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20/12/2020 - 4° Domenica di Avvento - Anno B


2Sa 7, 1-5. 18b-12.14a.16; Sal 88/89; Rm 16, 25-27; Lc 1, 26-38


“Beata te perché hai creduto”

La fede che ‘fa’ Dio tra noi


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I brani biblici di questa quarta domenica di Avvento ci introducono direttamente nel cuore del mistero del Natale. Si tratta di brani noti, ma non per questo sempre ben assimilati. Essi fanno luce su un Evento che per quanto venga costantemente celebrato e condiviso da molti, continua a rimanere misterioso ai più. E purtroppo anche noi cristiani non sempre contribuiamo ad invertire la tendenza. La conoscenza che spesso dimostriamo di avere di esso, infatti, è legata più al sentito dire che non a un’autentica esperienza di fede personale ed ecclesiale. Senza contare che la sua celebrazione è divenuta così abitudinaria, da anestetizzare perfino le coscienze più critiche ed esigenti sotto l’aspetto spirituale. Non poche volte accade di ritrovarci talmente coinvolti nella mentalità dell’effimero, che non riusciamo neppure più a dare ragione di questo Evento a chiunque ce ne chiede conto (cf. 1Pt 3, 15-16). Anzi, a guardarci intorno, il Natale sembra essere divenuto così ridicolo, che non possiamo più permetterci di continuare a parlarne in tono fiabesco e intimistico. Ritengo perciò importante e opportuno partire dalla considerazione di questi dati, prima di offrirvi un commento che, senza cedere il passo a meditazioni sdolcinate, ci aiuti, ad acquisire quell’atteggiamento di sana ragionevolezza che ci consente di gettare uno sguardo sensato e consapevole sul Mistero, tale da evitare i due estremi della fede: la ‘credulonità’ e l’incredulità.

Per farlo mi sforzerò di mettere a fuoco il senso di questo Evento nei due brani decisivi, o più precisamente, nelle due figure fondamentali, che la liturgia ci presenta quest’oggi: Davide e Maria, nelle quali il piano dell’Incarnazione di Dio trova una sua progressiva e imprescindibile concretizzazione storica. In questo orizzonte rivelativo il brano biblico della prima lettura, tratto dal secondo libro di Samuele (7, 1-5. 18b-12.14a.16), si rivela particolarmente significativo. Esso dà, per così dire, il “la” a quella straordinaria intuizione rivelativa di Dio che avrà il suo compimento nell’Incarnazione del Verbo. Davide è tra i primi a sviluppare questo tipo di riflessione teologica nell’ambito della fede ebraica. E lo fa in modo piuttosto audace, ritenendo addirittura di voler costruire un tempio a Jahvè, come confiderà al profeta Natan (cf. 2Sam 7, 2). Non che questa idea fosse nuova. Anzi, nell’ambito delle religioni confinanti, essa era più che una pratica. La novità sta nel fatto che essa rompe decisamente con la tradizione teologica mosaica, specie se si parte dal presupposto che il Nome di Dio non può essere pronunciato, il suo Volto non può essere visto, tantomeno la sua Presenza può essere contenuta. L’intuizione di Davide, infatti, faticherà non poco ad essere compresa e accettata già dallo stesso profeta Natan, come attesta la sua cautela dinanzi alla proposta del re (cf. 2Sam 7, 3-5). L’incidenza di questi presupposti mosaici è così forte nella mentalità ebraica che l’Incarnazione di Cristo verrà apostrofata, dagli stessi ebrei, come un vero e proprio scandalo.

Proviamo ora per un attimo a soffermarci su questa difficoltà manifestata dagli ebrei e da quanti, come loro, condividono la stessa problematicità. Lo scandalo che essi avvertono nasce evidentemente dalla coscienza di una reale impossibilità che Dio, dall’alto della sua divina trascendenza, possa concretamente ridimensionarsi alla natura umana. Questa coscienza, per quanto imbarazzante, sembra essere del tutto smarrita e annichilita dalla stragrande maggioranza dei cristiani, i quali credono più per mancanza di coscienza, che per aver risolto nella fede questo grave dilemma. Ritengo importante perciò recuperare questa coscienza, non per mettere in dubbio una verità di fede, ma per avere almeno un idea della logica rivelativa di Dio, alla quale aderiamo con la nostra fede. Tutto ciò ci fa capire che solo chi, come Davide si abitua a ‘pensare come Dio’, può cogliere e accogliere la sua logica rivelativa. È paradossale infatti il modo con cui affermiamo, con estrema facilità, che Dio è Onnipotente, ma poi ci scandalizziamo quando si tratta di accettare che lo stesso Dio possa compiere un simile atto. O ancora: credere che egli è Creatore dell’uomo, e al tempo stesso, rimanere scettici davanti all’idea che Egli possa farsi uomo. Viene perciò da chiedersi: che idea abbiamo dell’Onnipotenza di Dio? Non sta proprio nel fatto che egli non si lascia ingabbiare neppure dal nostro concetto di Onnipotenza? Il problema sta allora nei nostri schemi mentali che risultano sempre molto spesso ingessati, e incapaci di comprendere il dinamismo vitale che caratterizza la realtà di Dio. Egli, lungi dall’essere un ‘concetto’, col quale ce lo immaginiamo, è in primo luogo un Dio ‘vivo’ (cf. 1Ts 1, 9; Ger 10, 10) e come tale ‘imprevedibile’ e sorprendente. Il suo modo di manifestarsi e darsi a conoscere è sempre al di là di ogni immaginazione umana e sconcerta sempre le nostre attese. Chi non entra in questa logica divina rimane sempre al di qua del mistero. La fede invece ci insegna a ‘pensare Dio da Dio’, ovvero ad acquisire il suo modo di pensare, il suo modo di amare, e quindi il suo modo di comunicarsi e darsi a conoscere. E questo comporta la necessità di entrare in relazione con lui, o meglio, come dice san Paolo: vivere, muoversi ed esistere in Dio (cf. At 17, 27-28). Dio non sta di fronte a noi, ma dentro di noi, allo stesso modo con cui noi non siamo di fronte a lui, ma in lui. Si tratta allora di lasciarci coinvolgere e sconvolgere dal suo Spirito, il quale proprio perché scruta le profondità di Dio (cf. 1Cor 2, 10-16) può comunicare alla nostra intelligenza quella Sapienza divina che rimane incomprensibile ai dotti, ma accessibile ai semplici (cf. Mt 11, 25-30).

