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17 Novembre 2024 - Anno B - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario


Dan 12,1-3; Sal 15/16; Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32




L’attesa di Cristo


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Salvador Dalì, Il disfacimento del tempo (1954), Museum of Modern Art, New York (?)

“In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, e la luna non darà più la sua luce, e le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria … quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino …” (Mc 13,24-26.29).

“In quel tempo … vi sarà grande angoscia … il tuo popolo sarà salvato … Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e … infamia eterna” (Dan 12,1-2).

È interessante notare come man mano che ci avviciniamo alla fine dell’Anno liturgico la Chiesa ci propone brani biblici dal sapore escatologico, tutti orientati all’attesa della seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi. Noi cogliamo l’occasione per rimettere al centro della nostra attenzione questa fondamentale dimensione della fede e della speranza, quale è appunto l’attesa, che nell’attuale mentalità culturale, tutta concentrata nel presente, sembra sia stata svuotata di ogni significato teologico. Tutt’altra invece è la mentalità evangelica, dalla quale noi l’attingiamo, dove risulta fortemente caratterizzata da una tensione volta alla manifestazione futura di Cristo. Si capisce allora il senso di questi brani biblici, il cui scopo è quello di favorire l’acquisizione dei quei criteri di discernimento e del relativo linguaggio comunicativo, con cui la Chiesa intende insegnarci a riconoscere la presenza di Cristo in questi eventi escatologici. Non da meno sono poi i termini che siamo impegnati a conoscere per assimilare questo tipo di mentalità escatologica. I più ricorrenti, in questo tempo liturgico, sono senza dubbio quelli di escatologia ed apocalisse. Da qui l’esigenza di una previa spiegazione. A dire il vero ci sorprende un po’ il fatto che essi, pur facendo parte della nostra fede, sembrano essere scomparsi dal nostro vocabolario, o assunto significati del tutto estranei alla nostra fede. Basti pensare che il termine apocalisse viene associato immediatamente a tragedia e catastrofe. Si tratta di termini per nulla semplici, né comuni al nostro patrimonio culturale attuale[1], e tuttavia rilevanti per interpretare quegli eventi cosmici e storici che precedono la venuta di Cristo alla fine dei tempi. Escatologia, per esempio, deriva dal greco éscatos che significa “ultimo” e lógos che significa “discorso”. Letteralmente il termine equivale a “discorso intorno alle cose ultime”. Apocalisse deriva anch’esso dal greco apó che significa “da” e kalýpto che significa “nascosto”. Letteralmente il termine indica l’azione di “togliere il velo”, ovvero “svelare”, da qui il significato di rivelazione delle cose ultime e definitive dateci da Cristo. Per questa ragione il termine apocalisse si riferisce agli eventi escatologici degli ultimi tempi, intesi come segni rivelativi della venuta di Cristo. L’evangelista Giovanni dedica un intero libro a questi eventi, il cui titolo è Apocalisse di Giovanni, come a lasciarci intendere che anche altri autori hanno scritto in merito. Prima di lui, infatti, profeti come Daniele, hanno parlato di questi eventi dandone un’interpretazione.

Con questi termini la Chiesa intende, dunque, educarci ad avere una visione unitaria e universale e soprattutto teologica della storia. Secondo la teologia biblico-cristiana, infatti, la storia, non va intesa solo come una successione di eventi casuali e neppure di fatti che trovano solo nelle scelte umane il loro senso, ma come il dipanarsi misterioso di un piano salvifico di Dio, che orienta, dà senso, pienezza e compimento agli eventi umani e cosmici[2]. Essi ci propongono una visione della storia dal punto di vista di Dio, senza tuttavia escludere quella storiografica[3]. Un approccio che è possibile acquisire attraverso la comprensione della Parola di Dio, intesa come Verbo (ragione divina) che dà senso alle cose, fuori del quale tutti gli eventi, come lo stesso linguaggio che li descrive, risultano praticamente incomprensibili e privi di senso. San Giovanni e san Paolo ci parlano di questo Verbo, in termini di Cristo, come di Colui per mezzo del quale e in vista del quale tutto è stato fatto di ciò che esiste (cf. Gv 1,3.10; Eb 1,2; Col 1,16; 1Cor 8,6), e nel quale ogni cosa trova il suo compimento. Non a caso, nell’ultima domenica del tempo Ordinario, la Chiesa ci fa celebrare la solennità di Cristo Re dell’Universo.

