal 22/23; 1Cor 15, 20-26.28; Mt 25, 31-46
Un giudizio all’insegna dell’amore

Prima di introdurci nel tema di questa ultima domenica del Tempo Ordinario, vorrei fare qualche premessa esplicativa, per una giusta collocazione del tema, nel quadro dell’attuale situazione religiosa. Quello che vi offro quest’oggi, perciò, è un commento omiletico alquanto inconsueto, che senza tralasciare l’aspetto spirituale, intende far luce anche su quello culturale.
La prima premessa è relativa al titolo regale attribuito a Cristo. Come va intesa la sua regalità? Che rapporto ha con la vita politica tipicamente terrena? In che termini egli regna su tutto il cosmo? Oggi facciamo un po’ fatica a comprendere il senso di questo titolo e la ragione della sua applicazione a Cristo. Prima perché ci ritroviamo immersi in un clima culturale caratterizzato da una visione democratica del potere politico che, aldilà dei limiti, ci fa immaginare come ‘lontana’, per così dire, la categoria del regno e di tutto quel sistema di vita che esso comporta. Secondo perché nell’immaginario collettivo evangelico Cristo ci appare ben lontano da uno stile di vita sfarzoso, tipicamente regale; malgrado egli sia stato chiaramente rappresentato anche in questa veste da numerosi artisti, nel corso della storia, come attesta, per esempio, la Pala d’altare della Cattedrale di Gand, che Jan e Hubert Van Eyck dipinsero nel 1432. Basterebbe dunque questo documento per rendersi conto di quanto il condizionamento politico fosse diffuso anche nella Chiesa.
Diventa perciò necessaria una chiarificazione in merito, specie se consideriamo che il titolo regale di Cristo viene spesso associato anche alla regalità davidica. Si tratta perciò di cogliere il simbolismo religioso col quale viene espresso, per capire che in gioco non c’è appena una stima politica, ma una dimensione ben più profonda che coinvolge la vita dell’intero creato, dal momento che egli è Re non di un’area geografica, ma dell’Universo. Da qui la necessità di inquadrare la regalità di Cristo all’interno di quella visione della storia, alla quale abbiamo fatto più volte riferimento in queste ultime domeniche del Tempo Ordinario. Mi riferisco alla visione “escatologica”, che la Chiesa custodisce gelosamente nel proprio deposito di fede e che intende consegnare e trasmettere sempre alle nuove generazioni, anche quando, come oggi, si fa più fatica a considerarla, stretti come siamo in uno sguardo analitico, tutto concentrato sul presente. E ciò non solo a livello sociale, ma anche ecclesiale. Si capisce dunque il diffuso disinteresse per quegli argomenti che il Catechismo della Chiesa Cattolica, qualifica come “Novissimi”, ovvero di quelle “cose ultime” (in greco éschata, da cui escatologia), che succederanno all’uomo alla fine della sua vita, quali la morte, il giudizio, e quindi il destino eterno: inferno e paradiso. È evidente che non si tratta di contenuti che si acquisiscono per sentito dire, come poteva accadere in altre epoche, quando essi facevano parte del patrimonio culturale comune. Oggi, senza un’adeguata conoscenza e soprattutto un vissuto ecclesiale, si rischia di avere di essi una comprensione molto marginale e periferica, se non addirittura pregiudiziale. Occorre perciò sviluppare un’attenzione specifica, che in ambito religioso non si riduce certamente ad una questione culturale, al contrario, serve ad alimentare quella fede che, com’è noto, non si limita solo a creare le condizioni per un’autentica vita spirituale nel presente, ma ad estendere la sua attenzione anche a quella futura e quindi a quella eterna che s’origina a partire dal Giudizio Universale. Senza questo sguardo escatologico diventa pressoché difficile comprendere il senso del titolo regale di Cristo, come anche quello del Giudizio Universale, inteso come momento determinante per lo sviluppo della vita verso quella dimensione eterna, alla quale possiamo accedere per mezzo della risurrezione di Cristo.
