2 Luglio 2023 - Anno A - XIII Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 30 giu 2023
- Tempo di lettura: 7 min
2Re 4,8-11.14-16; Sal 88/89; Rm 6,3-4.8-11; Mt 10,37-42
I presupposti per un’ospitalità evangelica

“Chi accoglie un profeta come un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto” (Mt 10,41);
“Un giorno Eliseo passava per Sunem, ove c’era un’illustre donna, che lo trattenne a mangiare … In seguito ella disse al marito: … Facciamo una piccola stanza, superiore, in muratura, … (arrediamola); così venendo da noi, vi si potrà ritirare” (2Re 4,8-10).
Un’accogliente ospitalità sembra essere il tema di questa liturgia della Parola. Si tratta di un tema che nella Bibbia assume una particolare rilevanza teologica, perché costituisce un autentico segno di attenzione verso l’altro, al quale, la legge mosaica riserva un amore pari a quello verso se stessi e verso Dio. Per questa ragione egli è sacro. La sua presenza è foriera di una realtà divina e come tale merita di essere accolto nella propria casa. In questo senso gli onori che gli vengono riservati sono indice dell’ospitalità rivolta a Dio, considerato come l’ospite per eccellenza che più di tutti merita di essere accolto e integrato nella propria vita. Le conseguenze che scaturiscono da questa considerazione religiosa dell’ospite, possono rivelarsi determinanti, come fa notare acutamente l’autore della lettera agli Ebrei: “Non dimenticate l’ospitalità, alcuni praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Eb 13,2). Basti pensare all’ospitalità di Abramo nei confronti dei tre uomini sconosciuti (cf. Gen 18,1-10), oppure a quella di Maria nei confronti dell’Angelo (Lc 1,26-38), per capire la straordinaria avventura divino-umana alla quale dà origine questo tipo di ospitalità. Essa costituisce, perciò, un vero e proprio evento di svolta nella vita personale e comunitaria del popolo israelita.
La Bibbia è costellata di questi gesti di accoglienza del divino, come quello di Gedeone, grazie al quale fu resa possibile la vittoria contro i Madianiti (cf. Gdc 6,11-24); o ancora quello di Zaccaria che rese feconda la sterilità di Elisabetta (cf. Lc 1,5-23). Non mancano poi i casi di accoglienza rivolta ai profeti, come quello della vedova di Zarepta di Sidone che accogliendo il profeta Elia ebbe modo di sfamare se stessa e il figlio (cf. 1Re 17,1-16), o ancora quello, appena citato, della donna Sunemita, che per aver fatto costruire addirittura una stanza ben arredata per il profeta Eliseo, ha la gioia di “stringerai un figlio fra le braccia” (2Re 4,16); così come non va taciuta l’accoglienza che Elisabetta riserva a Maria (cf. Lc 1,39-56) o quella più nota di Marta e Maria riservata a Gesù in diverse occasioni nella loro casa a Betania (cf. Lc 10,38-42), partecipando così all’evento della risurrezione del fratello Lazzaro. In tutti questi casi la pratica dell’ospitalità comporta non solo il compimento del comandamento dell’amore verso il prossimo (cf. Lv 19,18; Mt 22,34-40), ma anche quella di essere generosamente ricompensati da Dio, il quale non esita a manifestare la sua giustizia, come fa con Abramo, che per aver creduto alla promessa di Dio, gli viene accredita la discendenza come giustizia (cf. Gen 15,6).
Si deduce allora che la pratica dell’accoglienza, quando viene esercitata nella gratuità dell’amore, non è mai disgiunta dalla ricompensa divina: “Chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché mio discepolo, non perderà la sua ricompensa” (Mt 10,42). Gesù stesso la raccomanda ai suoi apostoli durante la missione: “Gratuitamente ricevete, gratuitamente date” (cf. Mt 10,8). Anch’essi sono tenuti a donare gratuitamente la salvezza e la pace a quanti si mostrano accoglienti nei loro confronti, perché: “Chi lavora ha diritto alla sua ricompensa” (Lc 10,7).
