17 Gennaio 2021 - 2° Domenica del Tempo ordinario - Anno B
- don luigi
- 17 gen 2021
- Tempo di lettura: 7 min
1Sam 3,3b-10.19; Sal 39/40; 1Cor 6,13c-15°-17-20; Gv 1, 35-42
Chiamati a dimorare in Cristo

Dopo lo straordinario evento dell’Incarnazione, la Chiesa ci introduce nella liturgia del Tempo Ordinario con il racconto di alcune chiamate, come a voler dire che non è possibile continuare l’opera incarnativa di Dio nel mondo se non a partire da una chiamata personale. Noi cercheremo di cogliere questa opportunità che la Chiesa ci offre, per imparare a riconoscere l’origine divina della chiamata, la dinamica con cui si dispiega nella nostra vita spirituale, i criteri per discernerla, le sue possibili attualizzazioni nella vita.
Prima di introdurci nel tema, però, vorrei offrirvi alcune indicazioni metodologiche, nella speranza che esse vi aiutino ad acquisire – come afferma san Paolo – quell’intelligenza spirituale che vi permette di giungere ad una più profonda conoscenza della volontà di Dio, così da essere ricolmi del suo Spirito di sapienza (cf. Ef 1,17; 4,13; Col 1,9). A questo scopo vi invito a meditare e pregare con calma sui brani biblici che ci vengono proposti, per cogliere anche quello che gli autori lasciano intendere tra le righe. Nel caso in cui il testo lo richiede – come il brano di Samuele – potete estendere la vostra lettura anche ai capitoli precedenti e successivi, per avere un quadro più generale della sua storia; oppure confrontare la sua chiamata con quella di altre figure profetiche importanti nella Bibbia. Lo stesso vale anche per il racconto di Giovanni: accostarlo a quello degli altri evangelisti aiuta a capire non solo gli aspetti specifici di ogni chiamata, ma anche la sensibilità teologica e spirituale del narratore. È importante questa operazione perché nessuna chiamata nasce in modo estemporaneo, come dal nulla, ma si inserisce sempre in un preciso contesto storico, in risposta ad alcune situazioni particolari, spesso anche dolorose, come quella della mamma di Samuele.
Proviamo dunque, sulla base di questi racconti, a individuare quelle condizioni fondamentali che ci permettono di riconoscere la chiamata di Dio anche nella nostra vita e di capire come essa possa costituire il presupposto per una scelta di totale consacrazione a Dio. Lo facciamo partendo da una brevissima annotazione sulla situazione critica della vita religiosa al tempo di Samuele, con la quale l’autore del libro sembra farci cogliere la ragione che ha permesso l’insorgere della vocazione profetica presso il popolo d’Israele. “La parola del Signore era rara in quei giorni” (1Sam 3,1). In un primo momento questa espressione sembra lasciar intendere un silenzio piuttosto prolungato di Dio, in realtà essa ci suggerisce un significato più profondo. La “rarità”, della quale parla l’autore, non è tanto riferita alla parola di Dio, quanto piuttosto alle persone capaci di ascoltarla, interpretarla e annunciarla. E chi più di un profeta è chiamato a compiere una simile missione. Riformulando l’espressione potremmo dunque dire: “Le persone che potevano proclamare la parola di Dio erano rare in quel tempo”. Da qui la necessità della vocazione profetica, il cui specifico non è quello di “presagire” il futuro, quanto quello di parlare a nome di Dio. Il che comporta la capacità di cogliere i segni della sua presenza nel mondo, interpretare il senso della sua azione nella storia, prevedere le conseguenze in base alle scelte degli uomini.