Non è facile parlare di questi argomenti, specie in un contesto culturale, sociale ed ecclesiale come il nostro, dove non riscuotendo di interessi comuni, essi vengono spesso relegati, per così dire, ai margini della conoscenza di nicchia. Occorre perciò approfittare di circostanze come queste che la liturgia ci offre, per compiere quella che in inglese si chiama full immersion (immersione totale), per cominciare ad operare un vero e proprio cambio di mentalità religiosa. È importante quindi cominciare ad acquisire il significato di alcuni termini come: profezia, escatologia, apocalittica attraverso i quali diventa più plausibile acquisire quei criteri sapienziali che consentono di rileggere la storia in chiave teologica.
Giusto per introdurci allora in questo universo terminologico religioso, cominciamo con quello di profezia. La profezia si riferisce a quella visione sapienziale della vita, che consente di scrutare ed interpretare la storia alla luce del piano salvifico di Dio, del quale viene prevista una sua piena realizzazione alla fine dei tempi; l’escatologia, invece, sofferma la propria attenzione sugli eventi ultimi della vita terrena e l’influsso che quelli celesti avranno su di essa; l’apocalittica, infine, costituisce una vera e propria visione dell’aldilà e quindi di tutto ciò che si dischiuderà a partire dal Giudizio Universale. Si capisce allora che profezia, escatologia ed apocalittica sono intimamente legate da un filo conduttore, percepibile da chi dispone di una conoscenza del simbolismo religioso e del suo linguaggio. Da qui l’impatto, spesso anche brusco, con quegli elementi come simboli, cifre, numeri, enigmi, immagini, segni misteriosi ed arcani, forze cosmiche e celesti, cataclismi, terremoti, angeli, creature mostruose, demoni in lotta tra loro, conflitti tra le forze del bene e del male, sogni, visioni, che spesso troviamo quando leggiamo brani biblici su questi argomenti, ma dei quali non riusciamo a decodificare il significato, se non, come accadde anche a Daniele dinanzi alla scritta che apparve al re Baldassar (cf. Dan 5), attraverso un intervento dello Spirito che ha la funzione di illuminare la nostra mente e di porla in sintonia con quella divina.
Figura chiave in tutto questo processo cosmico e celeste sarà il Cristo, che come afferma san Paolo nel brano della seconda lettura, ricapitolerà tutta la storia, per “consegnarla a Dio dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza (cf. 1Cor 15, 24). Egli emetterà un giudizio a partire dal quale si inaugurerà una nuova era, questa volta eterna, determinata dalla sua risurrezione, nella quale alcuni avranno modo di partecipare della vita divina, mentre altri sperimenteranno le conseguenze della dannazione (cf. Mt 25, 31-33). Si tratta di un momento inevitabile, che riguarderà ciascuna persona, attraverso il quale occorre necessariamente passare, indipendentemente dalla professione di fede e condotta di vita morale e relazionale, per cogliere nella luce della coscienza divina, il senso della nostra esistenza, non solo personale, ma anche universale. Che sia ineluttabile sembra un dato più che chiaro, la questione è capire con quale criterio Dio eserciterà il giudizio: se quello della giustizia oppure quello dell’amore. Posto in questi termini il quesito sembra considerare i due criteri come contrapposti. In realtà la giustizia di Dio più che porre l’accento sull’aspetto giuridico, col quale si tende a dare a ciascuno il suo, come molto spesso la interpretiamo noi, rivela l’intima natura misericordiosa di Dio e perciò indica la fedeltà di Dio a se stesso e più precisamente alla sua promessa di salvezza, come già traspare dalla parola data ad Abramo: “in te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12, 9). In questo senso il giudizio divino costituisce un atto di coscienza che ciascuno avrà della propria identità e della propria condotta, non solo per quello che riguarda il nostro rapporto personale con Dio, ma anche per quello che riguarda la relazione che noi avremo stabilito con le persone e col creato. Ciascuno dunque sarà chiamato a rendere conto di sé e degli altri dinanzi a Dio.
