20 Ottobre 2024 - Anno B - XXIX Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 19 ott 2024
- Tempo di lettura: 7 min
Is 53,10-11; Sal 32/33; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45
La logica relazionale della vita ecclesiale

“Maestro vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo: … Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra” (Mc 10,35.37).
È la richiesta che Giacomo e Giovanni avanzano a Gesù, in una circostanza tutt’altro che tranquilla e serena. Essi infatti – stando all’evangelista Marco – erano in viaggio verso Gerusalemme, durante il quale Gesù aveva appena preannunciato, per la terza volta, la sua “passione, morte e risurrezione” (cf. Mc 10,32-34). Ne scaturisce un episodio che ci offre la possibilità di soffermare l’attenzione sulla logica relazionale che deve caratterizzare la nostra vita ecclesiale. In questa ottica l’immagine del Servo sofferente di Isaia, propostoci dalla Liturgia, ci offre notevoli spunti di riflessione, per delineare il profilo di chi è chiamato ad esercitare un ruolo di governo all’interno della comunità ecclesiale. Le stesse immagini del calice e del battesimo indicate da Gesù, contribuiscono ad esplicitare meglio l’itinerario spirituale che costui è tenuto a seguire.
Ma proviamo ora a rileggere l’episodio evangelico nel tentativo di mettere a fuoco anche la metodologia educativa praticata da Gesù nei confronti dei due discepoli e, verso quanti come loro, all’interno della Chiesa, sono attraversati dalla costante tentazione di ambire al potere come forma di prestigio personale e di dominio sull’altro. Si tratta di una tentazione antica quanto l’uomo, che spesso serpeggia, sia pure in maniera tacita, dentro ciascuno di noi, ed emerge tutte le volte che nasce l’esigenza di darci una struttura di vita comunitaria o sociale.
Appare subito chiara l’interpretazione politica che Giacomo e Giovanni hanno del Regno di Dio e del relativo Messia che ne proclama l’arrivo imminente. Essi, condizionati da una visione regale proveniente dall’antica tradizione davidica, si rivelano incapaci di cogliere la novità evangelica con cui Gesù rilegge queste due categorie bibliche. Nel mentre egli parla del Regno di Dio essi lo comprendono come Regno d’Israele, di conseguenza lo stesso Messia viene inteso in termini di condottiero politico. Ci troviamo dunque dinanzi allo zoccolo duro della mentalità religiosa e culturale, quella più difficile da convertire. Ma è proprio a questi livelli che, oggi più che mai, occorre intervenire, se intendiamo rispondere alle attuali istanze spirituali e dare credibilità al vissuto ecclesiale. Non è più possibile continuare ad annunciare il Vangelo e vivere nella Chiesa secondo la logica del mondo.
Ma come realizzare una simile conversione culturale? Come tradurre in un vissuto relazionale e sociale gli insegnamenti evangelici di Gesù? Si rivela determinante, a questo punto, capire quale idea Gesù avesse della comunità. A quale stile di vita relazionale i suoi discepoli dovevano ispirarsi? Nel rispondere a queste domande troviamo utili le indicazioni che Gesù rivolge a tutti i suoi discepoli: “Voi sapete che coloro che sono considerati governanti delle nazioni dominano su di esse, e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti” (Mc 10,43). Questa esortazione sembra delineare l’immagine emblematica della comunità evangelica alla quale – egli pare chiedere – dovranno guardare tutti coloro che, nel corso della storia, saranno chiamati a istituire la vita ecclesiale. Essa, e il relativo insegnamento che ne segue, contengono, infatti, un po’ gli elementi e le condizioni fondamentali, raccomandate da Gesù a chiunque decide di entrare a far parte della sua comunità e più specificamente per chi dovrà assumersi la responsabilità del suo governo. Rileggendola viene da fare subito una prima considerazione. È interessante notare che Gesù non chiede ai suoi di soffocare il desiderio di primeggiare sugli altri, ma di convertire questo desiderio in un primato d’amore: “Chi vuol diventare grande tra voi sarà servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti” (Mc 10,43-44). Un’autentica terapia d’urto, si direbbe, quella che Gesù propone a chi è attraversato dalla tentazione del potere e del comando, ai quali chiede di assumere atteggiamenti del tutto opposti: a chi nutre manie di grandezza chiede di mettersi al servizio; mentre a chi ha il pallino del primato chiede di abbassarsi al livello dello schiavo.
Emergono criteri pedagogici alquanto impattanti per le nostre fragili strutture psicologiche, osservando i quali viene da chiedersi se mai vengono tenuti in considerazione durante il percorso formativo dei giovani sacerdoti, e perché no, nella scelta dei superiori religiosi e dei vescovi. Il che significa che essi dovranno essere animati dallo stesso desiderio del maestro: vivere la vita come dono di sé all’altro, il quale “non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). Un’autentica consegna di sé al servizio evangelico, inteso come condizione per combattere quella insidiosa tentazione di strumentalizzare Dio per dominare sugli altri, esattamente come fanno Giacomo e Giovanni, i quali si servono di Gesù per avere un ruolo di prestigio, con cui sperano di esercitare un dominio sugli altri. Un’esigenza la loro, che stravolge radicalmente la visione che Gesù aveva della relazione interpersonale, tesa, invece, all’amore e al servizio dell’altro.