Inserita com’è all’interno del Discorso missionario, questa pratica è di estrema importanza, poiché ci fa scoprire un significato ancora più profondo dell’ospitalità, che Gesù manifesta attraverso il detto che caratterizza la missione degli apostoli: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (Mt 10,40). Con essa, infatti, assistiamo ad una reale identificazione di Gesù con i suoi apostoli e di lui col Padre. Non si tratta solo di un’empatia morale, come quella che accade nell’amore verso i piccoli, dove Gesù si identifica con loro (cf. Mt 25,40), ma di un’identificazione ministeriale. Gesù parla degli apostoli come di coloro che parlano e agiscono in sua persona. Essi sono chiamati a compiere tra gli uomini l’opera di Cristo come Cristo compie l’opera del Padre (cf. Gv 6,29). Pertanto attraverso di loro egli rivela non solo l’origine trinitaria della sua identità personale, ma anche quella del suo ministero. Essi, come Gesù, devono insegnare amando e parlare operando (cf. Lc 24,19). Una dimensione ‘sacramentale’, quindi, quella che si viene a creare tra Gesù, gli apostoli e il Padre, vero presupposto della comunione ecclesiale, che rende visibile la comunione trinitaria, dove la reciproca accoglienza consente a ciascuno di essere autenticamente se stesso e di riconoscersi pienamente nell’altro.
L’evangelista Luca ci trasmette questo stesso detto di Gesù con una variante “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato” (cf. Lc 10,16), lasciandoci intendere che negli apostoli è Cristo stesso che parla. Pertanto accogliere la loro parola, significa accogliere la parola di Cristo, riconosciuta come Parola di Dio. “Proprio per questo anche noi ringraziamo Dio continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete ricevuta non quale parola degli uomini, ma come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete”, dice san Paolo ai Tessalonicesi (1Ts 2,13).
Ricapitolando possiamo dire che la pratica dell’ospitalità, biblicamente intesa, non si limita a un gesto di estemporaneo altruismo verso l’altro, dettato da una pur sincera e leale forma di filantropia o volontariato umano, ma costituisce in primo luogo un segno di accoglienza della Parola di Dio, intesa come ascolto, adesione e pratica della sua volontà. Pertanto prima ancora di essere estesa al prossimo l’ospitalità va rivolta a Dio, poiché è lui che fonda e giustifica l’amore verso l’ospite. Praticarla gratuitamente significa lasciare Dio libero di manifestare la sua generosa e smisurata ricompensa divina, che varia a seconda della persona accolta, come può essere quella riservata a un profeta, a un giusto, a un apostolo, a un piccolo. Accogliere un profeta significa allora essere ricompensato col dono dell’autorevolezza profetica: nessuno nella comunità esplicita il senso della Parola di Dio come lui. Accogliere un giusto significa invece essere ricompensato col dono della giustizia divina, diventare cioè garante della fedeltà di Dio del compimento della sua promessa nella storia (cf. Mt 10,41). Accogliere un apostolo significa essere ricompensati col dono della presenza operante di Cristo, di cui l’apostolo è simbolo vivente nel mondo. Accogliere un piccolo significa essere ricompensati col dono della semplicità evangelica (cf. Mt 10,42). Accogliere, in ogni caso, significa aderire alla logica di vita di cui queste figure si fanno promotori, condividerne e attuarne lo stile evangelico nel vissuto quotidiano.
Così esposta l’accoglienza costituisce un inevitabile termine di confronto, che ci consente di rivedere il modo con cui la esercitiamo nell’oggi della nostra vita ecclesiale, sociale e culturale. Basterebbe rileggere alla sua luce i comportamenti assunti durante la diffusione della pandemia, come il timore, il sospetto, la fobia dell’altro, esercitate in nome di una virtuosa prudenza, per capire quanto siamo spaventosamente lontani dell’accoglienza evangelica. E come non parlare di quella che ‘osserviamo’ quotidianamente svolgersi, sotto i nostri occhi, a livello internazionale, dove in nome della difesa del territorio, dell’identità culturale e nazionale, della salvaguardia della propria stabilità sociale e lavorativa, fatichiamo a riconoscere perfino i diritti degli ospitanti.
