20 Giugno 2021 - XII Domenica del Tempo Ordinario Anno B
- don luigi
- 20 giu 2021
- Tempo di lettura: 8 min
Gb 38, 1.8-11; Sal 106/107; 2Cor 5,14-17; Mc 4,35-41
Quando giunge la prova

“Passiamo all’altra riva” (Mc 4,35) è la richiesta che Gesù rivolge ai suoi discepoli, alla fine di un capitolo evangelico tutto incentrato sulle parabole del regno, come a voler verificare la consistenza della loro fede, dopo un periodo di insegnamento. La possibilità viene offerta a Gesù da una circostanza molto concreta: egli aveva appena finito di spiegare la ragione del suo linguaggio parabolico (cf. Mc 4,33-34), quando, al sopraggiungere della sera (v.35), manifesta loro l’esigenza di doversi spostare all’altra riva del lago di Genesaret. Durante l’attraversata accade però un fatto imprevisto, improvvisamente s’alza una tempesta così impetuosa, da mettere in pericolo perfino la loro vita. Una circostanza opportuna che Gesù colse a volo, per far loro compiere una svolta nella fede.
Rileggendo con calma i primi quattro capitoli del Vangelo di Marco, prendiamo atto che l’evangelista pone questo episodio tra quelli decisivi del cammino di sequela dei discepoli. Essi sono la chiamata personale di ciascuno, sinteticamente tratteggiata da quella dei primi quattro discepoli (cf. Mc 1,16-20); la loro costituzione comunitaria (cf. Mc 3,13-19); l’annuncio del regno, inteso come scopo e missione della loro vita (cf. 4,1-34) e quindi la prova (cf. Mc 4,35-38), alla quale essi vengono sottoposti, per imparare a tradurre in un vissuto pratico e concreto, l’insegnamento al quale essi hanno finora partecipato, ascoltando e vedendo Gesù vivere il vangelo nel quotidiano.
Noi ci soffermeremo solo su quest’ultimo episodio, nel tentativo di capire la modalità con cui la prova si manifesta anche nella nostra vita. Anche a noi, come ai discepoli, possono verificarsi circostanze decisive per la nostra fede che giungono inaspettate. Si tratta di situazioni spesso paradossali e drammatiche, che apparentemente sembrano non avere alcun nesso con la nostra vita spirituale, ma che se colte e interpretate alla luce di Dio, diventano fondative per noi e per gli altri.
Anche per noi, dunque – dicevamo – sopraggiunge, prima o poi, un momento in cui siamo chiamati a dare prova della fede. Nel caso dei discepoli essa si manifesta durante un’“attraversata”, nella forma di un passaggio, che richiama subito alla memoria quello dell’Esodo – dall’Egitto alla terra promessa – compiuto dagli Ebrei attraverso il Mar Rosso (cf. Es 20), e quello Pasquale – dalla morte alla vita – compiuto da Cristo. Un passaggio, questo, che evidenzia i due atti fondativi della fede: uscire e attraversare. Uscire è la prima cosa da fare che Dio chiede ad ogni chiamato, come fa con Abramo. Essa può riguardare l’uscita dalla propria terra, dalla propria famiglia, dalla propria cultura territoriale, da sé. Si tratta di un movimento di distacco nei confronti di un orizzonte di idee che spesso tendono a limitare la nostra persona. Attraversare, invece, è l’atto che viene subito dopo, quando dinanzi a noi comincia a profilarsi una realtà sconosciuta, un pericolo o un ostacolo che può precludere lo sviluppo del cammino, come accade al popolo d’Israele quando, uscito dall’Egitto, s’impatta col Mar Rosso. Si tratta di due momenti decisivi che richiedono tanta fiducia in colui che ci apre a nuovi orizzonti esistenziali. Entrambi i verbi ci lasciano intendere la fede come qualcosa di dinamico che ci coinvolge in un cammino di perenne conversione a Dio, un po’ come accade con la vita. Questa, infatti, è intrinsecamente costituita da continui passaggi: da quello originario della nascita, fino a quello estremo della morte, procedendo attraverso quelli più piccoli della vita quotidiana. Nessuno di questi passaggi è opzionale, ma tutti necessari alla crescita e allo sviluppo della persona. Sotto l’aspetto spirituale, pertanto, essi ci educano progressivamente ad uscire fuori di noi, per entrare in quella visione divina della vita che ha come protagonista Dio. Si tratta allora di imparare a vedere la nostra esistenza dal punto di vista di Dio, che nel caso specifico del brano evangelico, significa passare da una visione caotica della vita, di cui il mare è simbolo[1], ad una visione ordinata e armonica. Tutti coloro che pur ponendosi alla sequela di Cristo, non osano aprirsi alla trasformazione che questi passaggi comportano, rischiano di vivere la vita chiusi nel cerchio della propria egocentricità. Ciclicamente orientati verso se stessi. Gesù invece vuole educare i suoi ad avere costantemente uno sguardo sull’Oltre e dall’Oltre.
