21 Gennaio 2024 - Anno B - III Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 20 gen 2024
- Tempo di lettura: 11 min
Gn 3,1-5.10; sal 24; 1Cor 7,29-31; Mc 1,14-20
Chiamati alla vita evangelica del regno di Dio

“Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1, 15) è la formula con la quale Gesù dà inizio alla sua attività pubblica; ed esprime, al contempo, il nucleo della sua predicazione. Attività che, stando all’evangelista Marco, Gesù svolge prima della chiamata dei discepoli: Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, ai quali rivolge il seguente invito: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”. Ed essi, “subito, lasciate le reti lo seguirono” (Mc 1,17-18).
Con questo brevissimo racconto, caratterizzato da uno stile narrativo: sobrio, essenziale e concreto, Marco introduce i suoi lettori nel Vangelo di Cristo, col quale traccia il percorso di conversione di chiunque decide di porsi alla sequela di Gesù. Anche noi, allora, come i primi discepoli, mossi dalla chiamata di Cristo, proviamo a muovere i primi passi di conversione. Lo facciamo mettendo a fuoco i tratti essenziali della chiamata e i contenuti della predicazione di Cristo.
Ancora una volta la Chiesa ci propone il tema della chiamata. Inevitabili perciò sono i confronti col brano giovanneo[1] di domenica scorsa, rispetto al quale, la versione marciana si presenta estremamente stringata: concentrandosi esclusivamente sulla radicalità della chiamata di Cristo e sulla totalità della risposta dei discepoli. Anche l’insistenza marciana sull’immediatezza della decisione: “E subito lasciate le reti lo seguirono” (Mc 1,18.20), non fa che contribuire a conferire al suo racconto un valore più esemplare che storico (Ravasi).L’intero brano sembra, dunque, ridursi essenzialmente a questi due aspetti dinamici e interattivi: Cristo chiama, i discepoli rispondono. Tutto il resto, sembra volerci dire Marco, appartiene esclusivamente alla descrizione personale del narratore, la cui amplificazione letteraria rischia di distogliere l’attenzione del lettore dalla Parola di Dio[2]: l’unica realtà a costituire il Vangelo di Cristo. Pertanto, quando questa raggiunge l’uomo nella forma della chiamata di Cristo, non è più possibile tergiversare. Il suo processo di maturazione è giunto al compimento. All’uomo spetta solo decidere e lasciarsi guidare da Cristo. Ecco la disponibilità alla quale Marco intende condurre il suo lettore. La chiamata di Cristo provoca perciò una vera e propria svolta esistenziale, che non si limita alla sola sfera morale, ma cambia il destino della vita dei discepoli: da pescatori di pesci a pescatori di uomini (cf. Mc 1,17), una formula con la quale Marco intende dire che quella di Cristo è una chiamata capace di risignificare e riorentare la vita delle persone. Essa non cancella la vita di prima, semplicemente la trasfigura dal di dentro. Ecco il principio incarnativo e redentivo che guida la missione salvifica di Cristo.
Questa radicalità si comprende meglio alla luce della predicazione evangelica di Gesù, tutta incentrata sull’avvento imminente del Regno di Dio: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15). Il compimento di cui parla Gesù non è quello del tempo cronologico, ma quello del tempo kariologico[3], ovvero del tempo di grazia, col quale Dio predispone i cuori alla conversione, offrendo le condizioni per un reale cambiamento di vita. È a questo tempo che fa riferimento Paolo quando nel brano della sua prima lettera ai Corinti dice: “il tempo si è fatto breve” (1Cor 7,29). Esso viene ripreso anche nella sua seconda lettera ai Corinti quando, citando il profeta Isaia 49,8, dice: “Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza” (2Cor 6,2). Anche la sequenza con cui Marco dispone i verbi “convertitevi e credete” non è casuale, ma intenzionale: occorre convertirsi, ovvero rinnovare la propria mentalità, aderendo al modo di pensare di Cristo, per giungere ad un’autentica esperienza di fede in lui. Solo all’interno di questo rinnovato orizzonte relazionale si coglie la realtà divina del Regno che egli rivela col suo stile di vita evangelico. Vedere, convertirsi e credere descrivono così il metodo evangelizzativo di Gesù.
