17 Ottobre 2021 - XXIX Domenica del Tempo Ordinario Anno B
- don luigi
- 16 ott 2021
- Tempo di lettura: 5 min
Is 53,10-11; Sal 32/33; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45
“Chi vuol diventare primo … sia l’ultimo”
Il paradosso della vita ecclesiale

“Maestro vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo” (Mc 10,35) è la domanda che Giacomo e Giovanni pongono a Gesù, in una circostanza tutt’altro che tranquilla e serena. Essi infatti erano in viaggio verso Gerusalemme, durante il quale Gesù, per la terza volta, preannuncia la sua passione e morte (cf. Mc10,32-34). Di contro, loro chiedono al maestro: “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra” (Mc 10,27).
Quella manifestata da discepoli è l’antica tentazione che serpeggia nel cuore di tanti di noi, che ci fa ambire al potere e al dominio sull’altro, come ostentazione di una supremazia personale. Essa è sempre in agguato e affiora anche in coloro che hanno deciso di porsi alla sequela di Cristo. Ne è prova questo brano evangelico, dove due dei discepoli più fidati di Gesù giungono perfino a strumentalizzare il rapporto col maestro, pur di conquistarsi un ruolo di prestigio all’interno del regno di Dio, immaginato ancora come un luogo socio-politico.
Il tono presuntuoso e arrogante di questa richiesta è fin troppo evidente, tanto da suscitare la naturale indignazione degli altri discepoli (cf. Mc 10,41), i quali, evidentemente, animati dagli stessi desideri e dalla stessa logica relazionale, non ci stavano affatto all’idea di essere scalzati da due. Da qui l’intervento di Gesù che coglie l’occasione per fare luce sul clima relazionale che dovrebbe caratterizzare la sua piccola comunità evangelica. È chiaro che quello che Gesù dice in questa circostanza vale anche per tutte quelle comunità ecclesiali che da lì in poi cominceranno a sorgere e a svilupparsi nel corso della storia. La risposta di Gesù pertanto contiene i principi non solo della relazione evangelica, ma anche di quella umana e sociale, e ciò vale per ogni area geografica, contesto culturale ed epoca storica. Essi sono alla base della stessa vita ecclesiale, che per quanto manifesta un’insostituibile forma gerarchica, al pari di tutte le altre istituzioni umane, è intrinsecamente diversa dalle altre, per quella imprescindibile dimensione d’amore divino di cui Gesù l’ha impregnata.
“Tra voi però non è così” (Mc 10,43) è il termine di confronto che Gesù prende come riferimento per i suoi discepoli. Rispetto alle istituzioni nazionali dove i capi esercitano il loro potere dominando sugli altri (cf. Mc 10,42), essi, pur chiamati a governare dovranno esercitare il proprio ruolo non già come una forma di prestigio personale, ma come servizio. Quello proposto da Gesù non è un servilismo che scaturisce dalla viltà, tanto meno da un sistema sociale feudale fondato sull’obbedienza cieca al proprio signore, ma di un modo di esercitare l’amore evangelico nell’ambito della comunità umana. Rispetto al servo che è tenuto all’obbligo del suo dovere ed è privato della sua dignità, il discepolo esercita il proprio servizio sulla base di una scelta libera e volontaria, rendendosi totalmente disponibile alla volontà di Dio. Gesù non chiede ai suoi di soffocare il desiderio di primeggiare sugli altri, ma di trasformare questo desiderio in un primato dell’amore: “Chi vuol diventare grande tra voi sarà servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti” (Mc 10,43-44). Perciò essi dovranno essere animati dallo stesso desiderio del maestro: vivere la vita come dono di sé all’altro. Egli infatti “non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). Un’autentica consegna di sé al servizio evangelico, inteso come forma di riscatto di quell’antica tentazione del nemico che vuole porre continuamente Dio al nostro servizio e strumentalizzare gli altri al proprio interesse. La strumentalizzazione di Dio e degli altri è la tentazione contro la quale Gesù stesso ha dovuto lottare sia all’inizio del suo ministero pubblico, contro la quale non c’è altro rimedio se non quello di consegnarsi totalmente all’opera dello Spirito di Dio (cf. Mt 4,1-11). L’amore costituisce per Gesù l’ambito nel quale, dove più di tutti, l’uomo è chiamato a decidere la propria esistenza e a progredire nella vita relazionale. Nulla più dell’amore offre all’uomo la possibilità di sperimentare la pienezza della propria vita.
