21 Marzo 2021 - 5° Domenica di Quaresima Anno B
- don luigi
- 21 mar 2021
- Tempo di lettura: 11 min
Ger 31,31-34; Sal 50/51; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33
“Signore, vogliamo vedere Gesù”
Le condizioni per una conversione culturale

Durante queste domeniche di Quaresima abbiamo più volte sottolineato come il cambiamento previsto dalla conversione, riguardi non solo la dimensione morale e spirituale, ma anche quella intellettiva, tanto da ribadire che senza un’adeguata struttura mentale non è possibile neppure un’esperienza di Dio. Ciò significa che per accedere alla realtà di Dio e comprenderne il mistero, e soprattutto per riorganizzare la propria vita personale secondo la sua volontà, non basta essere moralmente un po’ più buoni e disponibili, ma occorre acquisire la sua stessa struttura mentale, come dimostrano di avere coloro che aderiscono al suo piano salvifico. In altre parole, per comprendere il messaggio salvifico di Gesù, ossia per gustare il “vino nuovo” di cui lui parla, occorre acquisire “nuovi otri” (cf. Lc 5,37-38), ovvero una nuova organizzazione mentale, capace di elaborare le informazioni e le relazioni divinoumane che scaturiscono dal suo Vangelo. Tra quanti, nel corso della storia, si sono prestati a formarsi questa mentalità divina, si distingue lo stesso Gesù che più di tutti ne ha esplicitato la ragione d’amore. Egli ci ha insegnato che amare non significa compiere solo un atto di bontà, ma soprattutto pensare e vivere la vita all’insegna della relazione con l’altro nell’Altro.
Questa rinnovata mentalità relazionale prevede una conversione culturale, ossia una ristrutturazione della visione della vita a favore di quella che scaturisce dal Vangelo di Cristo. Per acquisire questa nuova visione del mondo si rivelano particolarmente interessanti le condizioni che Gesù chiede ai Greci, nel brano giovanneo di quest’oggi (cf. Gv 12,23-36). Pertanto se dal dialogo che Gesù tiene con Nicodemo, abbiamo visto che convertirsi significa “rinascere dall’alto”, dalla risposta che Gesù dà ai Greci capiamo anche che ciò comporta l’acquisizione della “logica del chicco di grano” (cf. Gv 12,24). La conversione, dunque, ha al tempo stesso, un’origine divina, che consiste nel lasciarsi trasfigurare la mente dall’opera del suo Spirito – così da imparare a pensare Dio da Dio – e una dimensione umana, che consiste nel morire totalmente al proprio modo di pensare.
La conversione culturale che ci accingiamo ad esplicitare attraverso il commento del brano evangelico di Giovanni, dunque, non è altra da quella morale, spirituale, intellettiva e religiosa, alle quali siamo ugualmente chiamati. Si tratta di diverse facce dello stesso processo di cambiamento integrale che riguarda tutta la nostra persona. Non è solo una distinzione didattica, poiché essa chiama in causa tutte le dimensioni della vita. Non sempre accade che ciascun ambito della vita personale sia ugualmente convertito. È importante che il modo di pensare di Dio entri in tutti gli ambiti della nostra vita personale e comunitaria. Pertanto se è vero che la conversione si manifesta principalmente attraverso la testimonianza dell’amore evangelico è anche vero che per giungere ad una simile testimonianza è fondamentale rinnovare la propria cultura, e ciò riguarda il modo di pensare, di creare, di immaginare, di capire, di conoscere; di relazionarsi agli altri, a Dio, a noi, col creato; il modo di gestire l’economia, il lavoro, la politica, la giustizia, lo sport, l’arte, l’architettura, la poesia, la letteratura, la musica, la danza … insomma tutto ciò che riguarda la vita del mondo. Ogni ambito e dimensione della vita può e va vissuto all’insegna dell’amore evangelico. Ecco lo specifico della conversione culturale. Essa si attua quando cominciamo ad estendere l’amore evangelico ad ogni settore della nostra vita, tanto da ripensare e riorganizzare, alla sua insegna, la stessa vita del mondo. Chiunque, nel piccolo e nel grande, può originare questo nuovo modo di pensare, ciascuno può farlo secondo il proprio ambito e grado culturale.
Una questione piuttosto delicata e complessa quella che ci accingiamo a considerare, che fa sentire ancora più urgente la necessità di mettere a fuoco le condizioni che devono precedere il nostro approccio alla conversione. Questo significa che la fede prevede una mentalità capace di integrare il Vangelo nel vissuto quotidiano, così da renderlo luogo dove realizzare appieno la propria umanità. È qui che vanno individuati la via e i mezzi per giungere a Dio. Non è possibile pretendere di raggiungere la luna se si ha paura di entrare in una navicella spaziale e soprattutto se si pretende di essere trasportati da un carro trainato dai buoi. Non è solo questione di conoscenza teologica e neppure di essere assidui in pratiche religiose e spirituali, ma di promuovere lo sviluppo di quelle condizioni culturali, umane e mentali per raggiungere un simile obiettivo.
