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2 Gennaio 2022 - Anno C - II Domenica dopo Natale


Sir 24,1-4.12-16 (gr. 24,1-2.8-12); Sal 147/146; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18


Testimoni della luce


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Una liturgia impegnativa quella che ci viene proposta per la seconda domenica di Natale. Nessun episodio di cronaca evangelica che si presti ad un commento narrativo, ma solo brani che stimolano la nostra intelligenza a penetrare l’evento dell’Incarnazione del Verbo, da poco celebrato. È esattamente quello che ci invita a fare Giovanni col Prologo al suo Vangelo. Un brano che abbiamo avuto modo di ascoltare e commentare già il giorno di Natale e che ora ci viene riproposto come a chiederci di sviscerarne ulteriormente il contenuto. Si tratta di mettere in atto un’operazione di “riflessione” o per meglio esprimerla in termini evangelici, di “meditazione”. Un’attività che l’evangelista Luca riconosce in modo particolare a Maria, nei confronti dell’opera che lo Spirito andava compiendo in lei, in merito ai fatti e alle parole del suo bambino e della sua maternità divina (cf. Lc 2,19.33.48). Anche noi come lei dovremmo imparare ad esercitare più frequentemente questa pratica spirituale, al fine di dare ragione della nostra fede (cf. 1Pt 3,15). Si capisce allora il motivo per cui san Paolo prega incessantemente affinché Dio Padre conceda agli Efesini “uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi” (Ef 1,17-18).

Letteralmente il termine “meditare” significa pensare, riflettere, studiare. Interessante è anche il significato che deriva dalla sua radice etimologica medēri, da cui proviene anche “medicina”, che significa curare, prendersi cura di qualcuno o qualcosa. In questo caso non si tratta tanto di un oggetto materiale o di una persona, quanto del significato teologico dell’evento incarnativo di Cristo, il cui contenuto non è affatto immediato, ma necessita di essere attinto grazie ad un’attività che impegna il nostro cuore e la nostra mente, al contempo. Essa consiste in una concentrazione prolungata su un fatto, su un argomento, su un problema, per sviscerarne l’essenza, così da coglierne il significato e trarne le conseguenze per la nostra vita pratica. Maria esercita questa attività mettendo insieme i fatti e le parole, individuandone i collegamenti e comprendendone i significati. Essa è alla base per chiunque intende sviluppare l’intelligenza spirituale, alla quale ciascuno di noi è chiamato, indipendentemente dal grado culturale di cui dispone. In questo senso Maria sembra dirci che non basta praticare, sia pure assiduamente, le varie celebrazioni religiose, senza procurarsi di capire quello a cui si partecipa. Diversamente si rischia di smarrire o dimenticare il significato, senza che esso produca un cambiamento nella nostra vita. Meditare comporta allora l’impegno di tornare ripetutamente sul senso di un’esperienza, al fine di inciderlo nella nostra memoria e trasformarlo in sapienza di vita.

Si comprende in questa chiave il tema della Sapienza, alla quale fa riferimento il libro del Siracide, nella prima lettura, dove appare evidente il richiamo al versetto del Prologo giovanneo: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Più che “abitare”, come solitamente traduciamo questo passo, il verbo andrebbe tradotto con “attendarsi”, nel senso di “mettere la tenda”, esattamente come afferma il passo del Siracide: “Allora il creatore dell’universo mi diete un ordine … e mi disse: ‘Fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità in Israele, affonda le radici tra i miei eletti’ … Nella tenda santa davanti a lui ho officiato e così mi sono stabilita in Sion ... Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso … nell’assemblea dei santi ho preso dimora” (Sir 24,12-16). La tenda è la casa abituale di quanti, come gli ebrei, praticavano la vita nomadica ed è continuamente sollecitato a spostarsi da un luogo all’altro. Essa è veloce da piantare e da smontare e si presta ad essere facilmente trasportata. Mettere la tenda significa prendere parte della vita di un territorio, di un popolo, assimilarne la mentalità, la cultura, le tradizioni, gli usi e costumi. Cristo venendo ad abitare tra di noi si è perfettamente integrato con la nostra vita, senza però perdere le abitudini della vita divina dalla quale proveniva. Abitando in mezzo a noi ha portato allora gli “usi e costumi”, compresa la sapienza, della vita trinitaria, della quale ha impregnato la nostra vita relazionale.

La Sapienza biblica non va confusa col sapere umano, o per lo meno non si riduce ad esso. Il sapiente non si limita a indagare la natura, i fatti umani, gli avvenimenti della storia, ma a cogliere in essi il disegno di Dio e il modo con cui esso si dispiega nel tempo. A lui non interessa ricostruire il fatto, come fa uno storico, ma a leggerlo e interpretarlo alla luce del piano salvifico di Dio.

Tuttavia più che commentare “la dimora di Cristo in mezzo agli uomini”, noi vorremmo prendere in considerazione i versetti 11-12 del Prologo di Giovanni: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio”. Forse non comprenderemo mai abbastanza il contenuto di questi versetti, tantomeno sperimenteremo la reale trasformazione a cui dà adito l’eredità filiale ricevuta da Cristo.

La formula figli di Dio è così comune che noi siamo soliti attribuirla a qualsiasi creatura umana, come se tutti, indipendentemente dalla fede in Cristo, fossero “figli di Dio”. In realtà non c’è espressione più fraintesa di questa. La filialità divina non dipende dal fatto che siamo stati creati da Dio. L’atto creativo ci fa creature di Dio, ma non figli. Per diventare figli occorre riconoscere Gesù di Nazareth come Figlio di Dio. Un simile riconoscimento avviene solo per mezzo della fede in lui. È in lui Figlio che diventiamo figli. In altre parole non si nasce figli di Dio, ma si diventa professando la fede in Cristo Figlio di Dio.

La prova di questa filialità divina – come afferma san Paolo – è che disponiamo della stessa eredità, ovvero dello Spirito filiale, di Cristo, per mezzo del quale anche noi possiamo rivolgerci a Dio, chiamandolo Padre (cf. Gal 4, 6). Dio è nostro Padre, non perché ci ha creato, ma perché viene riconosciuto tale attraverso la relazione filiale di Cristo. Vivere da figlio nel Figlio significa scegliere di vivere la vita secondo lo stile evangelico di Gesù. In questo consiste la vita dei figli di Dio. Questa eredità tuttavia non è automatica, ma dipende dalla nostra capacità di accoglierla. Accogliere significa aderire con tutte le proprie forze a questa verità di fede, al punto da trasformare radicalmente la nostra mentalità e la nostra vita. La vita spirituale che deriva da questa eredità è tale da diventare luce per quanti vivono nel dubbio, nello smarrimento esistenziale, nel peccato, come sottolinea san Giovanni nel Prologo: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). Illuminare la mente e il cuore significa favorire nelle persone lo sviluppo di quel percorso spirituale che deriva dalla sapienza evangelica, grazie al quale essi diventano capaci di dare un senso alla propria esistenza. Compiere questa opera significa diventare “testimone della luce”, vivere cioè alla maniera del Battista, il quale “venne come testimone per dare testimonianza alla luce” (Gv 1,7), affinché tutti credano per mezzo di noi.

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