top of page

18/10/2020 - 29a Domenica del Tempo Ordinario - Anno A


Is 45, 1.4-6; Sal 95; Ts 1, 1-5; Mt 22, 15-21

La fede nell’oggi culturale e politico



Tema della 29a Domenica del Tempo Ordinario è il complesso e delicato rapporto tra fede e politica. Un argomento, certo, non semplice e soprattutto di non facile gestione, come manifestano i risultati piuttosto deludenti che emergono dalla storia, durante la quale il rapporto è stato spesso esemplificato o ridotto a favore di una dimensione tutta spirituale e trascendente della vita, oppure a favore di una tutta terrena ed immanente. In realtà questi due estremi esprimono la tensione polarizzante del Regno di Dio, che per Gesù sta nel difficile equilibrio tra “ciò che va reso a Cesare e ciò che è dovuto a Dio” (cf. Mt 22, 21). Fede e politica costituiscono perciò i termini che traducono la duplice dimensione divino-umana del Regno e soprattutto della Persona di Cristo. Ogni cristiano pertanto è chiamato a reinterpretare continuamente questo rapporto nell’oggi della propria vita culturale e sociale. Per questa ragione egli necessita di uno sguardo sapienziale, capace cioè di interpretare la realtà sociale e la storia nella luce del piano salvifico di Dio, come fa il profeta Isaia a proposito dell’esilio babilonese; e come dimostra di avere anche Gesù, nella risposta all’astuta domanda del “tributo a Cesare” che gli viene formulata dai Giudei.

ree

Anche noi, dunque, ci accosteremo a questo tema, convinti della necessità del suo approfondimento e della sua attuazione, oggi, più che mai, nel particolare contesto culturale e sociale nel quale viviamo. E anche se non tutti saremo chiamati ad un simile impegno politico, ci sforzeremo quantomeno di coglierne il senso. Per farlo ritengo opportuno riallacciare il tema alla questione che Gesù sta affrontando con i capi del popolo, i quali, sempre più apertamente, manifestano la loro evidente ostilità alla sua prassi evangelica. L’episodio evangelico che stiamo per considerare infatti scaturisce da tentativo che i Giudei orchestrano per “coglierlo in fallo nei suoi discorsi” (Mt 22, 15). La visione salvifica di Dio che scaturisce dalle sue parabole, sin’ora commentate [cf. Operai della vigna (Mt 20, 1-16); Due figli (cf. Mt 21, 28-32); Vignaioli omicidi (cf. Mt 21, 33-45); Banchetto nuziale (cf. Mt 22, 1-14)], mette seriamente in discussione la prassi religiosa tradizionale e più specificamente la loro dottrina teologica, fondata su un’idea retributiva della giustizia divina, secondo la quale Dio era tenuto a salvare il giusto e a condannare il peccatore, in base al rispetto o alla mancata osservanza delle norme morali e precetti religiosi. Per Gesù invece Dio manifesta la sua identità divina proprio nella manifestazione gratuita e libera del suo amore salvifico. Egli salva indistintamente tutti: buoni e cattivi, gratuitamente, senza esigere alcuna opera morale o religiosa. È nell’amore che Dio rivela pienamente se stesso. Pertanto il criterio con cui lui salva non è quello della giustizia giuridica - che deve a ciascuno il suo - ma quello dell’amore gratuito. Egli non salva perché è giusto, ma è giusto perché salva; allo stesso modo l’uomo non è salvato a causa della sua giustizia, ma è reso giusto perché è stato salvato. La salvezza è un puro atto di grazia divina. Il Dio del Vangelo, infatti, non agisce in base alla categoria della giustizia giuridica, come una sorte di “ragioniere meschino che procede in base ad un mero calcolo razionale” (cf. R. Penna, Lettera ai romani, 300), ma in base all’amore che lo costituisce. Principio primo della salvezza, dunque, è l’amore, nel quale Dio manifesta la sua salvezza giustificante e la sua giustizia santificante.

