18 Dicembre 2022 - Anno A - IV Domenica di Avvento
- don luigi
- 17 dic 2022
- Tempo di lettura: 8 min
Is 7,10-14; Sal 23; Rm 1,1-7; Mt 1,18-24
La vergine concepirà e partorirà un figlio

Due sembrano essere i temi di questa 4a Domenica di Avvento: il primo potremmo formularlo con la profezia di Isaia, che Matteo cita testualmente nel suo Vangelo: “La vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele: Dio-con-noi” (Mt 1,23); il secondo invece trova nella figura di Giuseppe il suo protagonista indiscusso, anche se il suo ruolo è piuttosto inconsueto, perché rimane sostanzialmente in silenzio nei vari brani evangelici che lo ritraggono. Da qui il titolo: Il silenzio fedele di Giuseppe. Il senso che accomuna questi due temi scaturisce dalla lettura teologica che Matteo propone in questo brano evangelico, quando vede nella nascita di Gesù il compimento della profezia di Isaia. In questa ottica Giuseppe viene presentato come colui che assicura la continuità della discendenza davidica, come attesta anche la Genealogia di Gesù che egli presenta all’inizio del suo Vangelo (cf. Mt 1,16).
Il brano dal quale Matteo attinge la profezia, fa parte del cosiddetto Libro dell’Emmanuele, costituito da soli sei capitoli, compresi tra il 7° e il 12° capitolo del libro di Isaia. Esso è di estrema importanza per la comprensione della figura del Messia. Noi cercheremo di ripercorrere, non senza limiti, il modo con cui la tradizione esegetica cristiana, rispetto a quella ebraica, ha interpretato questa profezia in chiave cristologica, giungendo a comprendere in essa quel significato non chiaramente espresso dal profeta, ma che costituisce il “senso pieno” [1] e profondo della rivelazione di Dio. Ci addentreremo in esso attraverso una contestualizzazione storica, per capire le ragioni che hanno indotto Isaia a formulare il suo oracolo. Isaia ci riferisce della situazione politica del regno di Giuda, sul cui trono siede Acaz, re della dinastia davidica (cf. Mt 1,9)[2]. Fin dall’inizio il suo regno si ritrova minacciato dalla coalizione di Razin, re di Siria e di Osea, re d’Israele, i quali tentano di strappargli il regno e darlo ad uno sconosciuto figlio di Tabeel (cf. Is 7,6). Nel tentativo di difendersi Acaz chiede protezione al re Assiro Tiglatpileser, al quale, come ricompensa, promette doni provenienti dal tempio di Gerusalemme. La notizia di questa inopportuna alleanza giunge all’orecchio di Isaia (Dio è salvezza), il quale, su mandato divino, si reca subito da Àcaz (cf. Is 7,3), insieme al figlio Seariasùb (un resto ritornerà), per distoglierlo dalla sua decisione e soprattutto per invitarlo a non lasciarsi condizionare da “quei due pezzi di tizzoni fumanti”, come vengono definiti da Dio (cf. Is 7,4-5). Isaia promette ad Àcaz la protezione divina, a condizione però che lui si fidi di Dio e non del re dell’Assiria. Per rassicurarlo il profeta lo invita a chiedere a Dio una prova, a conferma del suo intervento: “Chiedi un segno dal Signore tuo Dio” (Is 7,11). Ma Àcaz, contrariamente alle indicazioni del profeta, si rifiuta di farlo: “Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore” (Is 7,12), e decide così di allearsi col re Assiro[3]. Da qui la reazione piuttosto seccata di Isaia: “Ascoltate casa di Davide! Non siete contenti di stancare la pazienza degli uomini, perché ora vogliate stancare anche quella del mio Dio?” (Is 7,13). Tradotta in altri termini potremmo riformulare il richiamo di Isaia in questo modo: “Insomma, sto facendo di tutto pur di aiutarti, per evitare che la tua decisione conduca te e il regno di Giuda al disastro, ma tu ti ostini a non volerti fidare[4]. Ora basta! Con questo tuo atteggiamento hai stancato non solo me, ma perfino Dio. Tuttavia sappi che nonostante la tua ostinata infedeltà il Signore continuerà a rimanere fedele alla promessa davidica: pertanto, affinché tu creda, egli stesso ti darà un segno: “Ecco: la giovane concepirà e darà alla luce un figlio, e gli metterà nome Emmanuele che significa Dio-con-noi” (Is 7, 14).
