21 Novembre 2021 - XXXIV Domenica del Tempo Ordinario - Cristo Re dell’universo Anno B
- don luigi
- 20 nov 2021
- Tempo di lettura: 6 min
Dn 7,13-14; Sal 92/93; Ap 1,5-8; Gv 18,33b-37
La regalità evangelica di Cristo

Oggi celebriamo la solennità di Cristo Re dell’Universo. La sua collocazione alla fine dell’anno liturgico ci dà l’idea della visione ecclesiale della storia, intesa come ricapitolazione in Cristo di tutto l’universo. Secondo tale visione ogni cosa – come ci hanno già ricordato, domenica scorsa, gli apostoli Giovanni e Paolo – è stata creata in vista di Cristo e trova in lui il suo principio, senso, fine e compimento (cf. Gv 1,3.10; Eb 1,2; Col 1,16; 1Cor 8,6).
In un contesto di rinnovata sensibilità evangelica, come il nostro, celebrare questa solennità potrebbe sollevare alcune obiezioni, la prima delle quali riguarda lo stile di vita povero, mite e umile che Gesù ha assunto nella sua vita, tutt’altro rispetto a quello regale che ci accingiamo a celebrare. Le obiezioni potrebbero essere ulteriormente estese, se consideriamo anche l’attuale contesto socio-politico europeo e mondiale, prevalentemente caratterizzato da uno spirito democratico o repubblicano, nel quale i casi di monarchia sono sì ancora presente, ma limitati ad alcuni Stati. Nell’uno e nell’altro contesto la regalità sembra essere, insomma, fuori luogo. Cosa allora giustifica questo appellativo di Cristo? E soprattutto come va inteso?
Per rispondere a queste domande proveremo a tracciare un breve excursus storico, biblico ed ecclesiale. Osservando un po’ a ritroso la storia notiamo che questa forma di potere regale è stata, nel passato, diffusamente praticata dagli Stati nelle varie aree geografiche e ciclicamente riproposta nel corso dei secoli. La testimonianza biblica non fa mistero su quanto questo “ideale politico” abbia esercitato un notevole influsso anche sul popolo d’Israele. Basterebbe rileggere i libri storici (cf. 1-2Re; 1-2Cronache; Esdra; Ester; Giosuè e in particolare 1-2 Samuele e Giudici), per capire come esso, malgrado alcune resistenze, si sia prima insinuato e poi imposto nella mentalità sociale ebraica, dando forma a quello che veniva salutato, con non poco orgoglio, come “regno d’Israele”, che vede in Saul, Davide, Salomone i suoi principali promotori. Tale ideale, nel passato, ha esercitato un fascino suggestivo perfino sulla stessa Chiesa, alla cui luce ha interpretato la propria istituzione storica, dando forma a una Chiesa di tipo “Imperiale”, dove non sempre è stato facile distinguere la dimensione “spirituale” da quella “temporale”. Anche, oggi, benché si respiri un autentico “spirito sinodale”, ispirato alla comunione evangelica, non mancano casi di nostalgiche frange clericali, dove i sogni “imperiali”, stentano a dileguarsi. Questi frequenti revival suscitano qualche domanda: come mai risulta così difficile organizzare la vita ecclesiale secondo le indicazioni evangeliche di Gesù: “Tra voi però non è così”? (Mc 10,43) [1]. È chiaro che si tratta di una mentalità evangelica, che facciamo fatica ad acquisire, a causa anche delle forti suggestioni politiche, con cui siamo soliti interpretare la realtà del regno di Dio.
In realtà la nozione di “regno” è centrale nella predicazione di Gesù, tanto da inserirla perfino nella sua preghiera del “Padre nostro”, dove invoca la sua venuta nel mondo: “venga il tuo regno” (Mt 6,10). L’intera esistenza di Gesù è inscindibilmente legata alla realtà del regno di Dio: tutto quello che egli pensa, dice e fa è in vista della realizzazione del regno divino nella vita quotidiana delle persone. In questo senso la vita evangelica è nient’altro che la sua incarnazione nel mondo. Anche in diverse sue parabole Gesù si ispira alla vita regale (cf. Mt 22,1-14), ma è chiaro che queste analogie hanno una funzione didattica, il cui scopo è stimolare l’intelligenza spirituale a cogliere il senso che è oltre la metafora. Ci sono poi circostanze in cui Gesù si ritrova a dover resistere dinanzi ai chiari tentativi, da parte dei discepoli, di una proclamazione regale, come nell’episodio della moltiplicazione dei pani (cf. Gv 6,15), alla quale Gesù si sottrae, per evitare possibili equivoci messianici. Ma è soprattutto nel contesto della passione che lui ha modo di chiarire il senso messianico di questo appellativo. Il Vangelo di oggi ci fa contemplare l’episodio in cui Gesù si presenta a Pilato come re di un regno che “non è di questo mondo” (Gv 18,36). “Questo non significa che Cristo sia re di un altro mondo, ma che è re in un altro modo” (p. S. Tognetti). Si tratta di una logica completamente diversa: quella mondana si fonda sull’ambizione, sulla competizione, sull’asservimento delle persone e spesso fa uso di armi tutt’altro che belliche, come la gogna mediatica, la manipolazione del linguaggio, delle parole e delle coscienze; mentre quella evangelica si esprime nell’umiltà, nella libertà e nella gratuità, e si afferma silenziosamente, in conformità a quanto viene indicato nella parabola del granello di senape e del chicco di grano.