È alla luce di questa visione di giustizia evangelica che diventa possibile cogliere l’approccio di Gesù alla politica, in quello che costituisce l’unico riferimento biblico che ci è pervenuto. Non disponiamo infatti di altri episodi che ci permettono di ricostruire il pensiero politico di Gesù. Dalla sua prassi evangelica scaturisce infatti il profilo di un uomo che non si lascia inquadrare da nessuna organizzazione politica o sociale. Egli realizza l’immagine dell’uomo religioso secondo il cuore di Dio (cf. 1Sam 13, 14), dell’ uomo cioè integrato nel mondo senza essere tuttavia del mondo. In verità, quella delineata da Gesù è un’immagine che si va dischiudendo lungo tutto l’itinerario della fede biblica, ma con lui raggiunge il suo compimento. Probabilmente è qui la ragione per cui non troviamo nei vangeli alcuna interazione di Gesù con le varie forme di potere politico, sia ebraiche che romane; tantomeno insegnamenti simili risalenti a lui. Perfino al suo ristretto gruppo di discepoli non ha mai dato alcuna struttura organizzativa politica o sociale, o norma giuridica che non sia quella del comandamento dell’amore reciproco (cf. Gv 15, 9-17). A coloro che come i figli di Zebedeo gli “domandano di sedere a destra e a sinistra del suo regno”, che manifestano cioè evidenti interpretazioni politiche nella gestione del Regno di Dio, egli risponde che la forma di potere che deve caratterizzare e regolare la loro vita comunitaria è quella del servizio, svolta secondo la logica del bambino. “I capi delle nazioni dominano sulle persone, ma tra voi non sia così”, “chi infatti vuole essere il primo si faccia servo di tutti” (cf. Mt 20, 20-28). Questa presa di distanza dalla dimensione politica non va certamente interpretata come un disinteresse per la vita sociale, bensì come un reale riconoscimento dell’autonomia delle rispettive sfere; come emerge dal dialogo col governatore Pilato, del quale, pur disapprovando la personale gestione del potere, non mette in discussione l’autorità; ritenuta, al contrario, come proveniente da Dio (cf. Gv 19, 11). Questa concezione politica di Gesù lascia trasparire un evidente richiamo alla visione isaiana della storia, secondo la quale Dio si serve anche del potere politico per orientare e realizzare il suo disegno salvifico nel mondo, come attesta l’interpretazione che il profeta dà della politica internazionale messa in campo dal re Ciro, il quale, con l’editto emanato nel 538 a.C., concede a tutti i popoli deportati in Babilonia di rientrare nelle rispettive terre d’origini. Per questa ragione Isaia giunge perfino a definirlo “Eletto del Signore” (Is 45, 1), titolo riconosciuto solo al Messia o al massimo condiviso dai profeti e re. Anche Gesù al pari del Profeta riconosce nella storia la misteriosa regia di Dio che guida in modo imperscrutabile gli eventi umani, verso il compimento escatologico del suo piano salvifico.

