20/09/2020 - 25a Domenica del Tempo Ordinario - Anno A
- don luigi
- 20 set 2020
- Tempo di lettura: 7 min
Is 55, 6-9; Sal 144/145; Fil 1, 20c-24.27; Mt 20, 1-16
Il pensiero salvifico di Dio
Ancora una volta la liturgia della Parola ci propone brani biblici sulla misericordia di Dio. Essi ci consentono di ritornare sul tema del perdono, sul quale abbiamo già meditato domenica scorsa. Tali brani sembrano portare alla luce “il pensiero salvifico di Dio” che si rende palese nel corso della storia attraverso la manifestazione del suo piano d’amore, come attesta anche questo breve, ma intenso brano del profeta Isaia: “L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signor che avrà misericordia e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri …” (Is 55, 7-8).

Un’esortazione questa di Isaia a cui fa eco il Salmo 144: “Misericordioso e pietoso è il Signore, / lento all’ira e grande nell’amore. / Buono è il Signore verso tutti, / la sua tenerezza si espande su tutte le creature. / Giusto è il Signore in tutte le sue vie / e buono in tutte le sue opere. / Il Signore è vicino a chiunque lo invoca, / a quanti lo invocano con sincerità”. Come non ricordare in questa circostanza anche il brano del profeta Gioele: “Ritornate a me con tutto il cuore … perché il Signore è misericordioso e benigno, tardo all’ira e ricco di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura” (cf. Gl 2, 12-13). Ecco allora esplicitato il contenuto autentico del “pensiero di Dio”, col quale egli offre a ciascuno sempre nuove possibilità di ricominciamento dopo l’esperienza del peccato.
La circostanza storica a cui fa riferimento il profeta Isaia ci riporta al sentimento di speranza che l’editto di Ciro aveva ingenerato tra la gente, grazie al quale tutti i popoli deportati e quindi anche Israele, potevano ritornare definitivamente in patria. Un evento che viene interpretato dal profeta come un segno della perenne attenzione che Dio malgrado tutto, continua ad avere per il suo popolo. Ne scaturisce un’esortazione che Isaia rivolge agli esiliati in terra babilonese, per i quali la deportazione costituiva un segno di definitivo abbandono da parte di Dio.
L’episodio descritto in questo brano stimola la nostra immaginazione ad interpretare l’intervento di Dio come figura di tutti quei momenti in cui egli interviene anche nella nostra vita, specie quando noi, come il popolo d’Israele, abbiamo la sensazione di sentirci terribilmente lontani da lui, da non essere più raggiungibili dal suo sguardo e dalla sua attenzione a causa del nostro peccato. In queste circostanze non è difficile cadere nella tentazione di ritenere i giudizi negativi che nascono dalla nostra mente come pensieri propri di Dio, da non sentirci considerati più come oggetto della sua misericordia. E invece, proprio in quei momenti più bui, la voce di Dio – con modi, tempi e forme che solo lo Spirito conosce – s’erge dalle zone più recondite del nostro cuore per ribadirci ancora una volta che: “i miei pensieri non sono i vostri pensieri”. Ma quali sono i “pensieri di Dio”?
Nel tentativo di gettare uno sguardo, sia pure superficiale, tra questi “pensieri di Dio”, di cui ci parla Isaia nel suo brano, prendiamo atto che essi sono, in primo luogo, comunicativi del suo amore. Quando Dio parla lo fa sempre per comunicarci il suo amore, anche quando ci riesce difficile capirlo immediatamente. Ad una lettura più attenta ci accorgiamo inoltre che tali pensieri si presentano spesso caratterizzati da una dinamica di perdono e di riconciliazione, che è opportuno considerare, per capire il modo con cui essi accadono e si dischiudono nella nostra vita. Non poche volte, infatti, ci capita di partecipare ad eventi, ma per vari motivi essi rimangono oscuri o insignificanti per noi. Per capirne il senso occorre leggerli e rileggerli alla luce del piano di Dio, esattamente come fa Isaia con l’esilio e l’editto di Ciro. Ecco allora profilarsi la prima operazione a cui siamo chiamati: interpretare in chiave teologica ogni circostanza ed evento che caratterizza la nostra storia personale e comunitaria. È importante questo sforzo interpretativo perché Dio è sempre imprevedibile: non ci parla mai allo stesso modo, forme, circostanze e momenti previsti, ragion per cui la sua volontà ci rimane spesso enigmatica. Occorre allora interpretare, ma farlo sempre in modo nuovo e creativo, secondo la flessibilità creativa suggeriteci dallo Spirito dentro di noi. Non esiste, infatti, uno schema comunicativo standard di Dio, valido per ogni epoca, cultura, popolo e persona, tale che una volta acquisitolo possiamo garantirci la conoscenza chiara della sua volontà. Egli è sempre sorprendente, anche perché la sua comunicazione, pur presentando delle caratteristiche simili a tutti, si compie attraverso la sensibilità religiosa, spirituale, teologica e culturale di coloro che l’attualizzano nell’oggi della fede. Quando, però, il suo amore accade va colto immediatamente, nel momento stesso in cui lo si percepisce. Non può essere procrastinato. È la sua potenza redentiva a provocare in noi il coraggio di lasciarci radiografare dal suo giudizio vero e autentico e l’umiltà di lasciarsi rinnovare e trasfigurare dalla sua Parola.
