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2 Maggio 2021 - V Domenica di Pasqua Anno B


At 9, 26-31; Sal 21/22; 1Gv 3, 18-24; Gv 15, 1-8


La Vita dalla Vite


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“Io sono la vite, voi i tralci” (Gv 15,5) è la metafora con cui la Chiesa ci ripropone il tema del rapporto tra Gesù e i suoi discepoli, per rileggerlo alla luce della Risurrezione. Esso riprende quello già trattato domenica scorsa, con l’immagine del “pastore e delle pecore” (cf. Gv 10,11). La Chiesa ritiene fondamentale insistere su questa rinnovata relazione con Cristo, senza la quale i cristiani, rischiano di vanificare la loro esperienza di fede, come già a suo tempo aveva rilevato san Paolo nella sua lettera ai Corinti 15,12-20. La Risurrezione non è solo un evento di Cristo, ma è anche il principio della vita nuova (cf. Rm 6,4). Essa inaugura una nuova mentalità relazionale tra i cristiani di ogni tempo: quella spirituale che è all’origine della vita ecclesiale. D’ora in poi costoro, se vorranno dare senso alla loro vita, dovranno imparare a relazionarsi con Cristo e tra loro nello Spirito, attraverso il quale Cristo si rende vivo e vero in mezzo a loro (cf. Mt 18,20).

L’immagine della “vite” è antica quanto quella del “pastore”. Entrambe vengono frequentemente riprese e sviluppate dai profeti e nei Salmi, nel corso della storia d’Israele, per esprimere il rapporto di Dio col suo popolo. Come quella del “pastore” anche quella della “vite”, viene riformulata dai profeti con sfumature e contesti diversi, come attestano per esempio Os 10,1-3; Is 5,1-7; Is 27,2-5; Ger 2,21; Ez 15,1-6; 19,10-14; Sal 80. Anche Gesù la riprende, adattandola alla sua situazione. Nel suo discorso infatti scompare il riferimento alla vigna, con cui viene evocato il popolo, per insistere sull’imprescindibile rapporto che li lega ai discepoli.

L’immagine della “vite e del tralcio”, tratta dal Discorso di Addio (cf. Gv 13,31-17,26), a differenza di quella del “pastore” insiste molto sulla qualità della vita che defluisce da questa relazione, e quindi sull’unità e la comunione d’amore che la caratterizzano. Il discepolo non può fare a meno di questa vita. Essa è indispensabile: come le pecore senza il pastore rischiano di smarrirsi e divenire facile prede dei lupi, così i tralci senza la vite rischiano di isterilirsi, seccarsi e morire. Pertanto se la conoscenza reciproca (cf. Gv 10,14-15) è ciò che Gesù ci lascia intendere con l’immagine del “pastore”; l’unità e la vita di comunione costituiscono il principio, il senso e il fine che intende evidenziarci con l’immagine della “vite e i tralci”. Tra queste due metafore esistono, dunque, delle affinità che contribuiscono a favorire lo sviluppo della relazione ecclesiale dei discepoli tra loro. Essa consente loro di avere un livello di vita relazionale pari a quello che sussiste tra Gesù e il Padre. La vita ecclesiale diventa così la manifestazione sensibile, visibile e umana della vita trinitaria. La Chiesa è il seno che ne consente l’incarnazione; la conoscenza reciproca, l’unità e la vita di comunione ne garantiscono invece i frutti. Rimanere nella Chiesa significa rimanere in Cristo, ed è a questa condizione che il discepolo porta frutti, secondo le sue parole: “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto” (Gv 15,5). Come Lui porta frutto in quanto è legato al Padre, così il discepolo garantisce gli stessi frutti se legato a lui: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Privo di questa linfa divina il discepolo s’insterilisce e muore. Infatti come Cristo senza il Padre non ha motivo d’essere, così il discepolo non può sussistere senza di lui. Allo stesso modo la vita della Chiesa senza Cristo s’inaridisce dall’interno e perde il motivo della sua presenza nel mondo.