Vogliamo vedere Gesù è la richiesta che alcuni Greci rivolgono a Filippo, mossi evidentemente dalla testimonianza di Cristo che aveva destato la loro l’attenzione e messo in discussione il modo con cui essi erano soliti relazionarsi a Dio. Anch’essi erano uomini religiosi, ma la visione religiosa che avevano acquisito dal contesto culturale originario impediva loro di conoscere il volto autentico di Dio, che si manifestava ora attraverso la testimonianza di Cristo. Allo stesso modo anche noi come quei Greci, pur cresciuti all’interno di un contesto religioso, scopriamo che la nostra visione religiosa si rivela limitata nel realizzare pienamente la proposta evangelica di Gesù. La loro richiesta diventa perciò anche la nostra istanza ad uscire da una visione culturale e religiosa incapace di soddisfare le esigenze spirituali provenienti dalla vita evangelica di Gesù.
Rapportato al nostro oggi culturale chiedere di vedere Gesù, significa, perciò desiderare di entrare in quella visione di fede interrelazionale proposta da Gesù e, al contempo, avere il coraggio di prendere le distanze da quella visione religiosa, troppo dottrinale e moralistica, ereditata dalla tradizione, della quale spesso ci fregiamo con orgoglio, ma che si rivela asfissiante e sterile. Per troppi secoli, nel tentativo di rendere ragione della fede alla cultura con la quale interagiamo, abbiamo finito per isterilire e svuotare del suo dinamismo vitale e carismatico la fede cristiana. Un Dio perfetto, giusto, ma troppo astratto, relegato in una sfera eminentemente razionale e soprattutto sganciato da quell’orizzonte d’amore che ne costituisce l’essenza cristiana. Un Dio troppo lontano da quello “Vivo e vero” (1Ts 1,9), “Amore” (1Gv 4,8) e “Padre” (Mt 6,9) rivelato da Gesù, capace di suscitare un vissuto di fede che dà senso e pienezza alla vita di ciascuno.
Esemplificando la visione culturale degli Ebrei e dei Greci potremmo dire che ciascuno parte da un approccio diverso alla vita religiosa. Ciò non toglie che ognuno sia integrato dall’altro. Alla base della visione ebraica, per esempio, c’è l’ascolto; mentre alla base della visione greca c’è il vedere. Il Greco conosce il mondo e Dio a partire da sé; l’Ebreo conosce se stesso e il mondo a partire da Dio. Il Greco indaga la realtà seguendo una logica razionale, l’Ebreo conosce la vita a partire dalla propria relazione con Dio. Senza assolutizzare o ridurre il significato di questi due approcci, la domanda dei Greci ci suggerisce l’acquisizione di un altro approccio, che potremmo formulare in questi termini: come vedere Gesù? Ovvero come entrare nella visione di Dio e del mondo proposta da Gesù?
Alcune annotazioni di Giovanni che potrebbero passare inosservate, ci permettono di cogliere il senso di queste condizioni. L’episodio viene inquadrato nel contesto della salita di Gesù a Gerusalemme, città dove egli porterà a compimento il piano salvifico di Dio, attraverso la sua passione e morte (cf. Gv 11,55). Dal contesto si comprende il senso della risposta di Gesù. In occasione della Pasqua si trovavano a Gerusalemme anche alcuni gentili di diversa provenienza, quei stranieri cioè che manifestavano simpatie per la fede mosaica, tanto da aderirvi personalmente. Tra costoro vi erano anche alcuni Greci che avendo sentito parlare di Gesù, decisero di conoscerlo: “Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12, 21). Non sapendo come accostarlo, probabilmente anche a causa della lingua, decisero di rivolgersi a Filippo, data l’origine greca del nome; e questi insieme ad Andrea – anche lui con un nome di origine greca – riferirono a Gesù il desiderio dei Greci. La risposta di Gesù, apparentemente fuori luogo, si rivela invece di una profondità abissale. Essa esplicita le condizioni per accedere alla sua visione evangelica della vita: “E’ venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato …” (Gv 12,23). Gesù traccia il percorso necessario affinché ogni cultura, e quindi ciascuno di noi che la rappresenta, deve seguire se intende conoscere e partecipare della fede cristiana. È significativo che la richiesta vanga dai Greci. Essi simboleggiano la radici della nostra cultura e per certi versi anche i condizionamenti che hanno determinato nel processo interpretativo della fede cristiana.
