17 Dicembre 2023 - Anno B - III Domenica di Avvento
- don luigi
- 16 dic 2023
- Tempo di lettura: 10 min
Is 61,1-2.10-11; Sal da Lc 1,46-54; 1Ts 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28
Giovanni: l’uomo dell’Avvento

“E questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono … sacerdoti e leviti a interrogarlo: Chi sei tu? Egli confessò (e disse): Io non sono il Cristo. Allora gli chiesero: Che cosa dunque? Sei Elia? Rispose: Non lo sono. Sei tu il profeta? Rispose: No. Gli dissero dunque: ‘Cosa dici di te stesso? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Rispose: Io sono voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, come disse il profeta Isaia. Essi lo interrogarono e gli disserro: Perché dunque battezzi se tu non sei il Cristo, né Elia, né il profeta? Giovanni Rispose loro: Io battezzo con acqua, ma in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, uno che viene dopo di me al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo” (Gv 1,19.27).
La Liturgia della Parola ci propone, quest’oggi, la versione giovannea dello stesso episodio evangelico di Marco, commentato domenica scorsa, dalla quale attingiamo nuovi dati biblici, che contribuiscono a delineare meglio il profilo teologico e spirituale nonché la missione del Battista. A giudicare dallo spazio che gli viene riservato in questo tempo liturgico, non si può non prendere atto che egli costituisce una delle figure più rilevanti dell’Avvento. Il brano, perciò, ci offre l’occasione per chiederci: come mai la Chiesa insiste così tanto su di lui, da riproporcelo costantemente in queste circostanze? Che affinità c’è tra l’attesa messianica del suo tempo e la nostra attesa di Cristo nella parusia? In che modo anche noi possiamo accogliere le sue esortazioni alla conversione? Due sembrano essere allora gli aspetti sui quali il brano evangelico ci invita a soffermare la nostra attenzione: la coscienza che Giovanni aveva della sua identità profetica e la sua missione di battezzatore. Si tratta di due aspetti che potrebbero aiutarci a cogliere meglio il senso della nostra missione cristiana in questo tempo di Avvento.
Prima però di rispondere a queste domande, vorrei invitarvi a leggere la nota[1] nella quale cerco di tratteggiare – per quanto è possibile – la sua personalità spirituale, dai toni decisamente forti e determinati. Tale infatti appare da questo breve, ma intenso e incisivo dialogo che lui intesse con i “sacerdoti e leviti”, inviati dai Giudei, con lo scopo di far chiarezza sulla sua missione profetica e soprattutto su quella di battezzatore[2]. Ne scaturisce una “testimonianza” che l’evangelista Giovanni pone all’inizio del suo Vangelo, come a voler suggerirci di guardare a lui per delineare meglio il profilo della spiritualità ecclesiale, con cui ciascuno di noi è chiamato ad essere nell’oggi religioso della nostra cultura sociale “voce che grida nel deserto” e “preparare la via del Signore”. Rileggendo questo dialogo ci colpisce subito la coscienza che il Battista ha della sua identità profetica, con la quale egli manifesta di avere delle idee molto chiare sul suo ruolo di “precursore messianico”. Benché i “sacerdoti e leviti” insistano ripetutamente con domande sulla sua identità: “Chi sei?”, “Cosa dici di te stesso?” – al fine di dare ragione della sua missione – egli altrettanto insistentemente nega di essere il “Messia”, “Elia” e “il Profeta”. Queste domande e queste figure a noi potrebbero dir poco o nulla, ma nel contesto religioso del tempo, esse rispondono a delle precise forme di attesa escatologica, dalle quali si deduce che il messia non fosse l’unica figura attesa[3]. Che una consistente fetta del popolo d’Israele attendesse l’arrivo imminente del Messia è fuori luogo, come attesta gran parte della letteratura profetica ed evangelica. Meno chiare e comprensibili, invece, ci risultano le figure di “Elia” e del “profeta” di cui parlano gli emissari dei Giudei. Chi erano questi due personaggi dei quali si attendeva il ritorno? Nella Palestina al tempo di Gesù l’attesa di Elia era molto diffusa. Secondo una tradizione religiosa, infatti, (cf. 2Re 2,11), Elia era stato portato in cielo in un carro di fuoco, pertanto l’idea che egli fosse ancora vivo e attivo era piuttosto diffusa, specie se consideriamo che una simile credenza era alimentata anche dall’interpretazione di alcuni passi profetici, tra i quali quello di Malachia 3,1 (risalente al 450 a.C.), dove la figura del messaggero che doveva preparare la via del Signore, veniva identificata con Elia[4]. Questa credenza sembrava essere alimentata anche dall’affermazione di Gesù, quando parlando della valenza simbolica di Elia in riferimento al Battista, dice che egli “è già venuto e non l’hanno riconosciuto” (cf. Mt 17,10-12; Mc 9,11-13). Stando però alla risposta del Battista egli nega ogni affinità con Elia.
Lo stesso discorso vale pure nei confronti del “profeta”. Anche in questo caso ci troviamo dinanzi a una tradizione profetica che risale addirittura a Mosè, il quale rivolgendosi al suo popolo ebbe a dire queste parole: “Il Signore tuo Dio susciterà … in mezzo a te … un profeta pari a me. A lui darai ascolto” (Dt 18,15). Sebbene non disponiamo di dati biblici che ci consentono di identificare il “profeta” in questione col Battista, non possiamo escludere che la forza persuasiva con cui il Battista suscitava l’attenzione delle folle, in merito alla sua predicazione battesimale, possa aver determinato tra la gente una notevole convergenza su di lui.