Per comprendere questa visione relazionale di Gesù si rivela interessante l’atteggiamento pedagogico che egli assume nei confronti di Giacomo e Giovanni. Egli avrebbe potuto sferzare i due con un rimprovero sonoro e invece, senza reprimere la loro voglia di protagonismo, pone loro una domanda, nel tentativo di ricondurli alla radice della loro richiesta: “Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?” (Mc 10,38). Domanda che apparentemente sembra non avere nessuna attinenza con la richiesta dei discepoli, ma in realtà svela i pregiudizi che i due continuano ad avere sul regno di Dio e indica la via per accedervi. Perché Gesù parla di “calice” e di “battesimo”? Cosa significano? Il calice indica la passione, mentre il battesimo la morte. Non si può accedere al regno di Dio senza avere queste due condizioni, ovvero senza rinnegare se stessi fino a morire al proprio io e senza condividere la via della croce percorsa da Gesù. Passare attraverso il battesimo significa decidersi fino in fondo per la logica messianica di Gesù.
Malgrado l’insegnamento del maestro, i due discepoli continuano a confondere il regno di Dio col regno di Israele e a identificare il Messia con la figura del re politico. Essi infatti avevano davanti a loro l’immagine dei vari re che si erano susseguiti nella storia nel regno d’Israele: Saul, Davide, Salomone … da qui l’idea che per essere membri di questo regno occorreva esercitare un governo nella forma del comando, col quale dominare, assoggettare, sottomettere gli altri a sé. Stare alla destra e alla sinistra significa voler condividere il potere del governo.
Gesù invece fa capire loro che la vita di Dio, anche se viene qualificata in termini di regno, è di tutt’altro genere. In Dio non esiste una monarchia alla maniera regale ed umana, di chi cioè esercita un dominio sugli altri assoggettandoli a sé attraverso il comando e l’obbedienza. La sua è sì una gerarchia, ma una gerarchia d’amore; per vivere secondo la quale occorre seguire la via messianica tratteggiata dal profeta Isaia nel suo carme, dove il messia viene ritratto con l’immagine del servo sofferente (cf. Is 53,10-11). Un’immagine questa che provoca una terribile frizione con quella che i discepoli erano soliti avere del messia.
Ma quella proposta da Isaia non è forse una logica perdente? E la sofferenza che Gesù ritiene necessaria non è forse causa di emarginazione, di disprezzo sociale e culturale? E come mai Gesù, pur disponendo di un potere divino, con cui esercitare un’affermazione personale e sociale, se ne priva, ponendosi al servizio degli altri? Non è facile rispondere a queste domande se non all’interno di un orizzonte d’amore, per il quale la sofferenza costituisce la condizione più autenticamente umana che Gesù ha voluto assumere per realizzare il piano salvifico del Padre. Nulla infatti più della sofferenza accomuna gli uomini tra loro nella condizione della fragilità umana. Gesù incarnandosi decise di salvare non dall’esterno, alla maniera mosaica mediante la Legge, ma dall’interno, permettendo all’uomo di partecipare liberamente e volontariamente al disegno d’amore di Dio, accettando la propria condizione e assumendosi la responsabilità del proprio peccato, compresa la conseguenza della sofferenza. Divenendo una sola cosa con l’uomo Cristo insegna, a ciascuno che aderisce al suo Vangelo, a fare propria la sofferenza come forma di riscatto morale e spirituale. Egli – come afferma l’autore della lettera agli Ebrei – “ha preso parte alle nostre debolezze, essendo stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (cf. Eb 4,15). Ogni volta dunque che affiora in noi il desiderio di primeggiare sugli altri o siamo attraversati dalla tentazione di strumentalizzarli ai nostri fini, sappiamo che quello è il momento opportuno per trasformare la tentazione in un’occasione d’amore evangelico, sostituendo al dominio la cura, al disprezzo l’attenzione, all’indifferenza l’interesse, allo sdegno la dedizione, al possesso il dono, alla conquista la consegna, all’odio l’affetto. “Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno” (cf. Eb 4,16).




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