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19 Febbraio 2023 - Anno A - VII Domenica del Tempo Ordinario

Aggiornamento: 20 feb 2023


Lv 19,1-2.17-18; Sal 103/102; 1Cor 3,16-23; Mt 5,38-48


Perfetti nell’amore


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“Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48) è il comando col quale Gesù conclude il suo discorso sul “compimento” della legge, il cui senso viene chiaramente espresso nella “novità” con la quale lui interpreta la “giustizia antica” (Mt 5,20): “avete inteso che fu detto … mai io vi dico” (Mt 5,21). In realtà già domenica scorsa abbiamo avuto modo di esplicitare il significato di questa “novità”, quando abbiamo individuato nell’amore il senso originario e profondo della legge. “Amore voglio, non sacrifici; non offerte, ma comunione con me, dice il Signore” (Mt 9,13)[1]. Questa non è data per piegare la volontà dell’uomo, né per verificare la docilità del suo cuore, ma per renderlo partecipe dell’amore di Dio. Per Gesù allora non basta limitarsi ad assolvere un precetto, neppure disporsi alla rinuncia e al sacrificio che il suo adempimento comporta, ma occorre conformare il proprio cuore, la propria mente, la propria volontà al cuore, alla mente e alla volontà di Dio. È a questo livello che Dio chiede la nostra adesione. In altre parole Gesù chiede che i suoi condividano con Dio la sua stessa santità: “Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio sono santo” (Lv 19,2). La santità di Dio costituisce perciò il principio, il senso e il fine della legge; la ragione della sua rivelazione. Essa esplicita l’essenza della volontà di Dio.

Ma in cosa consiste la santità? Il Salmo 103 si rivela particolarmente illuminante a questo proposito: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” (Sal 103, 8); “Egli perdona tutte le tue colpe … ti circonda di grazia e misericordia” (Sal 103, 3.4). Se c’è dunque una qualità che contraddistingue la santità di Dio questa è l’amore che si manifesta nelle sue molteplici declinazioni: misericordia, pietà, bontà, benignità, clemenza, indulgenza, tenerezza, perdono, compassione, pazienza, grazia … Un ventaglio ricchissimo di qualità che il salmista, molto probabilmente, ha avuto modo di sperimentare durante l’arco della sua vita e, non ultimo, a seguito delle sue esperienze di peccato, quando invece di scoprirsi giudicato e condannato da Dio, si è visto ripagare le sue colpe col perdono e guarire le sue infermità con la misericordia. Questo inaspettato e imprevedibile comportamento di Dio diventa per lui motivo di benedizione: “Benedici il Signore, anima mia, / quanto è in me benedica il suo santo nome. / Benedici il Signore, anima mia / non dimenticare tutti i suoi benefici” (Sal 103,1-2), perché egli “non ci tratta secondo i nostri peccati / né ci ripaga secondo le nostre colpe” (Sal 103,10).

Consapevole di questa qualità originaria divina Gesù, con la sua interpretazione della legge, non fa che riportare al centro dell’attenzione dei suoi interlocutori, l’amore di Dio, riconosciuto come l’essenza della sua divinità e quindi della sua santità. L’amore costituisce perciò il senso pieno della legge e come tale svela il volto autentico e originario di Dio. La fedeltà alla legge si manifesta allora nella fedeltà all’amore di Dio. La legge viene perciò compresa come la via per praticare l’amore e giungere alla conoscenza della sua volontà, e questa ha un unico scopo: amare come lui, essere cioè capaci di manifestare, nelle relazioni col prossimo, le infinite sfumature dell’amore di Dio. Pertanto quando nella vita si presentano occasioni che inducono a nutrire, nei confronti del prossimo, sentimenti di odio, rancore, astio, acredine, disprezzo, giudizio, vendetta, ostilità, inimicizia, condanna … quello è il momento in cui occorre dare prova, più che mai, dell’amore di Dio. Ugualmente tutte le volte che ci sforziamo di trasfigurare i sentimenti di odio, vendetta, giudizio, condanna … in sentimenti di misericordia, clemenza, benevolenza, perdono vuol dire che stiamo orientando la nostra vita verso l’amore di Dio, stiamo cioè trasformando l’amore umano in quello divino, esattamente quello che Gesù compie durante le Nozze di Cana. In questo senso anche i nostri limiti, i nostri fallimenti non devono spaventarci, né diventare motivo di resa, al contrario vanno vissuti come sfide, per verificare fino a che punto siamo capaci di amare come Dio. Gesù in questo non conosce estremi, anzi ci chiede addirittura di essere audaci, fino a “essere perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48).