Nessuno passaggio, tuttavia, può avvenire senza uscire dalle proprie abitudini, stando comodamente seduti sugli allori delle proprie idee e conquiste. Occorre perciò “passare costantemente all’altra riva della vita,” per aprirsi al punto di vista dell’Altro e ciò comporta sempre il rischio di perdere qualcosa, in primo luogo le certezze personali e quotidiane, quelle conquistate magari con la fatica delle nostre esperienze, che solo per un breve periodo sembrano darci tranquillità e stabilità, ma che si rivelano, col tempo, molto precarie e passeggere. Passare dall’io a Dio significa tuffarsi nel dinamismo della prova, convinti che essa è la sola condizione per crescere in “età sapienza e grazia” (cf. Lc 2,52), ovvero sotto l’aspetto psichico, intellettuale e spirituale.
È interessante notare che proprio colui che li aveva invitati a compiere l’attraversata del lago, si addormenti. Mi ha sempre sorpreso questo sonno di Gesù, da chiedermi più di una volta come facesse a dormire in una simile circostanza. Da qui il carattere simbolico a cui si presta l’interpretazione del brano. È chiaro che lo scopo dell’evangelista Marco non è quello cronachistico, teso a dirci esattamente come siano andate realmente le cose in quella notte, bensì quello spirituale. L’episodio diventa allora un pretesto per descrivere l’esperienza della fede. E il modo con cui essa accade nella vita non è mai legato ad una circostanza idilliaca, tranquilla, serena e chiara, ma sempre ad una situazione limite, estrema, spesso associata alla notte dei tempi, ovvero a quel modo confuso di vedere le cose, come possono essere i ricordi delle origini, nelle quali abbiamo cominciato a provare le prime paure della vita. Mi riferisco a quelle inquietudini ancestrali, primordiali, ataviche, angoscianti che riemergono in noi tutte le volte che ci ritroviamo dinanzi all’ignoto e nelle quale avvertiamo molto reale il rischio di essere travolti dal nulla. La vita, come il mare, non è una realtà razionalmente domabile, al contrario è attraversata da forze caotiche, esteriori ed interiori, nelle quali ci sentiamo esattamente come una barca in tempesta, sballottati dalle onde, con la reale possibilità di andare alla deriva o perfino di infrangerci sugli scogli delle nostre idee, e quindi di naufragare in una zona oscura e sconosciuta del nostro inconscio. Si tratta di forze maligne che esercitano un potere enorme su di noi, superiore a quello che siamo in grado di fronteggiare con la ragione, ritenuta spesso presuntuosamente superiore a qualsiasi cosa. Con essa riteniamo di padroneggiare o dominare tutto e tutti. Un’idea questa molto comune a tanti di noi, specie in un contesto culturale come il nostro, costantemente attraversato da quell’arroganza che ci fa credere invincibili, capaci di sfidare chiunque, ma che alla prima occasione veramente grave, si rivela terribilmente fragile ed effimera. Anche la fede è caratterizzata da dinamiche molto simili, ma con la differenza che grazie ad essa noi sappiamo limitare le pretese della ragione e riconoscere invece la potenza invincibile di Dio in noi. La fede in Dio non si limita ad un semplice assenso intellettivo, ma comporta un reale atteggiamento di fiducia, che cresce e matura attraverso le prove, come quelle che si presentano a noi quando ci sentiamo attratti dalle idee suggestive e ammalianti del mondo. Esse sembrano prometterci certezze e sicurezze, ma poi ci provocano solo delusioni, frustrazioni e depressioni. Diversamente la fede ci appare all’inizio quasi sempre come un granello di senape, insignificante per la sua apparente piccolezza e fragilità; una realtà sulla quale nessuno oserebbe scommettere o investire un centesimo, ma che al contrario delle idee del mondo, dispone di una forza trasfigurativa in grado di rinnovare non solo noi, ma anche la realtà intorno a noi.
Non poche volte accade che quando ci troviamo in momenti di crisi, come quelli descritti simbolicamente dal brano evangelico, avvertiamo come lontana la presenza di Dio, da indurci a ritenerlo perfino assente o responsabile della nostra fine. Egli ci appare come immerso in un sonno profondo. Forse, invece, mai come in queste circostanze dovremmo imparare a riformulare la domanda: chi si assopisce, Cristo o la nostra fede in lui? Il sonno di Gesù allora va diversamente interpretato: più che a quello fisico suo, ci rimanda a quello psichico e spirituale nostro.