Nella sua intenzione Gesù, dunque, vuole che tra i suoi discepoli vi sia lo stesso rapporto che sussiste tra lui e il Padre. Ecco il principio al quale ogni discepolo deve attingere per fondare la sua relazione ecclesiale. Per Gesù è fondamentale che il discepolo abbia con lui lo stesso rapporto che lui ha con il Padre. La vita nuova in Cristo costituisce perciò il principio di sussistenza e di sussidiarietà di ogni cristiano: come la vita di Gesù dipende dalla relazione col Padre, così la vita dei singoli discepoli nella Chiesa dipende dalla loro relazione con Cristo. La relazione con Cristo è la condizione e il fondamento di ogni preghiera, quella che ne consente la realizzazione e il compimento: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato” (Gv 15,7). Tutto ciò che il discepolo chiede al Padre nel nome di Cristo, ovvero secondo la sua volontà, verrà esaudito. Rimanere nella volontà di Cristo è perciò una condizione vitale, la sola in grado di far defluire la linfa della vita divina nel discepolo e nella Chiesa. Pertanto non si tratta di un optional, ma di una relazione sostanziale, ontologica, che qualifica la natura del rapporto del discepolo di Gesù. In altre parole un cristiano e la Chiesa senza Gesù non hanno ragione di essere. La vita che li fa sussistere è quella divina che Gesù alimenta attraverso la sua Parola, ovvero l’effusione dello Spirito divino che il discepolo riceve e dona per mezzo del comandamento dell’amore. Chi pratica il suo amore rimane in lui e nella relazione sua col Padre. In questo la Chiesa eredita e porta a compimento l’opera di Cristo, ossia la glorificazione del Padre (cf. Gv 10,8-10).

Questa opera non è affatto indolore. Generare la vita divina nella Chiesa e nel mondo è un atto pro-creativo che prevede la necessaria operazione della “potatura”, altra metafora con cui Gesù allude alle prove della vita. Senza di esse la vita spirituale del discepolo rischia di affievolirsi e regredire. La potatura avviene per due motivi: o perché il tralcio è sterile o per fargli portare più frutto. La prima operazione consiste in una recisione radicale del tralcio, all’altezza della vite, che il vignaiolo compie quando vede che il tralcio è secco o porta solo foglie; la seconda invece consiste nel recidere il tralcio all’altezza di due o tre gemme (potatura corta), o a quella di cinque o sei gemme (potatura lunga), delle quali alcune sono destinate alla fruttificazione e le altre allo sviluppo vegatativo. Naturalmente si tratta di metafore che stanno ad indicare la necessaria funzione delle prove che subentrano in certe stagioni della nostra vita. Al di là del modo con cui esse sopraggiungono e del dolore che esse arrecano, spesso si rivelano determinante per lo sviluppo della nostra vita spirituale, personale ed ecclesiale. Non sempre siamo in grado di riconoscerne subito l’importanza, da qui la necessità di saperne discernere l’origine, il senso e il fine. Le prove, quando vengono da Dio, mirano sempre al bene, qualunque sia la forma con cui si presentano. “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”, dice Paolo ai Romani 8,28.

L’esercizio della potatura contribuisce a far luce su un aspetto nevralgico del nostro rapporto con Dio. Attraverso di essa Gesù vuole metterci in guardia dalla tentazione diabolica di un’esistenza indipendente, sempre in agguato. Essa alberga tacitamente nel cuore di ogni uomo e donna, ma pronta ad emergere non appena si presenta l’occasione. Nessuno, per quanto nutri un rapporto intenso con Dio ne è esente. Essa è la radice del peccato e induce costantemente l’uomo a ritenere possibile una vita senza Dio. Gesù invece sfugge a questa suggestione diabolica, rivelando che l’origine, il senso e il fine dell’esistenza umana è nella relazione con Dio. La natura umana è non solo relazionale, ma filiale, esattamente come la sua. Ecco lo scopo della sua incarnazione e della sua redenzione.

