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20 Novembre 2022 - Anno C - Solennità di Cristo Re


2Sam 5,1-3; Sal 121/122; Col 1,12-20; Lc 23,35-43


La regalità salvifica di Cristo

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“Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele. Vennero dunque tutti gli anziani d’Israele a Ebron … ed unsero Davide re d’Israele” (2Sam 5,2-4). “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso. Sopra di lui c’era anche una scritta: Costui è il re dei Giudei” (Lc 23,37-38). Sono i versetti con cui la Liturgia della Parola di oggi delinea il tema della regalità, nella sua duplice versione: politica quella di Davide e spirituale quella di Cristo. Una differenza, a dire il vero, da sempre nota, ma non sempre interpretata e vissuta in modo autentico, da coloro che hanno ricevuto da Dio il mandato divino di guidare il popolo alla salvezza. Noi cercheremo di mettere a fuoco le caratteristiche specifiche dell’una e dell’altra, per meglio coniugare, nel vissuto quotidiano, le rispettive esigenze. Tutta la nostra vita sociale ed ecclesiale è contesa tra queste due tensioni polarizzanti, che chiaramente non vanno né eluse né contrapposte né minimizzate, ma vissute in un equilibrio umanodivino.

Nella Bibbia la regalità prima ancora di essere una forma di potere è un servizio che il re è chiamato a svolgere a favore del popolo. Eppure solo di rado viene vissuta in questa forma. A questo riguardo i testi biblici non esitano a descrivere gli abusi perpetrati da coloro che si sono susseguiti sul trono regale nel corso della storia, come attesta l’episodio di Davide e Betsabea (cf. 2Sam 11). Dinanzi a queste evidenti deviazioni morali, assai significativa si rivela la preghiera rivolta a Dio da Salomone all’inizio del suo regno, quando giovanissimo e inesperto, si ritrovò ad ereditare il regno d’Israele da Davide suo padre. Avvertendo il peso della grave responsabilità egli chiese a Dio il dono della Sapienza, per esercitare il suo mandato “secondo il cuore di Dio” (1Sam 13,14): “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1Re 3,9). Salomone – come fa notare Benedetto XVI – pregò Dio di concedergli “un cuore docile”, che tradotto per noi significa chiedere “una coscienza che sa ascoltare, che è sensibile alla voce della verità, e per questo è capace di discernere il bene dal male … Il re d’Israele, pertanto, deve cercare di essere sempre in sintonia con Dio, in ascolto della sua Parola, per guidare il popolo nelle vie del Signore, la via della giustizia e della pace. Ma l’esempio di Salomone vale per ogni uomo. Ognuno di noi ha una coscienza per essere in un certo senso “re”, cioè per esercitare la grande dignità umana di agire secondo la retta coscienza operando il bene ed evitando il male. La coscienza morale presuppone la capacità di ascoltare la voce della verità, di essere docili alle sue indicazioni. Le persone chiamate a compiti di governo hanno naturalmente una responsabilità ulteriore, e quindi – come insegna Salomone – hanno ancora più bisogno dell’aiuto di Dio. Ma ciascuno ha la propria parte da fare, nella concreta situazione in cui si trova. Una mentalità sbagliata ci suggerisce di chiedere a Dio cose o condizioni di favore; in realtà, la vera qualità della nostra vita e della vita sociale dipende dalla retta coscienza di ognuno, dalla capacità di ciascuno e di tutti di riconoscere il bene, separandolo dal male, e di cercare pazientemente di attuarlo e così contribuire alla giustizia ed alla pace”[1]. Ho voluto inserire qui questa lunga citazione del papa perché ciascuno di noi è chiamato a capire il modo con cui esercitare il proprio mandato nel mondo o nella Chiesa, ma a farlo, come Salomone[2]: chiedendo in primo luogo al Signore “un cuore docile”, per capire il modo con cui incarnarlo. La nostra vita di fede, infatti, per quanto sia caratterizzata da una evidente tensione spirituale, non è mai avulsa dalle esigenze della vita sociale. Per cui ciascuno è chiamato a trovare continuamente un equilibrio tra queste due realtà. “Regalità politica” e “regalità spirituale” lungi dal contraddirsi o annullarsi a vicenda, costituiscono allora, un tutt’uno inscindibile che necessita però di essere vissuto con discernimento e nella dovuta distinzione, senza confusione né inclusione. Si capisce allora il senso della preghiera di Salomone. Diversamente la storia ci riferisce di casi in cui il mancato equilibrio ha portato a ridurre il potere della regalità spirituale a quello politico e temporale o, al contrario, ad attribuire un potere divino a quello chiaramente terreno. Come si spiegano questi epiloghi?