La richiesta dei Greci diventa per Gesù un segno per capire che è arrivata l’ora della sua glorificazione, l’ora cioè in cui tutti potranno vedere e conoscere Dio con evidenza intellettiva. È l’ora di cui parla lo stesso profeta Geremia (cf Ger 31,34). Egli sa che la sua missione sta per traboccare il vaso giudaico e versarsi nelle culture del mondo circostante. Solo così essa potrà diventare lievito di salvezza. È evidente che i Greci non volessero vedere solo fisicamente Gesù, ma che intendessero conoscere e capire la logica evangelica della sua vita. È a partire da questo presupposto che diventa comprensibile la risposta di Gesù. La questione è che la conoscenza di Cristo non può avvenire sul terreno della logica razionale comune. Non è possibile pretendere di capire e conoscere Cristo con la stessa mentalità che ne preclude apriori la possibilità. Occorre una conversione mentale che adegui il proprio modo di pensare al pensiero di Gesù. Per questa ragione egli propone una logica conoscitiva che all’apparenza sa di assurdo, ma che in realtà si rivela essere chiaramente esplicativa della legge religiosa della vita. Gesù la esprime con la parabola del chicco di grano e più specificamente col processo a cui il seme viene sottoposto per poter generare la spiga. Quella del chicco è certamente tra le parabole più brevi raccontate da Gesù, ma estremamente significativa ed appropriata per far capire un argomento così impegnativo e delicato. Già dal linguaggio parabolico si capisce che la struttura mentale di Gesù è fondamentalmente simbolica, perciò diversa dal razionalismo filosofico e scientifico al quale sono stati educati e Greci e anche noi.
Cosa intende Gesù con: “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore, produce molto frutto”? (cf. Gv 12,24). Con questa parabola Gesù esplicita il divenire stesso della vita, fortemente caratterizzato dal susseguirsi di una condizione antinomica: vita e morte. Ogni realtà per poter crescere e svilupparsi deve necessariamente passare attraverso un percorso segnato da queste due realtà, apparentemente contraddittorie. Provo a fare un esempio: il respiro è vitale, ma se ci si ferma a trattenerlo, come a possederlo, in modo da non perderlo, si rischia l’asfissia. Esso è fondamentale per la vita eppure chi lo trattiene muore. Per vivere occorre donarlo, non possederlo. Se lo perdi vivi, se lo trattiene muori. Lo stesso vale anche per tutte le fasi di crescita della vita: chi vuole rimanere nel grembo della madre, perché si sente protetto, muore e così chi trattiene l’adolescenza o la giovinezza: rischia di non giungere mai alla maturità. Lo spirito nell’uomo si sviluppa seguendo la stessa legge della vita: tutto ciò che viene trattenuto per sé, per avere garanzie del futuro diventa una trappola di morte. Occorre allora perdere questa logica ed entrare in quella del dono di ogni cosa e perfino di sé all’altro. Solo così si sperimenta la vera libertà e la possibilità di crescere e svilupparsi. Nella sua semplicità la parabola dice dunque anche la condizione per entrare nella vita eterna. Non a caso essa diventa comprensibile alla luce delle condizioni che Gesù detta per ogni discepolo che decide di mettersi alla sua sequela: “se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16, 24). Quello che Gesù chiede al singolo discepolo, vale anche per ogni popolo, cultura o civiltà che voglia carpire il segreto della vita insito nella fede cristiana.
Quanto poco è stato tenuto conto questo criterio nel corso dei secoli, nel processo di cristianizzazione dei popoli, spesso battezzati solo per proselitismo, generando tensioni e rancori ancora oggi molto vivi. Una persona, una cultura, una civiltà non può essere accolta, compresa e amata senza partire dalla logica incarnativa di Dio. Senza cioè originarla all’amore che Dio ha per ogni uomo, popolo e cultura. Senza questa ragione teologica le persone, le culture, le civiltà vengono modificate dall’esterno, ma non trasfigurate e redente dall’interno. D’altra parte un popolo, una cultura, una persona che rimane chiusa in se stessa in un atteggiamento autocompiacente, si isterilisce e muore. Diversamente se ci si apre al dono di sé, si ritrova la vita. Ma l’apertura all’altro richiede necessariamente il coraggio di mettere in discussione la propria visione del mondo e la propria prospettiva culturale. Questo è ciò che comporta il rinnegare se stessi. Ognuno deve necessariamente morire, perdere cioè la propria idea di sé e perfino la vita, se vuole dare origine alla nuova vita in Cristo. Chi ama la propria cultura, la propria nazione, la propria persona, la propria razionalità più del Vangelo e di Cristo, non è degno di lui (cf. Gv 12, 25; Mt 10, 37). Chi invece perderà tutto per causa sua e per il Vangelo avrà cento volte di più e in eredità la vita eterna (cf. Mt 19, 29).