Ma è possibile essere perfetti come il Padre? Non è pura utopia? Conoscendo la fragilità della condizione umana non è esagerato tendere alla perfezione divina? Eppure quello di Gesù non è un invito, neppure un ideale, ma un imperativo: “Siate perfetti!”. Un comando che i suoi discepoli sono chiamati a praticare se intendono sperimentare la pienezza della loro vita. La perfezione alla quale il discepolo deve tendere non è nell’intelligenza, nella razionalità, nella conoscenza, e neppure nella sapienza, nella creatività, nella scienza, nella potenza, ma nell’amore. È qui che egli diventa ad “immagine e somiglianza di Dio” (Gen 1,26). Nulla come l’amore ci fa simili a Dio. Così mentre alcuni si sforzano di perfezionarsi nella musica, nella lingua, nella danza, nell’arte, nella poesia, nella scienza, nello sport … i discepoli di Cristo sono chiamati a perfezionarsi nell’amore.

Ma qual è l’esercizio pratico che va fatto per raggiungere questa perfezione? Secondo le indicazioni della legge mosaica questo esercizio consiste nello stabilire relazioni d’amore col prossimo, ovvero con tutti coloro che interagiscono con noi, nei vari ambiti della vita quotidiana. Nell’esplicitare questa forma di relazione Mosè fissa anche la sua misura: “amare il prossimo come se stesso” (Lv 19,18), il che significa che l’amore che occorre nutrire per gli altri, corrisponde a quello che nutriamo per noi stessi; né più né meno. Pertanto se qualcuno ci fa del bene, occorre ricambiarlo con lo stesso bene; se qualcuno ci mostra un’attenzione occorre ricambiarlo con la stessa attenzione. D’altra parte se riceviamo del male non bisogna andare oltre il male ricevuto: quindi a chi ci dà uno schiaffo non bisogna dargliene due; a chi ci rompe un dente, non bisogna rompergliene due; e a chi ci acceca un occhio, non bisogna accecargliene due. In altre parole all’altro va fatto ciò che egli fa a noi, come prescrive la “Legge del taglione”[2]. Per Mosè dunque l’amore che si nutre per se stessi, costituisce la misura e il limite dell’amore verso il prossimo.

Per Gesù tutto questo discorso mosaico, per quanto abbia costituito per quel tempo, un livello piuttosto alto dell’amore, non basta più. Per lui la nuova misura dell’amore sta nella pratica delle Beatitudini evangeliche: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,11-12). Pertanto “se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia, tu porgigli anche l’altra; se uno ti porta via la tunica, tu lasciagli anche il mantello; se uno ti costringe ad accompagnarlo per un miglio, tu fanne anche due con lui” (Mt 5,39-41). Il nuovo principio stabilito da Gesù è amare come Dio: in modo illimitato. Perciò osserva come il Padre si comporta verso tutti: buoni e cattivi, giusti e ingiusti. Su ciascuno di essi fa sorgere il sole e fa piovere (cf. Mt 5,45), senza alcuna discriminazione. Allo stesso modo fa anche tu: dona senza misura e a chi ti chiede non centellinare la bontà, anzi elargiscila con abbondanza. Sii generoso nel donare i tuoi beni a tutti, elargiscili con larghezza e magnanimità, fino a manifestare l’eccedenza dell’amore di Dio.

D’altronde “se amate solo quelli che vi amano cosa fate in più rispetto agli altri? Anche i pubblicani fanno lo stesso” (Mt 5,46-47). Se invece intendete dare prova dell’amore evangelico allora siate disposti a dare la vostra vita.Ecco “il di più” richiesto da Gesù. Se per Mosè la misura limite dell’amore consisteva nell’amare il prossimo come se stessi, per Gesù la prova suprema dell’amore consiste nel donare la propria vita e nel donarla perfino a coloro che ci fanno del male. È qui l’estremo limite divino al quale Gesù conduce l’amore umano. “Non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici” (Gv 15,13).



[1] Dello stesso avviso sono anche 1Sam 15,22: “Obbedire è meglio del sacrificio / essere docili è meglio del grasso degli arieti” e il profeta Osea 6,6: “Poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti”.

[2] La legge del taglione o pena del taglione è un principio giuridico molto in uso in diverse popolazioni antiche. Esso stabilisce che è possibile infliggere all’altro un danno uguale all’offesa ricevuta. La sua funzione è quella di porre un limite preciso alle vendette private che spesso generavano nelle faide tra clan. La più antica codificazione di questo principio sembra essere quella scritta nel Codice di Hammurabi, un’antica raccolta di leggi babilonese. Il codice legislativo mosaico risente perciò di questo influsso giuridico del tempo.

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