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19 Settembre 2021 - XXV Domenica del Tempo Ordinario Anno B


Sap 2,12.17-20; Sal 53/54; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37


La logica del bambino evangelico



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La liturgia della Parola di quest’oggi ci dà modo di approfondire ed esplicitare ulteriormente il tema di domenica scorsa: pensare come Dio. Abbiamo visto che il discepolo che vuole veramente conformarsi al maestro deve imparare non solo a imitare il suo stile di vita, ma anche a pensare come lui, scoprire, cioè, la ragione del suo comportamento. Nell’attuale brano evangelico Gesù chiarisce questo suo modo di pensare durante il suo viaggio verso Gerusalemme, dove, per ben tre volte, si sofferma ad esporre chiaramente ciò che accadrà al termine della sua vita. L’evangelista Marco raccoglie questo suo insegnamento sotto forma di “annunci della passione” (cf. Mc 8,31; 9,31; 10,33-34), al termine dei quali Gesù espone anche le sue “condizioni della sequela” (cf. Mc 8,34-38).

Tra queste condizioni ve n’è una in particolare, sulla quale intendiamo soffermare, quest’oggi, la nostra attenzione: quella in cui Gesù prende a modello del suo modo di pensare un bambino (cf. Mc 9,36-37). Marco colloca questo esempio a seguito del “secondo annuncio della passione” (cf. Mc 9,31), quando Gesù, malgrado la sollecitudine, prende atto della chiara difficoltà dei discepoli nel comprendere un argomento così delicato e profondo. Durante il viaggio, infatti, essi, tutt’altro che intendi ad ascoltare le istruzioni del maestro, “avevano discusso tra loro su chi fosse il più grande” (Mc 9,34). Di contro Gesù “preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse …” (Mc 9,36).

L’esempio del bambino si rivela pertinente specie per chi nella comunità cristiana è abituato a concepire i ruoli non come servizio, ma come forma di prestigio personale, ed è attraversato continuamente dalla tentazione di “essere il primo e porre gli altri al servizio di sé” (cf. Mc 9,35). Costoro, come gli apostoli, rischiano continuamente di strumentalizzare non solo gli altri, ma perfino Gesù e il Vangelo, per fini personali. L’episodio fa luce perciò non solo sulle relazioni della comunità apostolica di Gesù, ma anche su quelle che caratterizzano le nostre comunità ecclesiali. È chiaro che con questo esempio Gesù non intende ripristinare le condizioni di una ipotetica relazione primordiale: innocente e pura, come si presume erroneamente sia quella dei bambini; tanto meno sovvertire o eliminare le gerarchie e i ruoli – necessari per ogni comunità ecclesiale e sociale – semmai creare i presupposti per un’autentica vita relazionale, quella stessa che egli vive col Padre, nello Spirito. Per questa ragione egli non vuole che i suoi discepoli rimangano ingenui, al contrario desidera che essi raggiungano la piena maturità spirituale. Per fare ciò essi devono avere il coraggio di rivisitare radicalmente il modo con cui concepiscono e vivono le loro relazioni interpersonali e quotidiane, imparando a mettersi in ascolto l’uno dell’altro, non tanto perché tutti abbiano voce in capitolo, come in una democrazia, quanto per vivere secondo la stessa logica relazionale della vita trinitaria. Si tratta di una logica che la tradizione spirituale cristiana definisce in termine di “croce”: un autentico paradosso per chi è abituato a vivere primeggiando e dominando sull’altro. Essa prevede, infatti, di morire per vivere, perdere per avere, farsi ultimo per diventare primo, servire per governare. Vivere in questo modo significa diventare, come Gesù, un vero “segno di contraddizione” (cf. Lc 2,34).