In effetti gli eventi descritti in questi brani biblici ci risultano piuttosto impressionanti e sconvolgenti. Nonostante ciò la Chiesa ce li ripropone con frequenza, alla fine di ogni anno liturgico. Essi riguardano il destino ultimo dei singoli individui, del genere umano e persino e dell’universo intero (cf. Mc 13,24-25). Si tratta di eventi nei quali ciascuno è chiamato a rendere conto della propria condotta morale e delle proprie scelte esistenziali (cf. Mc 13,26-27).

Ma quando accadranno questi eventi? E come faremo a capire che essi preannunciano la venuta di Cristo? È curioso notare che queste domande siano state poste, prima di noi, anche dalle generazioni che ci hanno preceduto e perfino dagli apostoli, i quali, preoccupati di un eventuale esito imprevisto della loro vita, chiedono a Gesù: “Dicci quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo” (Mt 24,3). A questa domanda, che noi prendiamo dall’evangelista Matteo, e che Marco pone nel contesto della distruzione del tempio (Mc 13,4), Gesù risponde in modo sorprendente, quasi da lasciarci spiazzati e perplessi: “Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo, né il Figlio, eccetto il Padre” (Mc 13,32). Più che al quando Gesù sembra interessato al comeavverrà la fine dei tempi, e soprattutto ci appare impegnato a trasmetterci i criteri con cui interpretarli. Da qui la sua attenzione volta al riconoscimento dei segni: “Quando il ramo del fico diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli (Cristo) è vicino, è alle porte” (Mc 13,28-29). Si capisce allora che attraverso il linguaggio apocalittico Gesù non intende dirci esattamente il tempo cronologico in cui queste cosa accadranno, ma insegnarci a interpretare i segni dell’azione di Dio nella storia e nel cosmo. Questa sua premura nasce dalla consapevolezza che tutta la realtà, al di là delle ineludibili scelte umane, è misteriosamente condotta da Dio verso un resoconto finale – che siamo soliti definire Giudizio Universale – nel quale ciascuno, in modo inequivocabile e inconfutabile, avrà la possibilità di prendere coscienza del senso e dell’esito della propria esistenza. Tutti saremo chiamati a rispondere delle nostre scelte di vita.

Ed è intrigante notare in questi testi l’interpretazione che viene data dell’evento della risurrezione. Già a suo tempo Daniele sosteneva che “in quel tempo … molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna” (Dn 12,2). Un aspetto questo che verrà ripreso e ribadito anche da Gesù: “Non vi meravigliate di questo, perché verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita, quanti fecero il male per una risurrezione di condanna” (Gv 5,28-29)[4]. In altre parole la risurrezione è un evento che riguarderà tutti i popoli: “Giudeo o Greco” dice Paolo, “poiché Dio non fa preferenza di persone” (Rm 2,9-11), ma non per tutti avrà lo stesso esito. L’una o l’altra possibilità dipenderà dalla nostra relazione con Cristo, termine ultimo di riferimento della Verità, con la quale ciascuno dovrà inevitabilmente confrontarsi.

Pertanto il discernimento si rivela decisivo e fondamentale per ben interpretare questi eventi. Gesù ci dice che essi saranno motivo di terrore per quanti dispongono solo di una visione terrena e immanente della storia; motivo di speranza e liberazione imminente, per coloro, invece, che si sforzano di interpretarla alla luce del piano salvifico di Dio, poiché essi costituiscono segni dell’imminente venuta di Cristo: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21,28).  Discernere comporta allora il compito di saper cogliere negli eventi della storia la presenza operante di Dio e l’approssimarsi della venuta di Cristo. Gesù, con l’esempio del fico, ci vuole suggerire un modo per acquisire questo metodo. Si tratta allora di imparare ad osservare attentamente i cambiamenti della natura: come i primi germogli del fico ci fanno capire che l’estate è vicina, allo stesso modo dovremmo capire che, quando cominceranno ad accadere queste cose, la venuta di Cristo è imminente, sebbene la sua presenza rimanga misteriosa, come suggeriscono le nubi che avvolgono la sua venuta[5]. 