Per sonno psichico intendo quello che la nostra psiche attiva quando la paura che proviamo dinanzi al peso delle responsabilità è così greve che pensiamo di rimuoverla dormendo. Una sorta di difesa che pratichiamo quasi istintivamente, per non essere schiacciati dall’angoscia. Un po’ come accadde agli apostoli, durante l’agonia di Gesù nel Getsemani, per intenderci (cf. Mt 26,40-41), i quali continuavano a dormire benché Gesù avesse chiesto loro di condividere il peso di quella terribile ora della sua vita.
Il sonno spirituale, invece, è quello che attiviamo attraverso raffinati e complessi meccanismi psicologici, per assopire la voce dello Spirito (o se si vuole della coscienza) che sale costantemente dalle zone più recondite del nostro inconscio, per riportarci alla genesi della nostra esistenza e quindi a quella misteriosa relazione originaria con Dio, la sola nella quale trovano pace tutte le nostre inquietudini più profonde. La fede dice allora il coraggio di ridestare in noi quella forza divina primordiale, atrofizzata dai nostri dubbi e svilita dalle nostre visioni culturali della vita, ritenute come le sole capaci di dare senso alla nostra esistenza. Essa alberga spesso silente nelle zone più nascoste del nostro spirito, ma che è pronta a manifestarci la discreta presenza di Dio, non appena concediamo allo Spirito la possibilità di farlo. Avere fede significa allora sprigionare tutta la potenza di quell’amore creativo e redentivo che Dio pone in noi attraverso il suo Spirito. Egli è il solo in grado di ascoltare ed esaudire quel grido di salvezza che sale da noi quando stiamo per essere letteralmente sommersi dal peccato: “Maestro non ti importa che siamo perduti? (Mc 4,38). Solo lui è capace di dominare quelle forze caotiche e maligne che s’attivano improvvisamente in noi, come la tempesta del mare. Egli è il solo a riporle nel loro alveo originario e a dare loro ordine ed armonia: “Taci, calmati!”, dice al vento. “Il vento cessò e vi fu grande bonaccia” (Mc 4,39). Non è questione di eliminarle, ma di equilibrare le loro tensioni. Il filosofo Eraclito, già a suo tempo (VI-V sec. a.C), aveva espresso molto bene questo delicato e fragile equilibrio dell’armonia: “se esistono nell’universo degli opposti, delle realtà che paiono non conciliarsi, come l’unità e la molteplicità, l’amore e l’odio, la pace e la guerra, la calma e il movimento, l’armonia tra questi opposti non si realizzerà annullando uno di essi, ma proprio lasciando vivere entrambi in una tensione continua. L’armonia non è assenza bensì equilibrio di contrasti”. Avere fede significa allora riconoscere Dio come il solo che può dominare queste forze naturali, ma che diventano malefiche se sbrigliate e lasciate a se stesse. La paura che proviamo dinanzi ad esse, come fa notare Gesù, è spesso legata ad una mancata fiducia in lui: “Perché avete paura, non avete ancora fede?” (Mc 4,40). Egli può non solo dominarle, ma perfino trasfigurarle, facendo del nostro peccato un luogo della potenza redentiva del suo amore. È in queste circostanze che anche noi come gli apostoli, scopriamo chi sia veramente Cristo e ciò che lui può operare in noi: “Chi è costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?” (Mc 4,41). La prova costituisce, perciò, un momento molto importante della nostra fede. La fede cresce e matura attraverso le prove che Dio stesso, in modo misterioso, semina lungo la nostra vita, per farci diventare perfetti come lui nell’amore (cf. Mt 5,48). Lo stesso Gesù non si è sottratto alle sue prove. Anzi, egli – come afferma l’autore della lettera agli Ebrei – ha perfezionato la fede passando proprio attraverso di esse, al punto che in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce (cf. Eb 12,2). A noi decidere, dunque, se tuffarci o meno in questa dinamica divina della vita spirituale, consapevoli che la salvezza è oltre il mare, ovvero oltre la prova.
[1] Nella Bibbia il mare è spesso inteso come il luogo del caos primordiale. Esso è anche la dimora del Leviatano, una creatura mostruosa e temibile con la quale si allude alle forze del male (cf. Sal 104,26; Sal 74,14). Lo stesso libro di Giobbe ci offre forse la descrizione più importante di questo mostro (cf. Gb 40,25-32; 41,1-26).




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