La giovane di cui parla Isaia è la moglie di Àcaz, che fino ad allora non gli aveva ancora partorito un erede al trono. Il che ci fa capire che la profezia formulata da Isaia si riferisce ad un evento specifico, storicamente localizzato nel figlio del re Acaz, il quale tra l’altro sarà chiamato Ezechia (Dio mi ha reso forte) e non Emmanuele come previsto dall’oracolo.
Da qui la domanda: come mai allora la “giovane” di cui parla Isaia diventa la “vergine”, di cui parla invece la tradizione cristiana? Ci troviamo davanti ad una questione particolarmente nevralgica dell’interpretazione esegetica. Per rispondere a questa domanda è importante capire l’operazione compiuta dai traduttori della Bibbia dei LXX[5]. Trovandosi davanti al significato del nome dato al bambino: Emmanule = Dio-con-noi, i traduttori compresero che l’oracolo di cui parlava il profeta Isaia andasse oltre l’evento storico, lasciando intuire un significato ben più profondo ed escatologico, comprensibile solo nella luce della promessa davidica: “Quando tu e i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderà stabile il suo regno. Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a te, il tuo trono sarà reso stabile per sempre” (2Sam 7,14.16). Per questa ragione fu ritenuto opportuno tradurre il termine ebraico almàh, che significa giovane, col termine greco parthénos, che significa vergine, ritenendola un’ispirata prefigurazione della nascita miracolosa di Gesù. Su questa base l’evangelista Matteo che utilizza la versione dei LXX, vede nel passo di Isaia l’annuncio profetico della concezione verginale di Gesù, da parte di Maria e guarda a Cristo come il vero Emmanuele, ossia alla vera e definitiva presenza di Dio fra gli uomini[6].
Il silenzio fedele di Giuseppe
La mancata fiducia del re Acaz ci introduce nel brano evangelico, facendoci cogliere immediatamente la differenza tra il suo e il comportamento di Giuseppe, protagonista silenzioso di questo episodio. Anche Giuseppe è attraversato dal dubbio, tuttavia rispetto ad Acaz, anziché fidarsi di un uomo potente, decide di fidarsi totalmente di Dio. Ne scaturisce il profilo di un uomo impregnato di una profonda spiritualità che ha molto da insegnarci sull’arte del discernimento, specie quando come lui, trovandoci in certe situazioni, avvertiamo la sensazione di non avere nessun’ancora di salvezza a cui aggrapparci e Dio si profila come l’unica scelta della nostra fede. Si tratta di un discernimento misterioso, che avviene nel silenzio della notte e più specificamente nei meandri misteriosi del sogno, che simbolicamente allude a quelle regioni misteriose in cui opera lo Spirito.
Ma proviamo a capire più da vicino questa straordinaria figura evangelica. Siamo soliti immaginare Giuseppe come un uomo mite, buono, pio, obbediente. Tutte qualità indiscutibili, ma che non aiutano a far chiarezza sulla qualità della sua fede e del ruolo, apparentemente in ombra, al quale viene chiamata da Dio. Egli si ritrova coinvolto in un piano divino già tracciato, di cui lui si percepisce ai margini. Umanamente parlando avrebbe potuto sottrarsi. Non sono poche infatti le persone che in simili circostanze, motivate anche da un sentimento di orgoglio personale, preferiscono mettersi da parte. Giuseppe invece vive fino in fondo questa lacerazione interiore. Matteo non esita a dire che era giunto perfino alla decisione di “licenziare Maria in segreto” (Mt 1,19). Ma contrariamente alla nostra prassi spirituale egli si lascia condurre dallo Spirito a una comprensione più profonda della situazione imbarazzante nella quale si ritrova. Sarà infatti durante la notte, ovvero nella cella più segreta e misteriosa del cuore, che egli troverà la risposta al suo travaglio spirituale. In un clima di totale apertura interiore lascia che lo Spirito sia libero di agire in lui e, come Maria, riceve l’annuncio dallo stesso Angelo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,20-21).
Dinanzi alla reale possibilità di sottrarsi al disegno divino, senza che nessuno avrebbe potuto rimproverargli qualcosa, Giuseppe ha il coraggio di farsi nulla per Maria e per Dio, convinto com’era che con quel suo atteggiamento avrebbe riscattato la sua situazione. Egli vive fino in fondo la logica manifestativa dello Spirito: nascondersi per mostrare l’altro; non essere per far essere l’altro. Giuseppe accetta di vivere in un totale nascondimento di sé, come condizione per una più totale manifestazione dell’altro. Una qualità spirituale che solo chi conosce la dinamica rivelativa dello Spirito può vivere. Quella di Giuseppe si rivela come la risposta più evangelica alla diffusa tendenza del soggettivismo attuale, secondo il quale l’affermazione di sé passa necessariamente attraverso l’esclusione dell’altro. Una logica relazionale questa purtroppo molto presente anche in ambito ecclesiale, dove il protagonismo assume talvolta forme perfino sprezzanti, spesso dettate da un sentimento di profonda frustrazione interiore.