La dimensione trascendente è certamente una qualità specifica della fede ebraica, ma la sua traduzione storica si è rivelata spesso fallimentare, come attestano i vari epiloghi politici a partire dal regno di Saul, le cui realizzazioni hanno assunto spesso forme sincretiste, come dimostra l’esito del regno salomonico. A dire il vero Israele pur disponendo di una straordinaria intuizione teocratica non si è mai distinto nella sua risoluzione sociale, a testimonianza del difficile equilibrio che caratterizza il rapporto tra la dimensione spirituale e quella terrena del Regno di Dio. Un problema questo rimasto irrisolto perfino al tempo di Gesù, quando Israele mal digeriva il dominio dell’Impero Romano, del quale tuttavia si giovava volentieri dei servizi offerti, ostacolandone però l’esazione, come facevano gli Zeloti. Ed è proprio su questo aspetto che viene interpellato Gesù, con una domanda dal sapore fortemente ambiguo: “E’ lecito o no pagare il tributo a Cesare?” (Mt 22, 17). Ma quella domanda che avrebbe dovuto segnare lo scacco di Gesù, si rivela, al contrario, un’ imprevedibile risposta risolutiva all’istanza spirituale-politica del Regno di Dio. A loro avviso infatti Gesù non avrebbe avuto margine di libertà: comunque sarebbe stata la risposta Gesù sarebbe stato criticato e condannato. Egli aveva innanzi una sola alternativa: o disapprovare l’autorità di Cesare o asservirsi ad essa. Nell’uno e nell’altro caso essi avrebbero avuto di che accusarlo: di cospirazione sovversiva, se avesse criticato l’autorità di Cesare – come accadrà anche al momento della sua condanna a morte (cf. Lc 23, 2) – di collaborazione e di asservimento al potere politico, se avesse manifestato idee di approvazione. Gesù invece con un’argomentazione che rivela un’ineffabile sapienza, smaschera l’intenzionalità politica nell’architettura dei loro ragionamenti ipocriti e, con un inaspettato gesto, chiede una moneta, della quale domanda l’identità dell’immagine rappresentata. Essi rispondono: “di Cesare”. Allora, egli replica: “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 22, 21). Il che equivale a dire: se Cesare vi offre dei servizi sociali di cui voi beneficiate, allora è giusto che gli rendiate il tributo; di pari, sappiate essere riconoscente a Dio per il dono della vita di cui solo lui dispone il potere. Riconoscete perciò all’autorità politica la sua autonomia nella gestione della ‘cosa pubblica’e a Dio l’autonomia nella gestione della vita e della storia. L’uomo, infatti, tanto sotto l’aspetto della vita personale quanto quella comunitaria, è irriducibile ad una delle due dimensione. Esse non sono esclusiviste, ma integrative. La loro polarità si realizza nell’unità della divino-umanità, costitutiva del Regno di Dio e che Cristo realizza nell’unica sua persona divina. Fede e politica contribuiscono perciò alla realizzazione della vita integrale dell’uomo.

La tentazione di ridurre il Regno di Dio all’una o all’altra dimensione è sempre in agguato, come attestano le diverse interpretazione che si sono sviluppate nel corso della storia. Gesù stesso ha faticato non poco a convertire i suoi discepoli alla mentalità del Regno, i quali fino al giorno dell’Ascensione hanno continuato ad intendere il Regno di Dio come regno d’Isreale e a sperarne la sua realizzazione terrena (cf. At 1, 6). Anche i cristiani, nel corso della storia, non sempre sono riusciti a conservare l’alto profilo morale e spirituale di Gesù; piuttosto hanno dovuto reinterpretare continuamente questo rapporto in riferimento alla forma politica con la quale hanno interagito. Lo sforzo di tradurre la fede in politica rivela evidentemente il difficile compito di conferire alla dimensione spirituale una forma istituzionale, grazie alla quale diventa possibile ‘assicuragli’ un riconoscimento giuridico nel mondo. La stessa Chiesa si è ritrovata costantemente coinvolta in questo processo istituzionale, al fine di per poter interagire con i vari Stati. Ma è proprio qui che si insinua la tentazione di manifestarsi nella veste politica più che in quella spirituale, come attestano anche alcune ambigue forme di rapporto istituzionale, che apparentemente sembrano offrire risultati positivi, ma spesso scivolano in evidenti effetti negativi. È chiaro dunque che l’uniformità tra le due dimensioni genera solo confusioni, che nella maggioranza dei casi porta a vere e proprie forme di corruzioni, come attestano anche i recenti scandali economici.

Il credente, come Gesù, è chiamato perciò a stare nel mondo senza essere del mondo (cf. Gv 17, 11), a vivere la città, pur sapendo che la sua patria è il cielo, come afferma il mirabile equilibrio delineato dalla lettera a Diogneto.

Commenti


© Copyright – Luigi RAZZANO– All rights reserved – tutti i diritti riservati”

  • Facebook
  • Black Icon Instagram
  • Black Icon YouTube
  • logo telegram
bottom of page