2 Febbraio 2025 - Anno C - Presentazione del Signore
- don luigi
- 1 feb
- Tempo di lettura: 7 min
Ml 3,1-4; Sal 23; Eb 2,14-18; Lc 2,22-40
Gesù:
segno di contraddizione

“Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, … Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore ... Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù …, egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo / vada in pace, secondo la tua parola, / perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, / preparata da te davanti a tutti i popoli: / luce per rivelarti alle genti / e gloria del tuo popolo, Israele”. Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori. … Poi fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui” (cf. Lc 2,22-40)[1].
Durante la celebrazione del Natale abbiamo avuto modo di contemplare l’evento dell’incarnazione di Cristo, questo brano biblico, tratto dal Vangelo di Luca, ci dà modo non solo di sviluppare ulteriormente il discorso incarnativo, ma di osservare anche più da vicino il modo con cui Gesù si conforma progressivamente alla volontà di Dio, nel corso della sua vita. Il suo atto di consacrazione, compiuto attraverso i genitori, si presenta ricco di elementi simbolici, ognuno dei quali custodisce un significato che noi cercheremo di scoprire, per meglio favorire lo sviluppo della nostra vita spirituale personale ed ecclesiale. Figura chiave di questo episodio è, senza dubbio, il vecchio Simeone, che con la sua profezia oltre a rivelarci il destino della missione di Gesù e della madre Maria, traccia anche il modo con cui noi siamo chiamati a testimoniare e a partecipare della sofferenza di Gesù nella Chiesa e nel mondo. In altre parole, anche noi, a nostro modo, siamo invitati ad essere: “luce delle genti”, “gloria del popolo”, “segno di contraddizione” e ad essere “trafitti dal suo amore”.
Ma proviamo ad andare per ordine, partendo dal significato dell’atto di consacrazione di Gesù, del quale intendiamo evidenziare le sue radici bibliche e l’evento salvifico a cui allude. La consacrazione del primogenito a Dio è un atto antico che risale all’epoca dell’Esodo, a partire dal quale ogni maschio primogenito veniva consacrato al Signore a ricordo dei maschi primogeniti d’Egitto, morti a seguito dell’atteggiamento del Faraone che si ostinava a non voler far uscire il popolo dal suo Paese. Si tratta allora di un atto attraverso il quale il popolo attesta che Dio è detentore di ogni dono e a lui spetta ogni primizia.
Fedeli a questa tradizione mosaica, “Maria e Giuseppe portarono il Bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore” (Lc 2,22-23); compiendo tutto “come prescrive la Legge del Signore” (cf. Lv 12,2-8). Il rito avveniva al termine dei quaranta giorni, previsti per la purificazione della donna a seguito del parto, durante il quale nessun contatto era possibile, per evitare una contaminazione. L’atto di presentare il primogenito a Dio, tuttavia, non prevedeva solo l’osservanza delle norme prescritte dalla legge, e neppure riconoscere Dio come principio e datore della vita, bensì comportava soprattutto il coraggio di dichiarare, nell’assoluta libertà, la decisione di consacrare il proprio figlio a Dio, ovvero riconsegnarlo a colui dal quale lo si aveva ricevuto. Ecco ciò che fanno Maria e Giuseppe nei riguardi di Dio, come a dire che dal Signore l’abbiamo ricevuto e al Signore lo riconsegniamo. Questa decisione, così coraggiosa, mi riporta alla mente un episodio molto simile, ma più antico, narrato nel primo libro di Samuele 1,9-28, dove viene descritto l’atto di consacrazione compiuto da Anna, per il figlio Samuele. Anche lei, fedele alla promessa, riconsegna a Dio il dono del figlio, come segno di riconoscenza e di conformazione alla sua volontà.
È interessante notare come Gesù, a partire da questo evento, comincia a interpretare la sua vita come un progressivo atto di consegna a Dio, che lo porterà a rimettere definitivamente la sua vita nelle mani di Dio quando, sulla croce, rivolgendosi a lui dice: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Facendoci assistere, in questo modo, a quella crescente acquisizione sapienziale di cui parla Luca. Tuttavia la prima volta Gesù lo compie per mezzo dei suoi genitori, l’ultima volta, invece, sarà lui stesso che si consegnerà volontariamente nelle mani dei suoi aguzzini, per il supplizio della croce. Sarà sulla croce che Gesù diventerà “luce delle genti”, con la quale attirerà a sé tutti gli uomini, per coinvolgerli nella sua totale dedizione all’amore del Padre (cf. Gv 12,32). È la croce il vero candelabro su cui va posta la lampada (cf. Mt 5,14-15). Pertanto è a partire da questo evento che ogni profezia raggiungerà il suo compimento e la sua pienezza, esattamente come aveva previsto Simeone.