Con la sua umiltà Giuseppe sembra introdurci nel cuore del mistero dell’Incarnazione e indicarci la via per tradurlo nelle nostre relazioni quotidiane. Egli ci insegna che ci sono scelte di vita, apparentemente assurde, che trovano le loro ragioni solo in quella regione sperduta della nostra intimità profonda, dove solo lo Spirito riesce a convincerci con le sue ragioni e dove solo col silenzio della nostra ragione possiamo farle emergere e comprendere. “Il più alto raggiungimento nella fede - afferma Meister Eckhart - è rimanere in silenzio e far sì che Dio parli e operi internamente”. Giuseppe diventa allora la figura di riferimento per quanti, facendosi nulla nella ragione, trovano, nel silenzio dello Spirito, la ragione della fede. È in questa muta e misteriosa argomentazione spirituale che trova spiegazione il mistero incarnativo di Dio.
Collocata nella 4a Domenica di Avvento la figura di Giuseppe diventa così significativa per ciascuno di noi. Egli ci invita a lasciarci interpellare dal piano rivelativo di Dio, del quale, come ci ricorda Gesù, siamo servi inutili (cf. Lc 17,10), ma che senza il nostro apporto difficilmente Dio potrebbe incarnarsi nel mondo. Egli ci insegna ad essere semplici strumenti di un disegno il cui artista protagonista è Dio. Pertanto anche noi, come lui fa con Maria, siamo chiamati a prendere la Chiesa come nostra sposa. È in questa comunione di vita con lo Spirito nella Chiesa che possiamo rendere feconda la fede nel mondo.
[1] Viene definito “senso pieno” quel significato che esprime il contenuto più profondo di un testo, in quanto esplicita chiaramente la rivelazione di Dio. Esso può essere formulato anche come “senso spirituale”, distinto dal “senso letterale”, poiché la sua comprensione è guidata dallo Spirito Santo (considerato come l’autore principale del testo), il quale orienta l’autore umano nella scelta di quelle espressioni atte ad esprimere una verità divina, anche quando egli non ne manifesta la piena coscienza (cf. Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2018, 76).[2] La sua collocazione storica è molto incerta. Sembra che nasca intorno al 763 a.C. e muoia intorno al 710 a.C. Sale al trono intorno all’età di vent’anni, probabilmente tra il 735/4 e vi rimane fino al 719 a.C.[3] La decisione di Acaz viene pagata a caro prezzo. Il re Assiro infatti scende in guerra e conquista come previsto sia Damasco che Israele, ma riduce anche la Giudea a uno stato vassallo e per giunta introduce nel Tempio un altare dedicato agli dei stranieri. La mancata fiducia in Dio da parte di Àcaz determina nel regno di Giuda una situazione di disastro politico, religioso ed economico, tanto che alla sua morte il re non fu neppure sepolto tra i re d’Israele. Ciò nonostante gli successe il figlio Ezechia.[4] La ragione che spinge Isaia a reagire in questo modo nei confronti di Acaz è dovuta alla sua reale preoccupazione: l’eventuale deposizione del re Àcaz dal trono davidico a favore del figlio di Tabeel, avrebbe compromesso il futuro della dinastia, mettendo fine alla sua discendenza. [5] Viene così definita la traduzione della Bibbia ebraica nella lingua greca, compiuta tra il III e il II sec. a.C., ad opera di settantadue saggi (arrotondato a settanta), che secondo la tradizione, furono convocati dal sommo sacerdote Eleazaro, su commissione del sovrano egizio Tolomeo II (che regnò dal 285 al 246 a.C), nella città di Alessandria, per tradurre i testi ebraici in lingua greca. Stabilitisi nell’Isola di Faro i saggi, ciascuno separato nelle loro celle, completarono in modo indipendente la traduzione in settantadue giorni. Al termine dei quali furono comparate le rispettive traduzioni e si notò che erano sorprendentemente identiche. [6] Cf. A. Schökel – J.L. Sicre Diaz, I Profeti, edizione italiana a cura di Gianfranco Ravasi, Borla, Roma 1989, 160-161.




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