Ma cos’è il Regno di Dio o Regno dei cieli, di cui parla Gesù? Stando a Marco, tutto quello che Gesù pensa, dice e fa converge verso questa misteriosa realtà divina che egli inaugura con la sua predicazione. Esso non è una dottrina morale, né un’ideologia politica, non è neppure una filosofia di vita, ma la comunione d’amore che Gesù intesse col Padre, e della quale egli intende rendere partecipe tutti coloro che si aprono al suo annuncio evangelico[4]. Il Regno dei cieli è l’amore di Dio in atto, colto nel suo costante accadere nell’uomo e nel mondo. Pertanto esso si attualizza nel tempo, nella misura in cui coloro che l’accolgono aderiscono alla sua logica di vita. Quando ciò accade allora avviene il “compimento del tempo” [5]: la storia della salvezza si compie, determinando, in questo modo, la pienezza di senso della vita umana, quella che si realizza nella manifestazione della vita trinitaria, quella vita che per Giovanni costituisce la “verità tutta intera” (Gv 16,13)[6]. Per Gesù, dunque, la storia del mondo, così come quella di ogni singola persona, non si compie alla fine del tempo, come ritenevano i Giudei, ma nell’oggi della fede in lui. Lui è l’oggi della salvezza. Ecco la novità dell’escatologia (compimento della storia) di Gesù[7]. In ciò si distingue anche la predicazione del Battista rispetto a quella di Gesù: entrambi predicavano la conversione (cf. Mc 1,4.15). Tuttavia mentre il Battista prevedeva una conversione morale che consisteva nella confessione dei peccati, per Gesù essa consiste nell’adesione al suo Vangelo, inteso come luogo e condizione di salvezza. Se il Battista, al pari di tutti gli altri profeti, annunciava la salvezza futura di Dio, Gesù annuncia la stessa salvezza, ma nell’oggi della sua persona. Questa novità comporta un cambio radicale di mentalità. Credere che Dio salva è tipico della mentalità religiosa comune, ma credere che essa accada in Gesù, comporta una nuova mentalità. Non si tratta solo di credere nella salvezza di Dio, ma di crederla possibile in lui: ecco la nuova mentalità che Gesù chiede di acquisire con la conversione al suo Vangelo.
Ma cosa comporta il rifiuto o la semplice diffidenza nei confronti di questa chiamata? Per rispondere a questa domanda ci rifacciamo al brano dell’altro racconto biblico, proposto dalla Liturgia della Parola di oggi: la vocazione di Giona. Un racconto che vi invito a leggere non solo per la sua brevità, ma soprattutto per le sue travagliate vicissitudini sociali e per i suoi simpatici risvolti umani. Nella nota[8] vi riporto una sua sintesi. Una vicenda questa di Giona chiaramente dal valore simbolico. La maggior parte degli studiosi ritiene infatti che la storia di Giona, più che un valore storico, abbia una funzione didattica, il cui scopo è quello di far luce sul naufragio esistenziale a cui va incontro chi si sottrae alla chiamata di Dio. È importante perciò cogliere dietro l’avvicendarsi degli eventi che caratterizzano la sua vita, quegli aspetti che strutturano la dinamica della vocazione. La storia di Giona ci fa capire che la chiamata di Dio non è affatto un percorso idilliaco, che scaturisce dalla totale docilità all’azione dello Spirito di Dio, come sembra emergere dalla vocazione di Samuele, per esempio. Al contrario è costellata anche da resistenze, ribellioni e rifiuti che evidenziano la fatica dell’uomo a convertire la propria volontà a quella di Dio, verso la quale non pochi nutrono sospetti e pregiudizi culturali, da considerarla perfino come presupposto per limitare la libertà dell’uomo. In realtà Dio non ci chiama per contrastare i nostri progetti, o per limitare la nostra libertà, ma solo per realizzare appieno la nostra identità. La sua chiamata è sempre in vista della pienezza della vita. Il suo scopo perciò è la nostra esclusiva felicità. Egli ci chiama ad uscire continuamente fuori dai recinti angusti della nostra esistenza, per renderci partecipi della sua vita divina, per farci provare le vertigini dell’eternità, la gioia della salvezza, l’ebbrezza della libertà. Una salvezza la sua che non si limita all’ambito della vita individuale, e neppure solo a quello del popolo d’Israele – o ecclesiale nel nostro caso – ma chiede di essere estesa a tutta l’umanità. È esattamente questo lo scopo della missione profetica di Giona: proporre una visione universale della salvezza. Tutta la sua storia ruota intorno a questa missione.
