18 Giugno 2023 - Anno A - XI Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 17 giu 2023
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 18 giu 2023
Es 19,2-6; Sal 99; Rm 5,6-11; Mt 9,36-10,8
Il mandato missionario

“Pregate il padrone della messe che mandi operai nella sua messe” (Mt 9,37); “Strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,7-8).
Queste appena citate sono le parole con le quali Gesù formula il mandato missionario conferito agli apostoli. L’evangelista Matteo colloca questo incarico all’inizio del discorso apostolico (cf. Mt 10), dove Gesù, dopo aver chiamato gli apostoli (cf. Mt 4,18-22; 9,9) e averli coinvolti nel mistero del Regno di Dio da lui predicato, chiede loro di farsene promotori “tra le pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 10,6); e di farlo, però, secondo le condizioni dello stile evangelico che lui stesso ha già attuato e verificato durante la sua predicazione: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”.
Per comprendere più profondamente il significato di questo mandato missionario ci lasceremo guidare da una domanda: cosa induce Gesù ad inviare i suoi apostoli? Dal brano emerge chiaramente una ragione precisa: “Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore” (Mt 9,36). È la stessa espressione che troviamo anche in Marco, il quale però la inserisce nel contesto del miracolo della moltiplicazione dei pani (cf. Mc 6,34-44), per cui saremmo indotti a pensare che Gesù “mosso a compassione” da una situazione di bisogno alimentare, chieda agli apostoli di soddisfarla. In realtà il contesto in cui Matteo colloca questa espressione è ben altro. Durante la sua predicazione Gesù prende atto che la situazione religiosa della sua gente è gravemente degenerata. Le folle appaiono letteralmente abbandonate a loro stessi, perché coloro che erano stati chiamati a guidare il popolo di Dio alla salvezza, ossia i “farisei”, gli “scribi”, i “sacerdoti”, i “capi del popolo”, insomma tutti quelli che avrebbero dovuto svolgere una funzione guida in Israele, invece di assolvere le loro responsabilità, si preoccupavano solo di pascere se stessi, esattamente come aveva denunciato già a suo tempo il profeta Ezechiele (cf. Ez 34,2). Quella rilevata da Gesù, dunque, non è una situazione di indigenza materiale, ma di indigenza religiosa. La “stanchezza” e la “fiacchezza” che lui nota nelle folle, infatti, non sono dovute alla mancata alimentazione, ma alla mancata presenza di un pastore. Si tratta perciò di un affaticamento spirituale che si manifesta anche a livello psicologico ed esistenziale. Pertanto, più che di pane e di acqua esse manifestano il bisogno di una guida sicura, che le conduca attraverso i sentieri spesso tortuosi, dolorosi, oscuri e perfino assurdi della vita.
Da qui la richiesta di Gesù al Padre: “Pregate il padrone della messe che mandi operai nella sua messe”. Gli operai che chiede Gesù, dunque, non sono chiamati a soddisfare solo i bisogni contingenti della gente, ma ad annunciare in primo luogo il “Vangelo del regno”, compreso come ciò che è capace di dare riposo, energia, vigore, e suscitare interesse. È dando senso alla loro vita; è coinvolgendole nella straordinaria avventura del Vangelo che essi potranno far uscire le folle fuori da quella situazione di apatia esistenziale e spirituale, che genera stanchezza e spossatezza[1]. Si capisce allora la ragione per cui Matteo ponga questo mandato missionario al termine di un’intera sezione narrativa dedicata al racconto di miracoli che hanno la funzione di rendere visibile, credibile e soprattutto attraente il Regno di Dio nel vissuto quotidiano (cf. Mt 8-9). Un simile impegno missionario richiede non solo un’adeguata assimilazione dei contenuti della predicazione di Gesù, ma soprattutto una perfetta adesione alla logica del suo stile evangelico. Essi dovranno, come lui, sapersi abbandonare alla Provvidenza, fiduciosi che il Padre non farà mancare loro nulla (cf. Mt 6,25-34). Da qui la richiesta che segue al nostro brano evangelico: “Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio …, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento” (Mt 19,9).
Come non cogliere in questo brano le affinità col nostro contesto ecclesiale. Al pari delle folle di allora anche la nostra gente appare stanca, sfinita, sfiduciata, depressa, spossata, scoraggiata. Non è facile individuare le cause di questi atteggiamenti, né la sede si presta a simili analisi, ma certamente non mancano quelle rilevabili dai vari ambiti ecclesiali, dove la secolare religiosità precettistica, il prolungato moralismo, l’eccessivo sacramentalismo pastorale, il diffuso spiritualismo intimistico e il liturgismo formale e vuoto hanno finito col provocare una sorta di rigetto religioso, unito a una violenta reazione culturale, determinando una stanchezza di tipo psicologico e un lassismo morale che rendono ancora più difficile la ripresa. Anche nel nostro contesto europeo e più estesamente occidentale, la gente non manifesta particolari sintomi di bisogni alimentari. Da qui l’attualità della lucida analisi di Gesù che evidenzia l’assenza di guide capaci non tanto di soddisfare la fame alimentare, bensì quella di senso e di senso spirituale della vita. Il che fa sentire ancora più urgente la necessita di guide capaci di formare, tanto i singoli quanto i popoli, alla difficile arte del discernimento esistenziale e spirituale, quella cioè che li mette in grado di acquisire i criteri con cui scoprire il principio, il senso e il fine della vita, per operare così scelte che siano conformi al Vangelo.
Come potremmo tradurre altrimenti “il potere sugli spiriti impuri” (Mt 10,1) che Gesù conferisce agli apostoli, se non con la capacità di educare la gente a saper riconoscere e vincere la logica con cui il “maligno” esercita il suo potere nel mondo e nel cuore di ciascuno di noi? Come intendere il potere di fare miracoli se non come quello di essere in grado di operare segni credibili, capaci di manifestare la presenza operante dello Spirito Santo in mezzo a noi e dentro di noi, l’unico che realizza veramente il Regno di Dio nel mondo? (cf. Lc 4,18-19). Per quanto l’annuncio del regno richieda un’imprescindibile collaborazione degli apostoli, la sua realizzazione nel mondo necessita, perciò, in primo luogo dell’intervento di Dio. Da qui il bisogno di Gesù di rivolgersi a lui attraverso la preghiera e di farlo, però, insieme ai suoi apostoli: “Pregate”. La preghiera, ovvero la comunione col Padre, diventa così la prima condizione che gli apostoli dovranno pro-curarsi di avere nella loro predicazione. È la loro comunione d’amore con Dio che rende visibile il regno tra gli uomini. Senza di essa nessuna azione missionaria e pastorale si rivela efficace: “Se il Signore non costruisce la casa invano vi faticano i costruttori” (Sal 126,1). Cos’è il regno di Dio, in ultima analisi, se non l’amore relazionale che Gesù intesse col Padre, condivide con gli apostoli e ora chiede di estendere anche alle folle? Per fare ciò gli apostoli dovranno imparare a tessere col Padre la stessa relazione d’amore di Gesù; dovranno nutrire nel loro cuore gli stessi sentimenti del maestro, ovvero provare la stessa “compassione” per le folle, patire con loro, commuoversi con loro, mostrare la stessa “tenerezza e pietà di Dio” (Es 34,6); farsi promotori della “Misericordia più dei sacrifici, della conoscenza di Dio più degli olocausti” (cf. Mt 9,13; Os 6,6). È a queste condizioni che essi potranno espandere “la sua misericordia, la sua fedeltà a ogni generazione” (Sal 99; Sal 103).