Questa modalità con cui Dio interviene nella nostra storia personale e comunitaria viene ripresa e ulteriormente sviluppata da Gesù, con la sua parabola degli operai nella vigna, che si rivela estremamente importante per cogliere la novità della salvezza di Cristo. Essa descrive in maniera sintetica la secolare storia di Dio e il modo con cui lui chiede a ciascuno di partecipare alla realizzazione del suo Regno nel mondo. La parabola pur muovendosi nella visione della giustizia retributiva veterotestamentaria, introduce il nuovo principio salvifico inaugurato da Cristo, secondo il quale la salvezza non consiste più in un premio riservato ai soli giusti, come riteneva la prassi religiosa descritta dai farisei, per i quali bastava anche il solo culto esteriore a garantirla, ma nella partecipazione all’amore di Dio, la cui comunione genera una reale esperienza di libertà dal peccato. Il rischio a cui dava adito l’interpretazione farisaica della legge era quello di indurre a considerare il suo culto come una sorta di attività ascetica e autopurificativa dell’uomo, in base alla quale ciascuno poteva ritenersi ‘giusto’ e quindi assicurarsi la salvezza. Gesù, come tutti i profeti che lo hanno preceduto, combatte questo tipo di interpretazione. Di contro egli fa dipendere la giustizia non dall’atto formale del culto della legge, ma dalla reale adesione e partecipazione del cuore al piano d’amore di Dio, ovvero dall’atto con cui il credente si predispone interiormente a piegare la propria volontà e conformarla a quella di Dio. Secondo questa visione la giustizia di Dio non consiste più nel dare a ciascuno il suo (giustizia retributiva o distributiva), come nel caso degli operai della vigna (cf. Mt 20, 13-14), ma nella libera gestione della infinita misericordia che Dio elargisce con straordinaria eccedenza su tutte le sue creature (cf Mt 20, 15), attraverso l’evangelo del suo Figlio.
Per quanto tuttavia Gesù abbia fortemente disapprovato l’interpretazione dei farisei, la loro mentalità si è costantemente propagata e riprodotta nel tempo, insinuandosi, sia pure con forme diverse, anche tra i cristiani. Non è difficile infatti coglierla in chi considera e vive la fede cristiana più come una pratica religiosa, sostanzialmente governata da un rigoroso e inflessibile moralismo, che come una reale esperienza d’amore libero e liberante. Anche per costoro infatti la salvezza si profila come una dovuta somma delle opere compiute più che come un dono gratuito di Dio. Farisaica allora è anche quella mentalità che si manifesta nella forma del moralismo giuridico che induce ad essere giusti più per dovere morale o peggio ancora per paura del giudizio divino che non per una reale esperienza d’amore salvifico.
L’amore divino, di cui Cristo si fa testimone con lo stile evangelico della sua vita apre una nuova via salvifica, rispetto all’esperienza religiosa veterotestamentaria. Non che qui l’amore fosse estraneo. Tutt’altro. Il brano di Isaia e il Salmo 144 che la liturgia ci propone come esempio, testimoniano esattamente il contrario. La novità non sta nell’amore, come di solito si ritiene, ma nella reale partecipazione all’amore salvifico di Dio attraverso la fede in Cristo, che costituisce l’hic et nunch, ovvero il qui ed ora della salvezza di Dio. In lui Dio divine una concreta ed evidente manifestazione d’amore salvifico. La novità dunque è Cristo, quale luogo di amore di Dio ed effettiva esperienza di salvezza incarnata. Tale novità apre inevitabilmente la questione della fede in lui come via di salvezza e criterio di giudizio salvifico di Dio.
È di questo nuovo principio che Paolo si fa interprete e divulgatore attraverso i suoi scritti, come attestano in modo particolare le sue lettere ai Galati e ai Romani. Ma nonostante tutto non sono mancati e tutt’ora non mancano tra i cristiani e perfino in una certa prassi pastorale, gli striscianti tentativi di considerare la salvezza come il risultato di un processo religioso che attribuisce a Dio la mentalità tipicamente umana della giustizia retributiva, secondo la quale egli è tenuto a dare a ciascuno in base alle opere compiute. Ciò non significa sminuire la necessità delle opere. Al contrario rimangono un ineludibile segno di testimonianza. Esse rendono visibile la nostra adesione al dono dell’amore divino, ma non possono divenire motivo di orgoglio religioso o addirittura vincolanti per Dio. La salvezza è e rimane un dono che Dio elargisce non in base alla sua arbitrarietà, come sembra emergere dalla lettura del v. 14 della nostra parabola: “Amico, … non posso fare delle mie cose quello che voglio?”, ma in base al principio della sua infinita misericordia. Ciò significa che la fede non esonera il credente dalla opere, ovvero dal lavoro che la vigna di Dio comporta, ma le considera come segno manifestativo dell’amore di Cristo, che scaturiscono dalla libera riconoscenza del dono ricevuto. Chi lavora per il regno non lo fa perché è tenuto a farlo, ma perché prova piacere nell’offrire a Dio il proprio contributo. Le opere d’amore sono tali quando, originate dalla libertà, divengono libere e liberanti per coloro che le praticano e coloro che li ricevono. Esse non devono essere motivate dalla fredda razionalità del moralismo giuridico, che ne anestetizza la carica carismatica, ma dall’eccedente amore comunicativo di Dio. Ecco la fonte dei “pensieri di Dio” dentro di noi: l’amore. Solo chi pensa e vive d’amore fa di tutto per costruire e lavorare nel Regno. E in cosa consiste il lavoro se non in quello di salvare chiunque, anche chi la salvezza la comprende solo all’ultima ora della sua vita? E’ qui la sua gioia e quella di Dio, coma attesta anche il detto di Gesù: “C’è più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15, 7).




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