A conclusione di questi due racconti ci poniamo alcune domande nel tentativo di personalizzare e attualizzare la chiamata nella nostra vita. L’evangelista Marco, come abbiamo visto, insiste molto sull’immediatezza della risposta dei discepoli. Essa nasce dalla consapevolezza che con Gesù la salvezza è oggi, e precisamente nel sì alla sua chiamata. Essa non ammette più dilazionamenti. Occorre decidersi e farlo qui e ora. Dinanzi a questa provocante sollecitudine viene da chiedersi: quante volte mi capita di rinviare o ritardare la mia risposta a Cristo? Quante volte, pur desiderando sinceramente la sua salvezza, a causa della mia indolenza, perdo le varie opportunità che il Signore mi offre? Quante volte il mancato incontro con Cristo mi impedisce di dare una svolta significativa alla mia vita e di cogliere il senso pieno della mia esistenza? Quanto incide la mia ricerca personale nel processo vocazionale? Ho avuto modo di cominciare il mio cammino di conversione? Se sì, cosa mi impedisce di farlo progredire e portarlo a compimento? Cosa mi trattiene dal giungere alla totalità della risposta dei primi discepoli? In che modo riesco a coinvolgere gli altri all’interno della mia personale esperienza di salvezza? Sono in grado di rendere attraente e appetitibile, agli occhi degli altri, lo stile evangelico della vita di Gesù? Quali forme, linguaggi e mezzi sono chiamato ad assumere nell’oggi dell’evangelizzazione?
Anche il profeta Giona ci offre diversi spunti di riflessione. Egli introduce nella chiamata non solo la possibilità umana di sottrarsi all’iniziativa di Dio, ma perfino di ribellarsi ad essa. Questo fatto ci invita a far luce su tutte quelle resistenze che albergano dentro di noi e che molto spesso ci precludono la possibilità di sperimentare la pienezza della vita nuova in Cristo. Capita, perciò anche a me di provare queste resistenze e se si, qual è la ragione che le determina? Sarebbe opportuno provare a dare un nome a quelle paure, ansie, preoccupazioni che in diversi modi limitano i nostri slanci spirituali. Nominarle significa imparare a dominarle e a superarle. Quali condizionamenti culturali mi impediscono di portare la salvezza oltre i confini della piccola comunità ecclesiale alla quale appartengo, e oltre quelli della mia confessione religiosa? Saprei individuare le tappe di quell’itinerario spirituale col quale Dio va dispiegando la sua chiamata nella mia vita?
Naturalmente a queste domande ciascuno può aggiungere anche quelle più personali che nascono dalle esigenze spirituali particolari. Tuttavia lo scopo non è quello di rispondere a tutte, bensì quello di lasciarsi sollecitare da quell’opera misteriosa che lo Spirito compie in noi attraverso la chiamata personale di Cristo, così da continuare nel mondo la sua opera salvifica.
[1] Il racconto della chiamata in Giovanni appare caratterizzato da un’attesa messianica, come emerge dall’immediato annuncio che Andrea rivolge al fratello Simone. “Abbiamo trovato il Messia” (Gv 1,41). A lui prema evidenziare quel cammino di ricerca personale sul quale si innesta la chiamata divina, fatto di ricerca, attesa, discernimento, maturazione. Questi aspetti costituiscono i presupposti esistenziali e spirituali che portano Andrea e Giovanni alla sequela di Gesù. La chiamata non viene dal nulla, ma si inserisce all’interno di una tradizione spirituale e religiosa di coloro che ci precedono (nel loro caso la predicazione del Battista).
[2] La sobrietà narrativa sembra costituire uno dei criteri con cui la tradizione cristiana ha stabilito la differenza tra i vangeli canonici e quelli apocrifi.
[3] Secondo l’etimologia greca il termine kairos indica “il momento opportuno”, il momento in cui accade una cosa speciale o di fondamentale importanza. Si distingue da chronos che indica invece il tempo caratterizzato dalla successione degli attimi.
[4] Che Gesù abbia come scopo la rivelazione della vita filiale che lui condivide col Padre nello Spirito appare evidente nell’Inno di Giubilo: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai semplici. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio: nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Mt 11,25-27).