Si rivela emblematica perciò l’immagine di Dio tratteggiata dal profeta Ezechiele, nel brano della prima lettura, che con una serie di verbi: “radunerò”, “condurrò”, “farò riposare”, “andrò in cerca”, “ricondurrò”, “fascerò”, “curerò”, “pascerò” lascia intendere un intervento personale di Dio, animato da un forte senso di premura, tipico del pastore. Quello divino sarà perciò un giudizio, per così dire, ‘pastorale’, o per meglio dire, ‘paterno’, contrassegnato cioè dall’attenzione alla singola creatura. Esso va perciò compreso nell’alveo di quella cornice affettiva, tipica della relazione tra padre e figlio. Basterebbe questo ricco vocabolario a sfatare l’immagine di un Dio giudice, pronto e impaziente di esercitare un giudizio rigoroso, inflessibile, freddo e distaccato, come di solito viene visto dall’immaginario collettivo. In realtà Dio, aldilà dell’asettica severità morale e giuridica, con la quale spesso lo dipingiamo, è un Dio personale che esercita la sua funzione di giudice, rivelando la radice profonda dell’umanità che ci costituisce: l’amore. Egli giudicherà non solo sull’amore, ma con amore e per amore.
Ed è proprio questo il criterio sul quale insiste Gesù, nella pagina evangelica propostaci dalla circostanza liturgica, tanto che il contesto nel quale egli si lascia ritrarre è quello della vita quotidiana, accanto a persone che vivono un’esistenza fatta di piccoli gesti, che intessono relazioni personali, autentiche e vere, capaci di generare una vita evangelica, caratterizzata dalle beatitudini (cf. Mt 5, 1-12). Per questo motivo il giudizio sarà un evento sorprendente, dal quale scaturirà una sentenza inattesa che stupirà e sconcerterà molti, cristiani e non. Più che sulla dottrina o sulla morale, egli farà cadere l’attenzione sull’amore e più specificamente sulla modalità con cui esso è stato praticato nei diversi ambiti della vita umana e relazionale. La possibilità di essere “benedetti” (Mt 25, 34) o “maledetti” (Mt 25, 41), dipenderà non da ciò che avremo fatto, ma da come lo avremo fatto, quindi non da chi avremo amato, ma da come lo avremo amato e perché lo abbiamo amato. La mancata pratica dell’amore durante la vita terrena, costituirà il criterio che determinerà la massima distanza da Dio, e quindi l’irreversibile condizione dell’inferno. Esso, infatti, più che un luogo dice una condizione esistenziale irreversibile, dal quale pur volendo non si può più uscire né conseguire la salvezza. Letteralmente inferno significa “ciò che si trova in basso”, più estesamente indica quella vita animata da istinti e relazioni conflittuali, che rimangono opachi, resistenti all’azione dello Spirito e perciò non attraversati dall’amore divino. Diversamente, la pratica dell’amore, determinerà una sorte e una condizione diametralmente opposta a quella dell’inferno che si è soliti definire paradiso, che letteralmente significa “giardino delimitato da un recinto”, come emerge dall’interpretazione biblica, ma più estesamente esso indica la condizione relazionale che l’uomo stabilisce con Dio, caratterizzata dalla comunione della vita trinitaria. L’una o l’altra possibilità non dipenderà da una sentenza arbitraria di Dio, ma sarà l’immediata conseguenza delle nostre piccole e grandi scelte dell’amore che avremo compiuto nella vita terrena. Scelte di rifiuto o di esercizio dell’amore.
Per la salvezza, dunque, - a giudicare dal brano evangelico - Gesù non chiede di compiere gesti straordinari d’amore, ma di praticare quelli che la vita propone nel quotidiano, vissuti e compresi come pretesti per esercitarsi nell’arte dell’amore. Si tratta di una pratica che non va limitata ad un atto sia pure particolarmente significativo e bello della vita, ma estesa a tutti i momenti e alle forme dell’esistenza. Il che significa essere animati da quel desiderio spirituale che porta ad impregnare ogni cosa e ogni relazione dell’amore divino. Questo modo di vivere l’amore rivela il senso più e vero e autentico della spiritualità tipicamente cristiana, che a partire dall’incarnazione di Cristo intende irraggiare ed estendere la vita divina a tutti gli ambiti della vita umana. Amare il prossimo è il criterio primo di giudizio di Cristo. Non importa chi sia a praticarlo, tantomeno il destinatario, ciò che importa per Gesù è quello che potremmo racchiudere in questo motto di san Giovanni della Croce: “Dove non c’è amore, metti amore e troverai amore”.




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