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20 Febbraio 2022 - Anno C - VII Domenica del Tempo Ordinario

Aggiornamento: 20 feb 2022


1Sam 26, 2.7-9.12-13.22-23; Sal 102/103; 1Cor 15, 45-49; Lc 6, 27-38


Perfetti nella misericordia


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“Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36). È la formula con la quale Gesù sembra sintetizzare tutto il suo Discorso sulle beatitudini, che la Chiesa ci sta proponendo in queste domeniche. Nel Vangelo di Matteo troviamo un’espressione molto simile a questa, anch’essa inserita come quella di Luca, nel Discorso delle beatitudini, nella quale però Gesù chiede ai suoi discepoli di essere “perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). “Misericordia” e “perfezione” costituiscono, dunque, per Gesù l’ideale di vita dei suoi discepoli, come a dire che se c’è una meta alla quale essi dovranno tendere, questa è la perfezione nella misericordia del Padre. Essa è il vertice delle beatitudini. Non c’è perfezione più grande di chi si bea dell’amore di Dio. Così, mentre i maestri delle discipline umane chiedono ai loro discepoli di tendere alla perfezione fisica, sportiva, artistica, poetica, musicale, matematica, scientifica … Gesù chiede ai suoi di diventare perfetti nell’amore.

Ma è possibile raggiungere la perfezione nell’amore, fino ad uguagliare quella di Dio? Non c’è il rischio che Gesù esponga i suoi discepoli alla presunzione di trasformare l’amore come una forma di orgoglio personale o un motivo di confronto con Dio e di giudizio verso gli altri? Questo rischio è più che plausibile se consideriamo il significato comune del termine “perfezione”, col quale s’intende “ciò che è compiuto in sé e non necessita di altro miglioramento”. In realtà la perfezione di cui parla Gesù, non consiste nell’assenza di limiti o difetti, oltre i quali non c’è più alcun margine di progresso, ma nella totale apertura di sé all’altro, esattamente come è tipico dell’amore di Dio. Così, mentre i filosofi intendono la perfezione di Dio come una realtà completa in sé, nel senso che non ha bisogno di aggiungere o sottrarre altro a ciò di cui già dispone, Gesù predica un Dio che invece è, per così dire, “interattivo”, sempre aperto alla relazione con l’altro da sé. Per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco e rendere più comprensibile quanto sto cercando di dire, è opportuno richiamare alla memoria ciò che Dio stesso chiede al suo popolo, durante la permanenza nel deserto: “Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo (Lv 19,2). Alla luce di questo passo biblico possiamo dire che il Dio di Gesù non va immaginato come un solitario che vive chiuso in sé, totalmente pago della sua divinità, ma come un Dio che chiede al suo popolo di entrare in relazione con lui, di partecipare della sua santità, della sua vita d’amore. È un Dio che mendica l’amore della sua stessa creatura. Egli non se ne sta chiuso in sé, ma vive creando relazioni d’amore, perfino con le sue creature; lasciando trapelare, in questo modo, la natura relazionale che lo costituisce. Si tratta perciò di una perfezione divina profondamente caratterizzata dal dinamismo creativo della vita relazionale. Amare come Dio significa perciò fare della relazione una via di donazione di sé all’altro. In questo consiste la perfezione nell’amore, esattamente come ha fatto Gesù. Agli occhi di Dio non c’è forma d’amore più perfetta che dare la vita. Essa la massima espressione della misericordia (cf. Gv 15,12-17). E tuttavia è solo un riflesso di quell’amore più grande che Dio manifesta nel dare la vita di suo Figlio. Se già è difficile decidere di dare la propria vita per un nemico, quanto più lo quella di dare vita di un proprio figlio. Ebbene Dio ha avuto l’ardire di disporre perfino della vita del Figlio, pur di manifestarci il suo immenso amore.

È a questo amore che si riferisce Gesù quando, parlando della legge antica, dice: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti, non sono venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17). In questo senso se il massimo comandamento della Legge antica prevedeva di “Amare Dio con tutte le forze … e il prossimo come se stessi” (Lv 19,18; cf. Lc 10,25-28; Mc 12,29-31; Mt 22,37-40), Gesù chiede ai suoi discepoli la totale disponibilità a dare la propria vita per Dio e per il prossimo. Per lui non basta più “amare Dio con tutte le proprie forze e il prossimo come se stessi”, ma occorre dare la vita per loro: ecco il limite estremo a cui Gesù conduce l’amore. Nessun altro, prima di lui, aveva osato così tanto.

Davanti a tutto ciò qualcuno potrebbe obiettare che anche a livello umano assistiamo a forme di amore così estreme e gratuite come, per esempio, quello materno. Tuttavia questa forma d’amore si manifesta per lo più a livello filiale. La stessa madre, infatti, che è disposta a dare la vita per il figlio, trova già difficoltà a darla per il marito. Figuriamoci per i nemici del figlio o per i suoi stessi nemici. San Paolo nella lettera ai Romani dice che già è difficile trovare qualcuno che è disposto a dare la vita per un giusto, figuriamoci per un peccatore (cf Rm 5,7). Gesù, invece, prevede la possibilità che i suoi discepoli possano giungere non solo ad amare i nemici (Lc 6,27), ma persino a dare la vita per loro (cf. Gv 15,13).