L’odierna prassi cristiana non prevede più il rito della Presentazione del figlio primogenito, ciò tuttavia non ci impedisce di cogliere l’attualità di questo gesto nei riti di iniziazione alla vita cristiana, quali sono il Battesimo, la Confermazione e la Comunione. Cosa sono, infatti, questi sacramenti se non un progressivo cammino di adesione e consacrazione a Dio, in vista di una progressiva acquisizione sapienziale e un crescente inserimento nella vita ecclesiale? Anch’essi, infatti, prevedono una crescita non solo “in età”, ma soprattutto “in sapienza e grazia”. Anzi, proprio in merito a questi due aspetti, oggi più che mai, si avverte l’urgenza di un serio cammino di formazione, capace di far fronte alla prolungata e diffusa crisi di fede che attraversa tutta la Chiesa. È per mezzo di questi sacramenti che anche noi siamo chiamati a incarnare la fede di Cristo nell’oggi della vita sociale e culturale, facendolo però secondo lo stile evangelico di Gesù, il quale divenendo uomo si è svuotato della sua condizione divina (cf. Fil 2,6-7), senza tuttavia perdere la sua fedeltà e obbedienza al Padre (cf. Eb 2,15). Questo stile di vita costituisce la chiave di lettura della nostra adesione al piano salvifico di Dio e alla prassi della vita ecclesiale. Si tratta di un cammino faticoso perché abbraccia tutti gli aspetti della nostra umanità, in particolare l’obbedienza, della quale facciamo fatica a comprenderne il senso, specie in un contesto culturale come il nostro che ce la fa intendere come limitazione della libertà. È sottomettendosi ai genitori che Gesù si abitua alla totale obbedienza e dipendenza dal Padre. Passando attraverso queste condizioni egli diverrà una persona capace di relazioni e di un amore fedele fino alla fine (cf. Gv 13,1).
Anche il modo con cui i genitori presentano Gesù al tempio, si rivela ricco di significati. Essi offrono “una coppia di giovani colombi”, al posto dell’agnello previsto per questa circostanza (cf. Lv 5,7; 12,8). Luca ci informa che questa scelta era dovuta alla loro condizione sociale: troppo poveri per permettersi una simile spesa. In realtà noi cogliamo un significato teologico più profondo: infatti Gesù stesso sarà “l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo” (Gv 1,29). Egli darà la vita in riscatto per molti (cf. Mc 10,45; Mt 20,28), consentendo in questo modo la realizzazione della profezia di Simeone: “egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione”. Gesù, infatti, non è stato mandato dal Padre per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato” (Gv 3,16-18). La fede in lui costituisce un criterio di discernimento, in base al quale saranno “svelati i pensieri di molti cuori”. La salvezza infatti, potrà essere conseguita attraverso Gesù: “In nessun altro nome vi è la salvezza, poiché non c’è altro nome sotto il cielo che sia dato agli uomini, per mezzo del quale possiamo essere salvati” (At 4,12). Di fronte a Gesù occorre prendere posizione. Egli è “venuto a portare divisione sulla terra” (cf. Lc 12,51). È fondamentale perciò decidere se accettare o rifiutare che sia lui a determinare, con la sua luce, il futuro della nostra vita.
Insieme a Simeone Luca ci tratteggia anche la figura di Anna: “una profetessa … della tribù di Aser”. Anche lei, “molto avanti negli anni”, viveva in attesa di vedere “la redenzione di Gerusalemme” (cf. Lc 2,36-38). Entrambi lodano il Signore perché nel bambino Gesù vedono il compimento della loro straordinaria attesa messianica, durata per tutta la vita. È bello perciò immaginarli recitare insieme il Nunc dimittis “ora lascia” (che la Chiesa ci fa recitare ogni sera nella Compieta: l’ultima preghiera della giornata prima di coricarci): “Ora puoi lasciare, o Signore, che i tuoi servi / vadano in pace, secondo la tua parola, / perché i nostri occhi hanno visto la tua salvezza” (Cf. Lc 2,29-30). Queste due figure rappresentano perciò la speranza e la fede incessante che si stempera durante tutto l’arco della vita. Entrambi, grazie alla loro fedeltà, hanno modo di godere dell’adempimento delle promesse divine. Come non cogliere in essi un esempio di speranza a cui guardare durante questo Anno Giubilare.
La profezia di Simeone non risparmia neppure la madre di Gesù. Anche lei viene coinvolta nella missione salvifica del Figlio, che vivrà in prima persona quando, sotto la croce, sperimenterà la sofferenza che le “trafiggerà l’anima”.
Qual è, in conclusione, il senso di questo episodio? Luca intende qui evidenziarci l’universalità della salvezza di Gesù, come attesta il canto di lode di Simeone: “perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, / preparata da te davanti a tutti i popoli”. Attraverso la testimonianza dei suoi protagonisti ci tratteggia la spiritualità della vita evangelica, secondo la quale ciascuno di noi, sia pure in diversi modi, forme e stati di vita, è chiamato a “offrire il proprio corpo”, ovvero tutto se stesso, “in sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (cf. Rm 12,1), se intende continuare ad attuare nell’oggi della storia l’evento salvifico di Cristo.
[1] Oggi avremmo dovuto celebrare la quarta Domenica del Tempo Ordinario, ma la coincidenza con la Presentazione di Gesù al Tempio spiega la ragione di questa la liturgia della Parola. In simili casi, infatti, la solennità di Cristo prende il sopravvento sulla Liturgia Ordinaria.




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