Accogliere significa ammettere l’altro presso di sé, così come egli è, senza doverlo piegare a noi stessi. La sua pratica, come suggerisce il significato del temine latino ad cum legere, richiede un’operazione di reciproca accettazione, dove entrambi i soggetti sono invitati a una vicendevole apertura all’altro da sé. Pertanto essa non si limita ad ospitare momentaneamente l’altro nel proprio territorio o nella propria casa, né ad alloggiarlo in nome di una norma morale, giuridica o di una disposizione politica, per di più dettata da un’emergenza occasionale; e neppure in nome di una manifestazione generosa personale o di benevola tolleranza comune. Se sono vere e autentiche le considerazioni bibliche finora esposte, allora è anche vero che oggi più che mai siamo chiamati a riconsiderare le origini e la dimensione sacrale dell’ospitalità. È in questa luce che possiamo giungere ad accogliere l’ospite come noi stessi, secondo la logica della regola d’oro: “Fai all’ospite ciò che vuoi che l’ospite faccia a te” (cf. Mt 7,12). È chiaro che quando l’ospitalità viene viziata da fattori culturali, politici, sociali o rivestita di fanatismo religioso, diventa motivo di conflitto più che occasione di sviluppo umanistico.
Come cogliere questa opportunità? La risposta a questa domanda ci permette, da una parte, di scoprire le ragioni che motivano l’accoglienza tipicamente evangelica, e dall’altra, di rileggerla alla luce del tema missionario di domenica scorsa. Si tratta di un’operazione assai delicata, facilmente equivocabile, che ha il sapore della radicalità evangelica e perciò non nascondo la fatica ad esprimerla. Essa necessita di essere rivisitata alla luce di alcune condizioni evangeliche, che consistono nel porre l’accoglienza cristiana, al di sopra di tutte le forme di accoglienza umana e dei relativi affetti che la motivano. Il che significa accogliere Cristo, più dell’ospite, del padre, della madre e dei figli (cf. Mt 10,37); e perfino più di se stessi, manifestando il coraggio di riconoscere come limitate tutte quelle idee e forme di ospitalità religiose, culturali e sociali che non siano conforme alla logica evangelica (cf. Mt 10,39), che non abbiano cioè l’amore cristiano come loro principio, senso e fine; consapevoli che una simile operazione comporta dei travisamenti dolorosi, comprensibili solo all’interno dell’ottica della croce (cf. Mt 10,38); e vivere tutto ciò come occasione per aderire pienamente alla mentalità evangelica di Cristo.

Convinti che la sua ospitalità costituisce il compimento di questa pratica nei confronti del prossimo. Priva di queste condizioni l’ospitalità rischia di ridursi solo a un fenomeno culturale o a una forma di realizzazione personale (cf. Mt 10,39). Gesù chiede ai suoi lo stesso distacco, la stessa totalità e radicalità dell’accoglienza misericordiosa praticata da lui. Apostolo non è solo chi condivide occasionalmente l’ospitalità umana, magari dettata anche da un’ondata di generosità e altruismo, ma colui che decide nel proprio cuore di ospitare Cristo e sposare la sua causa evangelica, per tutta la vita. Egli non ha altra ragione per accogliere l’altro se non Cristo in lui. Nell’accogliere l’ospite l’apostolo accoglie Cristo. In questo senso ospitare l’altro in sé, significa farsi un tutt’uno con lui, fino a pensare, parlare ed amare con Cristo in lui, esattamente come ha fatto Cristo, quando incarnandosi, ha assunto tutta la nostra umanità, eccetto il peccato (cf. Gaudium et spes, 22). Paradossalmente questa forma di accoglienza, contrariamente a quello che possiamo pensare, invece di annullare la nostra identità personale e culturale, ci fa pienamente noi stessi, permettendoci di cogliere la presenza dell’altro come luogo di relazione autenticamente umana, ovvero come dono di sé all’altro.




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