È interessante notare come questo percorso di conversione tracciato dalla parabola evangelica sia stato seguito dallo stesso Gesù, come fa notare l’autore della Lettera agli Ebrei: “Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo dalla morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito” (Eb 5,7). La condizione che rende possibile tutto ciò è l’obbedienza, che non è coercizione della volontà di un despota, come erroneamente viene intesa, ma adesione libera e volontaria all’amore oblativo di Dio. E Gesù ha vissuto l’obbedienza da uomo, piegando la propria volontà a quella divina, senza fare appello alle qualità divine, come sottolinea il testo: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,8-10).
La Pasqua, ovvero la meta della nostra conversione, traccia anche la logica con cui essa accade nella vita. In ogni momento, circostanza e ambito dell’esistenza siamo chiamati a passare dalla morte alla vita amando (cf. Gv 3,14). Quando tutto questo accadrà, allora significherà che è giunta “l’ora” di cui parla Gesù, l’“ora” cioè della vera rivelazione della vita di Dio nel mondo, quella in cui stando al profeta Geremia, le persone non dovranno più istruirsi gli uni gli altri per conoscere Dio, poiché tutti lo conosceranno, dal più piccolo al più grande (cf. Ger 31,34). L’“ora” in cui Dio sarà riconosciuto da tutti come il proprio Dio e ciascuno si riconoscerà come parte del suo popolo. Questa “ora” viene per chiunque decide nella libertà di voler glorificare Dio, proprio come ha fatto Gesù. Il che significa che ciascuno di noi, per entrare nella logica pasquale, deve necessariamente morire a se stesso, alla propria cultura, amando quell’altrui come la propria.
Paradossalmente questa logica di vita invece di portare all’annientamento di sé, come prevede un percorso logico e razionale, è condizione di esaltazione da parte di Dio (cf. Gv 12,28). “Chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11). Aderire alla mentalità divina che Gesù dischiude attraverso il suo Vangelo significa, perciò, partecipare della sua relazione d’amore. È qui il senso più originario dell’alleanza che Dio intende stabilire personalmente con ciascuno di noi. Allearsi con Dio non comporta più il rispetto di una norma esterna, come prevede la Legge mosaica, ma sposare in tutto e per tutto il suo piano d’amore ed organizzare la propria vita in modo da incarnarlo in ogni ambito dell’esistenza umana. Ecco la “nuova alleanza” di cui parla il profeta Geremia (Ger 31,31). Essa non viene dall’esterno e non è inscritta su tavole di pietra, ma viene dall’interno ed è inscritta nel cuore (cf. Ger 31,34), in quel luogo cioè dove l’uomo sperimenta la libertà come condizione originaria della propria relazione con Dio. La libertà costituisce per Gesù la condizione prioritaria ed originaria per vivere appieno la sua vita evangelica. È questa la vita che rende liberi. Mai come in questo caso possiamo dire che il Vangelo è per l’uomo e l’uomo è per il Vangelo (cf. Mc 2,27). “Cristo ci ha liberato perché restassimo liberi” (Gal 5,1). Fuori da questa libertà morale, spirituale e intellettiva, la salvezza rischia di divenire solo un palliativo culturale.
Se Nicodemo ci ha fatto capire che per aderire al messaggio evangelico di Gesù occorre rinnovare la propria struttura religiosa, i Greci ci fanno capire che tale rinnovamento deve essere esteso anche alla sfera culturale. Nicodemo e i Greci ci lasciano intendere che per vivere secondo lo stile evangelico di Cristo non basta disporre di una generica struttura religiosa e culturale, ma occorre un modo nuovo di pensare la vita di Dio e la vita del mondo, un modo che sia conforme al Vangelo. La conversione pertanto non deve essere limitata solo alla sfera religiosa, morale e spirituale, ma giungere ad impregnare anche quella intellettiva e culturale. Si tratta di scendere a queste profondità se si intende attuare la conversione in modo significativo e integrale. È a questo livello che bisogna giungere se si vogliono cambiare gli “otri” di cui parla Gesù. Si tratta dunque di disporsi a rivedere radicalmente la visione della vita e le relazioni interpersonali che ereditiamo dal contesto culturale nel quale viviamo, senza la quale il nostro cammino di conversione potrà rivelarsi non solo limitato, ma addirittura lesivo per la nostra vita. È da quest’oggi culturale e religioso che bisogna ripartire se s’intende dare un nuovo vigore e slancio alla fede.




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