Per comprendere ancora più in profondità questa visione comunitaria di Gesù, e il relativo insegnamento pedagogico che ne scaturisce, è opportuno osservarlo mentre si relaziona ai sui discepoli. Nello specifico, egli avrebbe potuto sferzare i due con un rimprovero moralistico, per far fronte all’ondata di indignazione che essi suscitarono negli altri discepoli (cf. Mc 10,41), e invece senza reprimere la loro voglia di protagonismo, pone loro due domande, come a promuovere una pacata riflessione, senza urtare la loro suscettibilità: “Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?” (Mc 10,38). Domande che apparentemente sembrano non avere nessuna attinenza con la richiesta, in realtà rivelano il segreto per accedere al Regno di Dio. Il calice e il battesimocostituiscono infatti le immagini simboliche con cui Gesù traccia l’itinerario della sua “passione, morte e la risurrezione”. Il calice nella visione biblica, è sinonimo della passione e della sofferenza subita ingiustamente, sebbene non costituisca il fine della missione. Per questa ragione esso viene strettamente associato al battesimo che allude, invece, alla risurrezione e quindi alla nuova vita del regno. Posto in questi termini Gesù non impone il suo itinerario, ma chiede loro la disponibilità a sceglierlo liberamente, come infatti accade nella risposta che essi danno a Gesù: “Lo possiamo” (Mc 10,38). In altre parole, con tatto e termini alquanto delicati – le savoir-faire direbbero i francesi – Gesù fa capire che l’obiettivo del loro discepolato non consiste nel conquistare un ruolo di prestigio all’interno del regno, quanto nel capire le condizioni per esercitarlo in modo evangelico. Condizioni che Gesù esplicita in termini di calice e battesimo. Il che – tradotto a livello spirituale ed esistenziale – prevede di rinnegare il proprio io e di conformarlo a quello di Dio, secondo lo stile della “passione, morte e risurrezione” di Cristo. E a queste condizioni che essi potranno accedere alla vita nuova del Regno di Dio. Questa, poi, non è strutturata in classi, ceti o stati sociali, come accade per i ‘regni’ umani. Essa non prevede neppure l’idea di un primato, se non quello di “Dio amore”, l’unica forma di primato che Gesù riconosce all’interno del regno, il quale non va inteso nel senso di ‘monarchia divina’, come spesso è stato interpretato nel corso dei secoli per giustificare e fondare quella umana, ma nel senso di ‘gerarchia relazionale’, senza la quale nessuna vita comunitaria, ecclesiale o sociale può sussistere. Per Gesù il ruolo – comunque sia la sua forma – non è fine a se stesso, ma in funzione della pratica dell’amore, l’unica forma di vita capace di evitare gli estremi della vita relazionale: il servilismo nei confronti dei superiori, e il dominio nei confronti dei inferiori. Ad ogni modo queste categorie, per così dire sociali, sembrano scomparire del tutto nella visione di Gesù, quando durante il Discorso di Addio, si rivolge ai suoi chiamandoli amici e non più servi (cf. Gv 15,14-15), come a voler lasciarci intravedere la stessa forma di vita d’amore che sussiste a livello trinitario: tra Lui, il Padre e lo Spirito: principio e modello di ogni vita comunitaria.
Ma è possibile vivere in questo modo? Questa forma di vita relazionale non sembra troppo idealizzata e utopistica? La risposta non può che asserire questa impressione, se osserviamo i modi con cui vengono esercitati i ruoli e vissute le relazioni all’interno della vita ecclesiale. Se invece proviamo ad aderire all’itinerario tracciato con le immagini del calice e del battesimo che Gesù propone ai due discepoli, allora le cose cambiano. Egli non promette ai suoi discepoli alcuna forma di glorificazione personale e riconoscimento sociale, ma solo di sposare la causa del suo vangelo, per contribuire alla realizzazione del piano salvifico di Dio nel mondo. Per fare ciò occorre condividere la sua logica messianica, così come viene esplicitata dalla figura del Servo sofferente descritto da Isaia, il quale senza badare al disprezzo e alla sofferenza (cf. Is 53,3) che la sua missione comporta nel mondo, decide – per amore – di compiere fino in fondo la volontà di Dio.
Una logica perdente e paradossale che umanamente nessuno sceglierebbe di seguire, eppure è quella che Dio predilige per salvare il mondo, non già attraverso la potenza umana, semmai per mezzo della sua debolezza, esattamente come ha modo di sperimentare Paolo, durante la sua missione pastorale alle genti, come emerge dalla sua celebre formula: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10), che tradotta significa: quando rinuncio ad ogni forma di potere personale e non esito a rivelarmi in tutta la fragilità umana, è allora che consento a Dio di mostrarsi in tutta la sua potenza salvifica. Cristo – come afferma l’autore della lettera agli Ebrei – “prende parte alle nostre debolezze” (cf. Eb 4,15), per continuare ad attuare il disegno salvifico di Dio nella storia. Semmai riusciamo in questa impresa essa non sarà per merito nostro, ma dello Spirito che faremo agire in noi. È lui che suscita in noi il desiderio di convertire la nostra mentalità culturale e conformare le nostre relazioni interpersonali alla vita evangelica di Cristo, secondo lo stile dell’amore trinitario. È per amore di questo stile di vita che ci predisponiamo a trasformare i desideri di dominio, di possesso, di conquista e i sentimenti di disprezzo, di indifferenza, di sdegno, di odio in atteggiamenti di cura, attenzione, interesse, dedizione, dono, consegna, benevolenza. “Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno” (cf. Eb 4,16).




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