Questa capacità di discernimento può risultare irrilevante, per molti di noi, invece, vissuta nel quotidiano può comportare enormi giovamenti: una stessa esperienza dolorosa, per esempio, può rivelarsi per alcuni motivo di angoscia e disperazione, per altri può diventare l’occasione di un rinnovamento interiore. La stessa esperienza di morte può essere intesa da alcuni come il totale disfacimento della vita, per altri invece come la condizione per accedere all’eternità (cf. Sal 15/16). L’una o l’altra possibilità dipende dal senso che attribuiamo agli eventi, alle circostanze, alle relazioni. E il senso non dipende solo dalla nostra intelligenza, ma anche dalla nostra relazione con Cristo. La sofferenza che molto spesso sperimentiamo in certe situazioni, non dipende solo dalla gravità della prova, come può essere il dolore fisico, psicologico o spirituale, ma dalla mancata capacità di dare senso alle cose. A livello religioso un simile discernimento può abituare le persone a riconoscere la misteriosa presenza dello Spirito nella vita quotidiana, che guida la storia verso la definitiva manifestazione di Cristo. Questa è la verità di fede che dà speranza a chi crede, come attestano le parole di Gesù: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Mc 13,31).

Alla luce di questo commento comprendiamo meglio la preghiera, formulata nella Colletta: “Signore accresci in noi la fede, ravviva la speranza e rendici operosi nella carità, mentre attendiamo la gloriosa manifestazione del tuo Figlio”, con la quale la Chiesa ci predispone a vivere questo scorcio d’anno liturgico, prima della celebrazione dell’Avvento. Fede, speranza e carità sono gli atteggiamenti essenziali che devono caratterizzare la nostra attesa di Cristo, nell’oggi della nostra vita ecclesiale e sociale. A noi decidere la qualità e l’esito della nostra attesa. 


[1] Nell’attuale contesto culturale, questi termini e linguaggi esulano dalla nostra mentalità, abituata ad un sapere scientifico che ha pressoché sradicato, dalla nostra memoria spirituale, quella sensibilità simbolica, con cui la Bibbia è solita parlare del futuro del mondo. Perciò essi ci appaiono spesso fuori luogo, o riservati solo a pochi specialisti. Non mancano, tuttavia, forme di interesse o di ambigua curiosità intorno ad essi, come attesta una certa letteratura cinematografica, dalla quale, a dire il vero, ne emerge una visione alquanto distorta.

[2] In altri termini si tratta di capire se la storia va verso il suo compimento o verso la sua dissoluzione. Per la mentalità ebraica il creato, la vita, la storia non sono aspetti della fatalità del caso, ma hanno un senso e quindi un orientamento verso il loro compimento. Questo senso tuttavia per quanto sia insito nel creato, necessita di una chiave interpretativa per coglierlo: il Verbo di Dio. È la Parola che dà senso. Fuori di essa c’è il non senso o più specificamente il nulla. La questione è capire se il senso e il compimento sono all’interno della storia o fuori di essa. Nessuno di noi ha la certezza dell’una o dell’altra interpretazione. Alcuni ritengono che il senso della vita sia immanente, altri invece ritengono che sia trascendente. Dov’è la verità? Questa non è sempre chiara ed evidente, neppure ai cristiani. Al contrario spesso è celata dietro eventi, circostanze dolorose, pieghe e piaghe della storia, che si manifestano nelle relazioni interpersonali e internazionali. Essa è ancora più enigmatica per chi ha una visione solo immanente della vita e della storia. Da qui la necessità di uno sguardo escatologico, capace di estendere il proprio orizzonte a quello divino, come propone la teologia.

[3] Spesso i termini storia e storiografia vengono usati come sinonimi, in realtà c’è differenza tra di loro. Per storia s’intende l’insieme dei fatti accaduti, mentre per storiografia s’intende l’interpretazione di questi stessi fatti, attraverso la spiegazione dei documenti che li descrivono.

[4] Una simile interpretazione la troviamo anche in Paolo nella lettera ai Romani 2,5-11.

[5] La nube sottolinea il carattere misterioso di questa venuta. Gesù infatti parla di sé come del Figlio dell’uomo che verrà nelle nubi e non sulle nubi, come traducono alcuni, ovvero dal cielo e in modo misterioso.

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