Nel breve dialogo che intesse con Pilato, durante il suo processo, Gesù ci dà modo di comprendere lo scopo della sua regalità: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità” (Gv 18,37). La verità alla quale egli si riferisce non è quella che si limita a soddisfare le nostre esigenze razionali o intellettuali, ma quella salvifica del Padre, della quale l’apostolo Giovanni ci parla più estesamente nel capitolo 8 del suo Vangelo, dove tra le altre cose, Gesù afferma: “se rimanete fedeli alla mia parola … conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,31). Si tratta della verità esistenziale, quella che ci fa prendere coscienza della nostra reale identità filiale, di creature bisognose d’amore del Padre – a causa della nostra pretesa indipendenza – e che Gesù ci rivela attraverso la sua testimonianza evangelica. Se c’è dunque un potere del quale Gesù si fa interprete e testimone, questo non è certamente quello politico, religioso o culturale, solitamente esercitati come forme di prestigio personale, ma quello di chi è realmente in grado di dare la salvezza, in virtù della sua origine divina. Letteralmente, infatti, potere significa, forza, facoltà, capacità di conferire ciò di cui si dispone. Gesù intanto elargisce la salvezza in quanto questa gli viene direttamente conferita dal Padre. Questo è il potere di cui lui dispone: dare la salvezza. In altre parole, la verità della quale verremo a conoscenza e vedremo in tutta la sua evidenza (cf. Ap 1,7), è quella che ci farà prendere atto che Gesù è realmente il “Signore Onnipotente” (Ap 1,8), o più specificamente il Re-dentore del mondo, nel senso originario del termine, di “Re che detiene il potere di salvare”. Nessun altro uomo dispone di questo potere, né re, né imperatori, né intellettuali e neppure fondatori di religione, ma solo Cristo. Questa è la straordinaria intuizione che Pietro ebbe durante il discorso davanti al sinedrio, nel quale afferma: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4, 12). Questa è anche la verità che Pilato, nonostante i limiti politici ed umani, colse e ritenne di dover incidere in cima alla croce (cf. Gv 19,19-22). E questa è anche verità con la quale ciascuno di noi si ritrova a confrontarsi nell’oggi della fede, e che suscita le più aspre polemiche nei dibattiti culturali e religiosi di ogni epoca. Ecco la ragione per cui Gesù invita i suoi discepoli a rimanere fedeli alla sua parola (cf. Gv 8,31). Si capisce allora che il significato della regalità di Cristo è strettamente connesso alla sua missione salvifica e questa ha valore non solo per l’umanità, ma perfino per l’universo intero. Il che significa che l’azione evangelica di Cristo non si limita alla formulazione di un ideale di vita che consente alle persone di migliorare la propria condotta di vita, ma assume realmente un valore redentivo, tale da poter incidere a livello ontologico ed essere esteso all’ordine del cosmo intero. Se il piano politico di un re è capace di incidere su un territorio e far progredire la condizione sociale e culturale del proprio popolo, ancora di più l’amore salvifico di Dio è capace di orientare il mondo verso la sua salvezza.
È condividendo questa verità e soprattutto questa pratica d’amore nel vissuto quotidiano che ciascuno decide di continuare nella storia l’opera trasfigurativa del creato. Essa, apparentemente insignificante e marginale, in realtà costituisce la condizione per rinnovare il mondo dal di dentro, secondo la logica dello Spirito che fa nuove tutte le cose (cf. Ap 21,5).
[1] Sul significato di questa affermazione evangelica abbiamo avuto modo di soffermarci già nella 29a Domenica del Tempo Ordinario, Anno B, del 17 ottobre 2021, alla quale vi rimando.




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