Come entrare in questa dinamica di fede? Per rispondere a questa domanda ci rifacciamo al brano evangelico di Luca 1, 26-38 e quindi alla testimonianza di Maria. A tal proposito vorrei invitarvi a riprendere il commento fatto allo stesso brano nel giorno dell’Immacolata Concezione. Il racconto che l’evangelista Luca ci offre della sua chiamata, costituisce senza dubbio il paradigma di ogni vocazione nella Chiesa. Esso aiuta a creare quelle disposizioni interiori, fondamentali, a chiunque decide di intraprendere l’avventura divina della fede evangelica. Se da una parte, come sottolinea il testo, Maria sperimenta, al pari di ogni uomo e donna, l’abisso del Mistero che l’Angelo le apre col suo annuncio, e il comprensibile turbamento che può generare nel suo animo una simile intuizione divina (cf. Lc 1, 29), dall’altra ci traccia la via privilegiata da percorrere per giungere alla sua concretizzazione. Maria, malgrado l’età e la sua semplice preparazione culturale, capisce subito che un simile Mistero non può essere compreso e sviscerato con la sola forza della mente, al contrario esso va principalmente accolto nel cuore, esattamente come nel seno, dove sta per prendere dimora il Verbo. La sua chiamata, al di là dell’unicità e irripetibilità che la caratterizza, è un evento dello Spirito e come tale, ciascuno di noi, è chiamato ad accoglierlo pienamente. Qui non si tratta di saper ragionare e neppure di avere qualità ascetiche, ma di essere totalmente disponibili all’opera che Dio intende realizzare in noi, per mezzo del suo Spirito. “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1, 38), non è la formula suggestiva di una ragazza che nutre un forte anelito spirituale, ma la resa totale dinanzi all’opera di Dio, riconosciuto come l’Onnipotente, ovvero come Colui al quale nulla è impossibile (cf. Lc 1, 37), neppure farsi uomo. Ella capisce che una simile opera potrà compiersi solo a condizione di lasciare Dio libero di essere Dio in lei. Il che significa che il Mistero accade in lei non perché è capace di esplicitarlo razionalmente o perché è in grado di rapportarlo alla sua ragionevole comprensione, bensì perché ha il coraggio di tuffarsi totalmente nell’abisso della sua assurda misteriosità. La fede non s’origina da un atto di comprensione, che comunque non va escluso, ma da un atto di radicale fiducia, affidamento e abbandono alla Parola di Dio e di radicale certezza che ciò che lui chiede accade veramente (cf. Mc 9, 23). Non a caso questo è proprio ciò che le viene riconosciuto dalla cugina Elisabetta, quando, ricevendola in casa, le dice: “Beata te che hai creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1, 45). Agli occhi di Elisabetta, Maria è beata non perché è Madre di Cristo, ma perché ha creduto nella promessa dell’Angelo.

Guardare a Maria, dunque, non significa recuperare quell’intimismo devozionistico, tipico di una certa tradizione spirituale. Occorre più che altro capire come lei ha saputo accogliere, incarnare e far “crescere in età sapienza e grazia” (Lc 2, 52), la Parola che l’ha portata ad essere, al contempo, madre e discepola del Figlio, nel vissuto quotidiano delle propria fede. Esattamente come intuisce ed esprime Dante nella meravigliosa e suggestiva formula poetica del XXXIII canto del Paradiso, quando la definisce: “Vergine madre, figlia del tuo figlio”. Perciò anche noi come Dante dovremmo ritornare a meditare sul Mistero del Natale per tradurlo nei vari ambiti della vita umana e imparare a raccontarlo con la stessa profondità del Sommo poeta.


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