Una situazione religiosa dunque del tutto analoga alla nostra, specie se consideriamo la scarsità delle “figure profetiche” anche nel nostro contesto culturale, sociale e religioso. È chiaro che non si tratta di rispolverare un fenomeno del passato, che ha svolto sì un ruolo fondamentale, ma unico e irripetibile nella storia del popolo di Dio. In Cristo siamo già tutti profeti, in quanto portatori di una verità che si va dispiegando nel tempo. La nostra dunque non è un’operazione archeologica, ma formativa. Si tratta di educare le persone a vedere la vita dal punto di vista di Dio. Un compito niente affatto facile, neppure per Samuele. Perciò è importante vedere come Dio lo ha formato. L’autore del libro ci lascia intendere che Samuele viene gradualmente educato a questo sguardo sin dall’infanzia quando, su voto della madre Anna, viene consacrato al servizio di Dio nel tempio. Una formazione che avviene all’interno di un contesto religioso, nel quale si staglia la figura di Eli. Da lui apprende l’arte del discernimento spirituale, ovvero la capacità di distinguere, sulla base di alcuni criteri, le numerose voci che pullulano nel cuore dell’uomo. Non si tratta di un’abilità tecnica, ma di una qualità che scaturisce dalla prolungata familiarità con la vita di Dio. Discernere significa capire l’origine di una voce: essa può venire da Dio, dall’io, dalle persone o dal nemico. Samuele ha faticato non poco ad acquisire quest’arte. Dio ha dovuto chiamarlo per ben quattro volte (cf. 1Sam 3,4.6.8.10) prima che lui cominciasse a riconoscere l’origine divina della sua vocazione. Infatti nelle prime tre volte confonde la voce di Dio con quella di Eli. L’insistenza diventa così anche un criterio per capire se una voce viene da Dio o meno. Di solito quando viene dall’io, dal nemico o dalle persone, tende ad affievolirsi, o scomparire del tutto, nel tempo. Samuele invece viene non solo confermato in essa da Eli, ma diventa persino l’interprete più autorevole della Parola di Dio presso il popolo (cf. 1 Sam 3,19).
Alcuni aspetti emergono da questo racconto che sottopongo alla vostra attenzione: la drammatica situazione sociale del popolo d’Israele che determina per certi versi l’insorgere della vocazione profetica di Samuele; l’imprescindibile ruolo del contesto religioso nel quale egli matura la sua chiamata; l’insostituibile presenza di Eli che lo introduce nella dinamica della vita spirituale, educandolo all’arte del discernimento; la docilità con la quale Samuele si lascia condurre dallo Spirito nella scoperta di una vocazione, praticamente, nuova nel panorama religioso israelitico.
Non è difficile collegare questi aspetti a quelli che caratterizzano la nostra attuale realtà sociale, culturale ed ecclesiale. Basti considerare la drammatica crisi pandemica, nella quale più che mai si avverte la necessità di figure capaci di farsi interpreti dei segni dei tempi che la caratterizzano; il contesto ecclesiale, nel quale, attraverso le diverse vocazioni (matrimonio, ordine e consacrazione religiosa), tanti credenti contribuiscono ad incarnare il Vangelo nei vari ambiti della vita umana; a quelle figure, come i padri o le madri spirituali, ahimè sempre più rare, che in modo discreto e silenzioso, favoriscono e promuovono lo sviluppo dell’azione dello Spirito; a quelle persone che, come Samuele, continuano, sia pure tra mille avversità, a lasciarsi interpellare dalla voce di Dio e ad inoltrarsi nella divina avventura del Vangelo.
Se la vocazione di Samuele ci fa cogliere la dimensione personale della chiamata quella di Giovanni e Andrea determina una vera e propria svolta spirituale. È interessante notare come essa venga favorita dal Battista, che presenta molte affinità con Eli. All’origine della nostra fede c’è spesso la testimonianza di un Battista, ovvero di qualcuno che ci ha preceduto. Dio opera nella nostra vita attraverso la loro parola, il loro esempio, il loro annuncio profetico. Si tratta di un cammino misterioso che segna come pietre miliari la nostra ricerca di Dio. Anche lungo il nostro cammino, Dio ha posto un Giovanni Battista che ci ha insegnato i criteri per imparare a riconoscere la presenza di Cristo nella vita personale e sociale, come evidenzia Andrea, quando per primo comunica al fratello Simone la propria scoperta del Messia (cf. Gv 1, 41). Il Battista trasmette questa esperienza di fede ai suoi discepoli, aiutandoli a determinare il passaggio dalla sua sequela alla sequela di Cristo. Questo passaggio è fondamentale perché può aiutarci a capire quello al quale, più che mai, tutti siamo chiamati a compiere nell’oggi della nostra vita ecclesiale: da una religione tradizionale, nella quale siamo cresciuti, ad una fede personale libera e liberante. Da una spiritualità individualista, con la quale abbiamo pensato di salvarci da soli, in forza del nostro impegno morale, ad una spiritualità ecclesiale, caratterizzata da relazioni trinitarie. Attraverso il Battista essi scoprono che la fede è innanzitutto una relazione viva e concreta con l’uomo Gesù, del quale ci si pone alla sequela perché mossi dall’amore che lui esercita nei loro confronti. Questo è il vero processo di conversione che deve avvenire in chiunque si approccia a Cristo. Cristo è, al contempo, il compimento della ricerca personale e l’inizio della fede ecclesiale.