[5] Per cogliere più in profondità il significato del Regno, inteso come compimento del tempo, vi propongo di rileggere questa formula marciana, alla luce di altri due passi evangelici: il primo è il discorso inaugurale che Gesù tiene nella Sinagoga di Nazaret, quando citando Isaia dice: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udito con le vostre orecchie” (Lc 4,21); l’altro è la risposta che Gesù dà a coloro che mettevano in discussione la sua fedeltà alla Legge mosaica, nella quale afferma: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti, non sono venuto per abolire, ma a dare pieno compimento” (Mt 5,17). Nell’uno e nell’altro caso Gesù non si limita a fare un semplice commento o ad offrire una personale interpretazione della Scrittura, ma ad esserne il compimento storico. Con lui la Scrittura si compie nell’oggi della storia. In questa prospettiva teologica si capisce che la formula “Il tempo è compiuto” non si riferisce al compimento diacronico del tempo, ma al compimento di senso della storia. Per Gesù il senso pieno della scrittura sta nell’esperienza salvifica in Dio. Il Regno pertanto è la comunione di vita con Dio che ciascuno può avere nella persona di Gesù. È questa comunione d’amore che salva. La salvezza si compie nel tempo tutte le volte che in Cristo esperiamo l’amore del Padre. Cristo diviene così il luogo del Regno di Dio, la sua manifestazione visibile, la sua sorgente vitale tra gli uomini. Gesù è l’oggi del Regno nel tempo.
[6] A questo amore i discepoli furono abituati durante la loro permanenza con Gesù: “Stare con lui” come dice marco 3, 14 o “dimorare con lui”, come ribadisce Giovanni 1, 38, significa vivere in relazione permanente col Padre. Entrare cioè nella dinamica dell’amore trinitario. Tutta l’attività predicativa di Gesù sembra avere questo unico fine. D’altra parte l’attività pastorale dei discepoli, compresa la nostra, altro non è che l’estensione di questo stare intimo con Gesù nelle relazioni umane, sociali e culturali. Lì dove queste relazioni si realizzano accade il Regno di Dio.
[7] “Io sono la risurrezione e la vita” – dice Gesù a Marta in occasione della morte del fratello Lazzaro – “Chiunque crede in me non morrà in eterno. Credi tu questo?” (Gv 11,25-26). Dalla risposta scaturisce l’oggi della salvezza. Per questo Giovanni può affermare: “Chi crede in lui ha la vita eterna” (Gv 3,15.16.36).
[8] Di Giona non disponiamo dati certi. Del suo libro invece gli studiosi ritengono di datarne la redazione tra il 450 e il 200 a.C., periodo che corrisponde all’incirca all’epoca del dopo esilio babilonese. Esso ci riferisce di un profeta qualificato come “figlio di Amittai” (Gio 1,1), la cui missione si svolge al limite del paradosso. Questi, infatti, viene chiamato da Dio per annunciare la salvezza ai Niniviti, un popolo storicamente nemico dei giudei. Per questa ragione accetta mal volentieri la missione profetica. Egli è dell’avviso che la “malvagità” (Gio 1, 2) dei Niniviti non meriti di essere giustificata, al contrario, va severamente condannata. Animato perciò da un’idea di giustizia retributiva, secondo la quale Dio deve punire i peccatori e premiare i giusti, si rifiuta di intraprendere una simile missione. Per sottrarsi al comando divino s’imbarca per Tarsis. Una volta in mare la nave viene colta da una violenta tempesta che i marinai sospettano causata dalla presenza a bordo di un colpevole, contro il quale si è scatenata la collera di Dio. Tirano a sorte per individuare l’uomo e questa cade su Giona, il quale chiede di essere gettato in mare, a seguito del quale la tempesta si calma. Avvolto dagli abissi Giona viene inghiottito da un grosso pesce, nel cui ventre rimane chiuso per tre giorni, durante i quali recita un salmo, al termine di esso viene vomitato e rigettato sulla riva. Consapevole della sua disfatta viene chiamato una seconda volta, e finalmente si reca finalmente a Ninive, dove per quaranta giorni predica la penitenza, minacciando rovina contro gli abitanti, nel caso in cui non si convertiranno. Ritiratosi dalla città, Giona si pone di poco lontano, sotto l’ombra di un ginepro, al riparo dal sole, per osservare la reazione dei Niniviti. Avrebbe voluto una punizione da parte di Dio, ma diversamente dalle sue attese i Niniviti, a partire dal re, si convertono. Deluso da questo epilogo Giona rimane addolorato, al punto da desiderare la morte. Ma Dio lo riprende facendo seccare la pianta che gli donava l’ombra. Il dispiacere che prova per questa perdita insignificante offre a Dio l’occasione per farlo riflettere su quello che Dio avrebbe provato per la perdita dei Niniviti.




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