Per rispondere a questa domanda provo a delineare le ragioni storiche che hanno portato la Chiesa ad istituire questa solennità. Una festa relativamente recente. Essa, infatti, è stata istituita da Pio XI nel 1925, in un contesto sociale e politico dove, almeno in Europa, si andavano affermando tra le più crudeli forme di dittature, come il nazismo, il fascismo e il comunismo. Forme di governo che negavano anche i più elementari diritti umani. Nel tentativo di contrastare l’avanzata di questi regimi totalitari, Pio XI ritenne opportuno istituire questa festa. Una proposta la sua che, a giudicare dall’esito storico, rimase inascoltata. Anche il recente conflitto bellico tra Russia e Ucraina attesta la permanenza di una mentalità dittatoriale spesso avallata da un fondamento religioso e spirituale. Come spiegare questa operazione? Le risposte potrebbero essere tante, ma a mio avviso una ragione fondamentale sta nell’aver smarrito il senso cristiano della vita, intesa come luogo in cui si dispiega il piano salvifico di Dio. Da qui l’esigenza di osservarla alla luce di quel triplice sguardo di cui abbiamo parlato domenica scorsa, ovvero profetico, escatologico e apocalittico che ci educa a considerare Cristo come colui nel quale tutta la storia umana e cosmica trova il suo senso e compimento. Esattamente il significato della nostra solennità, espresso in modo emblematico anche da san Paolo nella sua lettera ai Colossesi, quando dice che in Cristo “furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui” (Col 1,15-17).

Alla luce di questa visione proviamo ora a focalizzare lo specifico senso della regalità di Cristo, a partire dal contesto israelitico in cui si è sviluppata. Solitamente quando si pensa ad un regno si immagina subito una forma di governo monarchico, che pone al vertice della sua gerarchia politica la figura del re. Così è stato anche per gli Israeliti, quando influenzati dagli regni adiacenti, cominciarono a sentire l’esigenza di assumerne questa forma politica nell’organizzazione della loro vita sociale. Ma sin dall’inizio Dio, attraverso i profeti, ha sempre manifestato forte riserve per questa organizzazione politica e sociale. Evidentemente però la suggestione di questa forma di governo era molto forte, per cui gradualmente il popolo ne assunse la mentalità, fino ad istituirla anche nel proprio territorio. Così, dopo il periodo storico caratterizzato dal governo dei Giudici, essa, fu definitivamente assunta dal popolo. Quindi, prima con Saul e, dopo di lui, con Davide e Salomone, il regno d’Israele raggiunse la sua forma più gloriosa. Il brano liturgico della prima lettura ci riferisce proprio l’investitura davidica da parte dei rappresentanti delle dodici tribù d’Israele. Ma rispetto a quelli degli altri popoli i re d’Israele, non si sono mai autodivinizzati, alla maniera dei faraoni, per intenderci. Al contrario hanno sempre manifestato la coscienza di essere solo i “rappresentanti di Dio” presso il suo popolo. Questo modo di intendere il titolo regale fu espresso in Israele con la formula: “Unto del Signore”, ovvero “colui che viene consacrato da Dio, profeta, re o sacerdote”, con la specifica funzione di guidare il popolo alla salvezza. Secondo una concezione diffusa nell’antico Oriente questa formula corrispondeva anche al titolo di “Figlio di Dio” o “Salvatore del popolo”. Ed è proprio su questa interpretazione che si innesta la visione messianica della regalità di Cristo.

In almeno tre circostanze i Vangeli ci attestano di questo titolo regale attribuito a Cristo e precisamente: al termine dell’episodio della moltiplicazione dei pani (cf. Gv 6,15); durante il processo nel pretorio (cf. Gv 18,37-38) e nell’episodio della sua crocifissione, come attesta il brano evangelico di oggi (cf. Lc 23,37-38). In nessuno di questi tre episodi Gesù lascia intendere una forma politica o temporale della sua regalità. A togliere ogni equivoco è la risposta che egli dà a Pilato durante il processo, quando dice: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36), come a dire che lo scopo del suo regno non è quello di esercitare un dominio, ma un servizio reso nella forma dell’amore evangelico.