Ora, con tutta franchezza e onestà spirituale, chiediamoci: è questa la tipologia di pastori che cerchiamo o non piuttosto quella di impostori che anestetizzano la nostra coscienza critica e spirituale, anziché formarla e svilupparla? Proviamo per un attimo a considerare l’attuale fenomeno degli influencer, così diffuso sui social e così incidente sulla formazione culturale delle giovani generazioni - e non solo -, protesi solo a definire il profilo della loro immagine o del prodotto commerciale da vendere, piuttosto che rendersi conto delle drammatiche conseguenze che determinano con il loro ruolo sociale? Non sono forse queste le guide che rendono ancora più confusa e anonima la già prolungata crisi d’identità della nostra gente e ancora più acuti e drammatici i sintomi della stanchezza spirituale e psicologica che ne derivano? Eppure nonostante il bisogno estremo di guide e testimoni autentici che abbiamo, paradossalmente, facciamo poco o nulla per evitare che queste figure di imbroglioni e ingannatori continuino a dilagare negli attuali organi culturali. E quanti di noi, pur consapevoli di ciò, permettono che essi spadroneggino nella propria psiche e in quella dei loro figli, nella speranza così di colmare i vuoti esistenziali che si aprono dentro di loro?
È interessante notare che Matteo nel descrivere questo episodio presenti molte affinità con altri brani evangelici, tra i quali quello narrato dall’evangelista Luca, dove, però, gli inviati non sono gli apostoli, ma altri “settantadue discepoli” (cf. Lc 10,1-12), i quali “andando a due a due” rivelano la logica relazionale dell’annuncio evangelico, grazie alla quale essi potranno manifestare quella della vita trinitaria del Regno, di cui si fanno promotori con la loro predicazione. Questo incarico, inoltre, non fa che precedere quello più solenne che Gesù trasmetterà agli apostoli dopo la sua Risurrezione: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura” (cf. Mc 16,15; Mt 28,19), dove l’annuncio del regno assume un tono chiaramente universale, esteso a tutto il mondo e a tutti i popoli[2]. Dal confronto di questi episodi sembra emergere la metodologia rivelativa ed evangelizzatrice di Cristo, secondo la quale l’annuncio del regno prima di essere proclamato al mondo intero necessita di essere rivolto, condiviso e assimilato dalle “pecore perdute della casa d’Israele”, di cui gli apostoli sono rappresentanti. È a queste condizioni che essi potranno realizzare l’antica profezia mosaica: “Ora se vorrete ascoltare la mia voce e custodire la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,5-6). Grazie alla loro predicazione gli apostoli danno origine a quei presupposti che determinano lo sviluppo di una nuova umanità, quella cioè che nasce dalla “riconciliazione con Dio per mezzo della morte del figlio suo” (Rm 5,10).
[1] L’esigenza di operai manifestata da Gesù non è neppure di tipo governativo, come quella, per esempio, descritta nel libro dell’Esodo 18,13-27, dove Ietro, viste le difficili condizioni con cui Mosè esercita il governo del popolo, gli suggerisce di decentrare il suo potere a favore di capi che lo aiutino nelle sue funzioni giuridiche. Per questo motivo gli apostoli, non potranno cedere alla lusinga del potere all’interno della Chiesa, dove la chiamata a “servire” viene spesso intesa come quella dell’“essere servito”, e il ruolo di governo viene frequentemente confuso come quello di un esercizio di potere sugli altri. Neppure gli apostoli sono perciò immuni da queste tentazioni, come attesta la richiesta avanzata da Giacomo e Giovanni: “Maestro concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra” (Mc 10,37). [2] Il loro mandato tuttavia dovrà essere in continuità con quello ricevuto da Gesù dal Padre: “come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,21).




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