È possibile che Gesù sia tanto esigente con sé e con i suoi? E questo suo ideale d’amore non appare troppo utopico? Tipico di quelle persone ireniche, tese al pacifismo anche là dove non ci sono le reali condizioni; animate dal desiderio di promuovere la felicità e il benessere degli altri ad ogni costo? Quante volte, nel vissuto quotidiano, siamo attraversati dalla tentazione di immaginare Gesù avulso da tutte quelle forme di sofferenze, fatiche, tensioni, delusioni che, invece, proviamo noi in certe relazioni interpersonali, specie quelle familiari, dove il conflitto diventa addirittura lacerante e insostenibile, da indurre all’idea di risolverlo col suicidio o con l’omicidio. Cosa spinge tante persone a odiare se stessi e gli altri? Da giungere, cioè, all’estremo opposto dell’amore di sé e del prossimo? A togliere la vita anziché darla? Non è facile rispondere a queste domande, ma è certo che la testimonianza evangelica ci offre il profilo di un Gesù che è tutt’altro che indifferente a queste condizioni umane. Egli ha dato prova di questo amore con la sua stessa testimonianza di vita. E quello che è più paradossale è che egli anche nelle situazioni più estreme della passione, non si è appellato alle sue qualità divine, ma ha amato da uomo, o come direbbe san Paolo, da “schiavo”, rinunciando a tutto ciò che potesse facilitare o evitare la sua passione e morte. Egli ha amato come “povero evangelico” (Mt 5,3): credendo e fidandosi solo di Dio.

Viene allora da chiedersi: cosa induce Gesù a credere che la misericordia sia più correttiva della condanna? Cosa anima il suo cuore da indurlo a fare del bene a chi invece lo odia; a benedire chi gli impreca parole di maledizione; a porgere anche l’altra guancia quando già una è colma di percorse; a donare perfino il mantello a chi gli ruba la tunica; a donare con generosità senza aspettarsi nulla in cambio (cf. Lc 6, 27-29.35), se non quella “traboccante” eccedenza d’amore che Dio ha “riversato” nel suo cuore e che continua a riversare, senza misura, su tutti: “giusti e ingiusti”, indipendentemente dalla loro disponibilità, generosità, ingratitudine, malvagità o chiusura mentale? (cf. Lc 6,35.38). L’amore di Dio è come l’aria che circonda la terra e le garantisce la vita e la difende quando è minacciata dai campi magnetici o dalle meteoriti; oppure come il liquido amniotico che avvolge il bambino nel grembo della madre che lo custodisce, lo protegge, lo sostiene, lo difende anche quando il bambino recalcitra o minaccia di abortire. Senza questo amore è praticamente impossibile vivere. E Dio malgrado tutto continua ad essere “benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35); a “far piovere sui giusti e sugli ingiusti e a far sorgere il sole sui buoni e cattivi” (cf. Mt 5,45). E come il sole, continua ininterrottamente ad amare, a riscaldare e a illuminare ciascuno di noi, anche quando le nubi del nostro peccato ne occludono la vista, ne riducono la luce e ne diminuiscono il calore.

Il perdono è per Gesù la forma più matura dell’amore e può essere praticato solo da chi dispone dello stesso e infinito deposito della misericordia di Dio. Proprio come fa Davide nei confronti di Saul, nell’episodio che la liturgia ci propone quest’oggi (1Sam 26, 2.7-9.12-13.22-23). Davide, nominato segretamente da Samuele re d’Israele, viene introdotto nella corte del re Saul, il quale a seguito delle sue imprese vittoriose, comincia a vederlo come una seria minaccia per il trono. Durante la sua permanenza al palazzo, Davide viene ripetutamente sottoposto a delle prove, come pretesto per trovare in lui un motivo di che accusarlo. Malgrado tutto Davide riesce vittorioso in ogni impresa. L’invidia rode il cuore di Saul, al punto da deciderne la morte; per scampare alla quale Davide fugge nel deserto di Zif, dove continua ad essere perseguitato dal re. Durante una notte, però, Davide ebbe l’occasione propizia: entrò furtivamente insieme ad alcuni suoi compagni nell’accampamento del re e mentre tutti dormivano profondamente, Abisài, suo nipote, chiese il permesso di uccidere il re. Davide, pur potendo, vietò di compiere un simile gesto; ma nell’andarsene porto via la lancia e la brocca d’acqua del re. Al mattino, quando giunse ad una distanza debita dall’accampamento, si recò sulla cima di un monte là vicino e gridando mostrò al re la sua lancia, a testimonianza della possibilità che aveva avuto di vendicarsi, ma vi rinunciò per l’amore che nutriva verso il consacrato del Signore. Ravveduto da questo gesto di perdono, Saul si pente e riaccoglie Davide nel palazzo. Come non leggere questo gesto di Davide alla luce della parabola del figliol prodigo, quando il padre rivolgendosi al figlio maggiore dice: “questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,32). Così è per ciascuno di noi che torna a sperare nel Padre dopo un’esperienza di peccato; così è per coloro ai quali concediamo il perdono dopo essere stati oggetti delle loro angherie.

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