Quanti pastori, invece, nella storia d’Israele, pur cominciando con un mandato divino, hanno ceduto a questa idea diabolica, finendo così con l’inaridirsi ed estinguere la loro carica carismatica. Quanti superiori, ordini, congregazioni e movimenti spirituali e semplici cristiani, dinanzi alle difficoltà hanno ritenuto e ritengono opportuno svincolarsi dalla Chiesa, per risolverle in nome della verità più che dell’amore. Diversamente tutti coloro che, mantenendosi ben stretti a Dio, alimentano, promuovono e diffondono la vita divina, pur passando attraverso le sofferenze della vita, diventano nella Chiesa e nel mondo, sorgenti sempre nuove e zampillanti di vita eterna. Le prove diventano per costoro un pretesto per rifondarsi, rinnovarsi e trasfigurarsi alla luce della Parola ispirativa che è all’origine del loro ministero e vita spirituale.

È interessante notare come Giovanni, nella sua prima lettera, riformuli e traduca con un linguaggio più teologico, queste metafore relazionali, presenti nel suo Vangelo. Tale linguaggio è frutto certamente di un’evoluzione spirituale, caratterizzata da quella sua tipica riflessione circolare, tesa a condurre il discepolo nel nucleo vitale e incandescente del suo rapporto con Cristo. Si tratta di una metodologia riflessiva, alquanto diversa dal nostro modo lineare e scientifico di procedere nell’esposizione degli argomenti. È vero che essa si presenta a tratti ripetitiva, come attesta l’uso frequente dello stesso soggetto, anche quando potrebbe essere benissimo sostituito dal pronome, ma ciò è dovuto a quel moto tutto orientale e giovanneo di procedere nell’approfondimento teologico di un vissuto spirituale che si arricchisce progressivamente di nuovi sensi, senza tralasciare quelli originari. Ne scaturisce una stratificazione di significati, non sempre facili da argomentare nella loro unitarietà. Essa è rivelativa di una vita spirituale e teologica intensa, che scaturisce dal desiderio di penetrare sempre più in profondità nel cuore del mistero della fede. Come attesta, per esempio, la formula epistolare: “essere nella verità” (1Gv 3, 19), rispetto a quella evangelica: “rimanete in me e io in voi” (Gv 15, 4). Lo stare in Cristo come nella verità non dipende solo da un’adesione verbale, ma corrisponde ad un vissuto evangelico del comandamento dell’amore. Per Giovanni la verità non è un concetto astratto, ma la relazione che scaturisce dall’amore reciproco con Cristo. La verità è Cristo (cf. Gv 14,16), e più specificamente Cristo nella sua relazione d’amore trinitario. Per questa ragione la verità di cui parla Giovanni è caratterizzata da un’intrinseca dimensione relazionale, dovuta al dinamismo ritmico del moto circolare dell’amore. La verità è la vita relazionale che il Padre ha col Figlio nello Spirito e che Cristo condivide con i suoi discepoli. È questa “la verità tutta intera” alla quale lo Spirito condurrà i suoi discepoli, come promesso da Gesù (cf. Gv 16,13). Ad essa non si perviene solo sulla base una speculazione razionale, ma attraverso la vita nuova in Cristo. Chi pratica il suo amore non solo conosce, ma è nella verità. Nel vivere il comandamento dell’amore i discepoli tramandano nel tempo l’opera del Figlio, che consiste nel rivelare il Padre; al tempo stesso compiono l’opera del Padre che consiste nel rivelare l’identità divina del Figlio: “Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri” (1Gv 3,23).

L’amore vissuto tra i discepoli genera la luce che consente di vedere e riconoscere la presenza di Gesù, nella sua nuova veste dello Spirito. È questo il suo nuovo volto, la forma con cui, Cristo dopo la risurrezione, vive ed opera nella Chiesa. È lo Spirito che guida Barnaba a discernere l’autenticità della chiamata di Paolo e a dare a Paolo il coraggio di predicare Cristo, lì dove aveva precedentemente perseguitato i suoi discepoli (cf. At 9,27). È lo stesso Spirito che guida ciascuno di noi e la Chiesa a cogliere, interpretare e fare la volontà di Dio, pur tra le mille difficoltà della vita. Egli ci suggerisce continuamente di rimanere attaccati alla “Vite”, per dare vigore alla Vita nuova che scaturisce da Cristo. A noi rimanere fedeli.

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