Quest’incontro provoca una domanda da parte di Gesù: “Che cosa cercate?” e una contro domanda dei discepoli: “Maestro dove dimori?”. Si tratta di due domande particolarmente significative, perche ci invitano a scendere ancora più in profondità nel nostro cammino di fede. Ci saremmo aspettati che Gesù avesse chiesto: “Chi cercate?” e invece domanda: “Che cosa cercate?”. La domanda di Gesù si rivela molto più pertinente rispetto alle nostre aspettative. I discepoli infatti non avevano più bisogno di capire chi fosse Gesù, dal momento che il Battista lo aveva indicato loro come “L’Agnello di Dio” (Gv 1, 29). Ne conoscevano già l’identità. Ora avvertono una maggiore esigenza: vogliono dimorare con lui, abitare nella sua stessa casa, stare perennemente con lui, partecipare della sua stessa vita. Ecco cosa nascondono queste due domande. La vera dimora che i due discepoli chiedono non è una casa fisica, per altro Gesù non disponeva neppure di un cuscino dove posare il capo (cf. Lc 9, 59), ma la sua relazione col Padre. È questa la dimora nella quale i discepoli chiedono di entrare. I discepoli cercavano dove sta di casa la Parola, luce della loro vita. Solo lì essi sono a casa. Andare a Gesù significa aderire a lui per partecipare della sua relazione col Padre e condividere la sua stessa vita divina. Egli ci invita a partecipare alla comunione con lui, per essere anche noi là dove lui da sempre è: presso il Padre. La vera dimora di Gesù è la sua comunione col Padre. Lì è anche la nostra. “Se uno mi ama … anche il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (cf. Gv 14, 23).
In questo senso il “vedere” a cui Gesù li invita non è solo azione dell’occhio fisico, ma soprattutto di quello interiore. La luce interiore dello Spirito illumina di senso la Parola. Il verbo “vedere” in Giovanni, perciò, è carico di significato: è l’illuminazione di chi “conosce” il Figlio dell’uomo. Il verbo viene usato da Giovanni anche nei racconti delle apparizioni, quando Giovanni entrato nel sepolcro con Pietro “vide e credette” (Gv 20, 8). Si tratta di un vedere che fa sfociare la ricerca nella fede. “Venite e vedrete” diventa perciò l’invito che Cristo rivolge ad ogni lettore, suscitando la curiosità e stimolando la ricerca.
Proviamo ora per un attimo a calarci nei panni di questi due discepoli e a rispondere ad alcune possibili domande che Gesù potrebbe farci, oggi: Cosa cerchi? Cos’è che vuoi veramente dalla vita? Dove stai orientando la tua ricerca? Da chi attendi una risposta? Chi potrà dare senso e compimento alle tue domande?Al posto dei due discepoli ti saresti lasciato coinvolgere dalla rinnovata visione di Dio proposta dal Battista? Avresti avuto il coraggio di lasciarti provocare dalle sue intuizioni? Non so se questi interrogativi ci porteranno a compiere scelte di vita evangelica, ma quanto meno mi auguro che esse ci aiutino ad avere il coraggio di lasciare quel modo generico e vago di cercare Dio, quel modo tradizionale e abitudinario di vivere la fede, ed essere più determinati nelle nostre decisioni, attenti alle necessità della Chiesa e del mondo.




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