Il libro della Sapienza definisce costui come “giusto” (Sap 2,12), ovvero come colui che, secondo la tradizione ebraica, è capace di perseguire il bene e rifiutare il male; fuggire l’indifferenza ed assumersi le proprie responsabilità, anche quando è necessario sacrificarsi per l’altro. In altre parole il giusto è colui che vive secondo il cuore di Dio (cf. 1Sam 13,14), che conforma, cioè, la propria vita al modo di pensare divino. Una simile presenza, nella vita sociale, è destinata a suscitare inevitabili reazioni, da parte di quelli che, contrariamente ai giusti, vengono definiti “empi” o “stolti”, ovvero, coloro che vivono secondo la logica opportunista del “carpe diem” (cogli l’attimo), con la quale non solo disprezzano Dio e la sua giustizia, ma vivono il loro atteggiamento come un’autentica sfida. Interessante e di estrema attualità è il loro ritratto che fa il libro della Sapienza (cf. Sap 1,16-2,24). Essi tramano nei confronti del “giusto” continue strategie di sopraffazione, come si evince dal nostro brano: “su tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni; ci rimprovera le trasgressioni della legge e ci rinfaccia le mancanze contro l’educazione ricevuta” (Sap 2,12). Da qui la loro perversa decisione di “metterlo alla prova, con le loro violenze e tormenti per verificare la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione” (Sap 2,19). Ma non sanno che così facendo mettono in realtà alla prova Dio, che è la vera forma di peccato (cf, Mt 4,7; Dt 6,16). Il successo, la ricchezza, l’astuzia, il dominio, il trionfo, il potere, la supremazia vengono considerati e praticati dagli empi come atteggiamenti di chi ha effettivamente colto il senso pratico della vita. Per questa ragione non temono niente e nessuno. In realtà, essi non sono che vittime della logica del maligno, accecati come sono dall’amara e dolorosa trama dell’invidia, definita “la carie delle ossa” (Prov 14,30). San Giacomo la ritiene, insieme alla gelosia, all’origine della “falsa sapienza” (cf. 3,14-16), anima la mentalità del mondo. L’invidia è causa di continue polemiche, litigi e calunnie e perciò è all’origine di tanti mali e tormenti personali e comunitari. L’invidioso fa di tutto per impossessarsi di ciò che non è proprio e quando non riesce ad ottenerlo fa di tutto per eliminare perfino l’altro. “Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi?” (Gc 4,1) – si chiede san Giacomo, dopo aver sperimentato un clima carico di tensioni perfino all’interno della sua comunità – “Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra dentro di voi?” (cf. Gc 4,1).

Un’osservazione attualissima questa di Giacomo che ci offre una chiave di lettura per capire i disordini che caratterizzano anche le nostre comunità ecclesiali, sociali e internazionali. Quanti di noi vivono solo secondo la logica dell’accumulo, animati da quell’antico, indomabile e insaziabile desiderio di possedere le cose e le persone? (cf. Es 20,17; Dt 5,21). Non è forse questa anche per noi la causa di tante tensioni e guerre tra persone, gruppi, popoli e nazioni? Quanti individui o Stati cosiddetti “potenti”, o più onestamente “prepotenti”, dietro la maschera di una presunta e affabile democrazia, sono in realtà intenzionati solo ad accaparrarsi dei beni altrui? Una logica questa che – come osserva ancora acutamente San Giacomo – ci lascia perennemente insoddisfatti, perché “desideriamo ma non possediamo … chiediamo, ma non otteniamo, perché chiediamo male” (cf. Gc 4,2-3).

Basterebbe questo semplice termine di confronto, per capire quanto siamo realmente lontani dalla logica del bambino evangelico, che la mentalità del mondo considera perdente e inefficace. In realtà i bambini, come i “miti” di cui parla Gesù nelle Beatitudini, saranno i veri “eredi” della terra (cf. Mt 5,5). Con la loro logica – come ci insegna il Magnificat – Dio sovvertirà la mentalità del mondo. Questa verità la professiamo, senza la minima convinzione, tutte le volte che recitiamo: “Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili” (Lc 1,51-52). Forse dovremmo imparare a ripeterla quando realmente ci ritroviamo ad essere vittime di soprusi, infamie, disonori, calunnie e violenze, quando, cioè, anziché cedere alla facile tentazione di appellarci alle varie forme di potere politico, culturale, religioso, come di solito fanno i potenti, consegniamo la nostra causa a Dio, senza mai smettere di confidare nella sua provvidenza. Non so quanti di noi sono convinti di questa logica di vita. Sarà il campo a dimostrarlo. Intanto, chi vuole, potrebbe cogliere queste circostanze come occasioni per cominciare a convertire il proprio modo pensare a quello di Gesù. Provare per credere.

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