È interessante notare che molti cristiani, in diverse epoche storiche, pur disponendo di questa testimonianza così chiara e inequivocabile, hanno continuato ad invocare “venga il tuo regno” (cf. Mt 6,9-13; Lc 11,2-4) più in chiave politica e temporale che nel senso proclamato da Cristo. Condizionati dal contesto culturale e giuridico dell’Impero Romano, per esempio, essi giunsero ad organizzarlo alla maniera di uno Stato. L’Impero Bizantino e il Sacro Romano Impero sono solo alcuni di questi tentativi. Ma è possibile istituzionalizzare il regno di Dio o racchiuderlo all’interno di strutture giuridiche tipicamente umane? Chiunque voglia dare una risposta a questa domanda deve necessariamente fare i conti con l’antinomia fondamentale del Regno di Dio: quella cioè di essere in questo mondo senza essere di questo mondo. Gesù non ha lasciato alcuna indicazione a livello organizzativo. Come mai? Credo che una delle ragioni stia nel senso della terza beatitudine: “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5,5). Se il desiderio recondito di coloro che aspirano a governare le nazioni è quello di padroneggiare il potere del mondo, allora si tratta di cogliere la metodologia espressa in questa beatitudine che, paradossalmente, chiede nel rinnegare quel desiderio di dominio assoluto che alberga nei nostri cuori. A giudizio di Gesù tale operazione consente di ricevere in eredità la terra, senza perdere la propria vita o rovinare se stessi (cf. Lc 9,25).

Il brano evangelico, infatti, ci presenta una regalità paradossale e perfino crocifissa. Gesù viene colto in uno stato di estrema impotenza, quando sulla croce gli viene chiesto di appellarsi al suo potere divino per salvarsi: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso” (Lc 23,37), ma egli sceglie di affrontare la morte rinunciando ad ogni forma di potere, svuotandosi perfino della sua divinità. Perché questa rinuncia? Perché questo modo di esercitare la sua regalità? Non avrebbe potuto seguire il consiglio di Satana durante le Tentazioni nel deserto (cf. Mt 4,1-11), quando questi gli suggerì di sfruttare il potere divino a suo vantaggio? Quale politico, specie quando viene avversato dai nemici, non ricorre ai suoi poteri per difendersi? È in questo atteggiamento di Cristo che si profila tutta la nostra difficoltà a cogliere la logica evangelica del suo regno. Così mentre noi continuiamo a nutrire l’innato desidero di dominare l’altro e conquistare il mondo, Gesù trasforma questa ambizione in un servizio teso alla loro salvezza: “Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Tra voi però non sia così, ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il figlio dell’uomo infatti non è venuto per esser servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,42-45). Una logica la sua comprensibile solo alla luce di un totale rinnegamento di sé, come quello compiuto dal ladrone che non chiede a Gesù nulla per sé, né di essere liberato dalle sofferenze della croce, ma di condividerla con lui fino in fondo, come condizione per accedere al suo regno: “Gesù ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. E Gesù, senza mezzi termini, gli risponde: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23,42). Il ladrone crede senza indugio alla sua regalità, espressa nel cartiglio posto sopra la testa di Gesù: “Questi è il re dei Giudei” (Lc 23,38). Tra tutti i presenti egli è l’unico a cogliere il senso autentico della regalità di Cristo. Per questo egli viene introdotto immediatamente nel paradiso. Per lui il regno non si attualizza in questa o quella forma di governo e neppure si identifica con una forma di dominio, ma nell’oggi della fede in Cristo, “per mezzo del quale e in vista del quale sono riconciliate tutte le cose” (Col 1,19). Ecco lo scopo e l’essenza della regalità di Cristo nel mondo.



[1] Benedetto XVI, Angelus, 24 luglio 2011. [2] Questa preghiera rivela tutta la grandezza dell’animo di Salomone ma anche l’estrema generosità di Dio, come traspare dal suo seguito: “Al Signore piacque che Salomone avesse domandato la saggezza nel governare. Dio gli disse: Poiché hai domandato questo e non hai domandato per te né lunga vita, né la ricchezza, né la morte dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento per ascoltare le cause, ecco io faccio come tu hai chiesto. Io ti concedo un cuore saggio e intelligente, come te non ci fu alcuno prima di te né sorgerà dopo di te. Ti concedo anche quanto non hai domandato, cioè ricchezza e gloria come nessun re ebbe mai”

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