Escluse tutte queste possibilità gli emissari dei Giudei sollevano una questione al Battista, che noi potremmo così formulare: se la tua persona non ha alcuna relazione con queste figure escatologiche che senso ha la tua missione di battezzatore? Giustamente Giovanni, pur non identificandosi con nessuna di queste figure, non si esime dall’affermare di essere il precursore del Messia. Da qui il motivo per cui egli rivendica a sé l’annuncio profetico di Isaia, di essere cioè “voce che grida nel deserto”, grazie al quale egli riesce a far desistere l’attenzione su di sé e a trasferirla totalmente sulla figura del Cristo, che come aveva proclamato il Battista, è già in mezzo al popolo, ma che questi non dispone ancora dei criteri per riconoscerlo (cf. Gv 1,26)[5].
Alla luce di questo suo comportamento viene da chiedersi: come mai il Battista non ha colto l’occasione per identificarsi col “Messia”, né con “Elia”, benché meno col “profeta”? Non avrebbe potuto cogliere l’opportunità che la circostanza gli offriva, per accrescere il suo prestigio personale? Cosa lo ha indotto a rinunciarvi? È solo una questione di umiltà, come lascia intendere il seguito della sua risposta: “In mezzo a voi sta uno … che viene dopo di me, al quale non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo”? (Gv 1,27)[6]. In realtà questo passo prima ancora di connotare un’umiltà morale (cf. Mt 5,3), manifesta la straordinaria onestà intellettiva e spirituale del Battista, grazie alla quale egli ha modo di vedere, con una singolare trasparenza profetica, il proprio ruolo nel piano salvifico di Dio. È alla luce di questo sguardo che egli si sottrae ad ogni tentazione umana di essere identificato col “Messia”, con “Elia” o col “profeta”. Come non cogliere in questo suo comportamento la stessa logica di rinnegamento che animò la perseveranza di Gesù durante le sue tentazioni nel deserto (cf. Lc 4,1-13 e //); dove, malgrado le insinuazioni del demonio di far convergere la sua missione verso la gloria personale, mantenne viva la coscienza di essere venuto solo per realizzare il regno del Padre? Al pari di Gesù, anche il battista capisce di dover rinunciare alla gloria personale per rivelare quella di Cristo. Egli sa che deve “diminuire” affinché il Cristo cresca in mezzo al suo popolo (cf. Gv 3,30).
Non sta forse in questo atteggiamento il segreto della spiritualità che dovrebbe animare anche la nostra azione pastorale nella Chiesa e nella società, durante questo tempo di Avvento? Che senso ha quella prassi pastorale che mira al riconoscimento del successo personale, senza riflettere per nulla la logica di rinnegamento di sé proposta da Cristo? Quale futuro e quale fecondità spirituale può garantire questa prassi pastorale nella Chiesa? Non è forse vero che, come rileva l’autore della lettera agli Ebrei, “ogni qual volta smettiamo di avere lo sguardo fisso su Cristo e di correre con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, ci esponiamo alla tentazione di cedere al peccato che ci assedia? Anche noi, allora, al pari di Cristo e del Battista, in cambio della gioia o del successo che ci viene posto innanzi, dovremmo imparare ad aderire alla logica della croce, per entrare nella gloria del Padre” (cf. Eb 12,1-2).

La lezione, dunque, che il Battista ha da offrirci in questo tempo d’Avvento è quella di favorire nel nostro cuore e in quello dei nostri interlocutori, quel processo di conversione, che predispone non solo all’attesa, ma suscita anche un desiderio profondo di un incontro personale con Cristo. In un contesto culturale come il nostro, dove si assiste all’esaltazione dell’io, Giovanni è colui che ci invita a spostare l’attenzione su Dio e a considerarlo come il principio e il compimento della nostra identità cristiana, umana e culturale. E ciò vale ancora di più per quanti tra di noi svolgono un’attività pastorale nella Chiesa dove, malgrado le rinnovate istanze spirituali dei nostri tempi, la pastorale sembra continuare a limitarsi a quella ordinaria dei sacramenti. Il battesimo praticato dal Battista costituisce perciò un monito per la nostra conversione alla logica evangelica di Cristo.
È su questa base che anche noi – come Gesù nella sinagoga di Cafarnao – siamo chiamati ad attualizzare nell’oggi della nostra prassi pastorale le parole profetiche di Isaia: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me … mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai poveri, / a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, / a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, /a promulgare l’anno di misericordia del Signore” (Is 61, 1-2). Allo stesso modo, come Maria col suo Magnificat, possiamo gioire per le meraviglie che Dio opera dentro di noi e in mezzo a noi: “Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio” (Is 61,10), perché “ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, / ha rovesciato i potenti dai troni, / ha innalzato gli umili; / ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi (cf. Lc 1,49.51-53).
Ma perché questa logica evangelica, preannunciata dal Battista, continui a operare nella nostra mentalità religiosa e culturale, occorre fare nostra la preghiera di Paolo ai Tessalonicesi: “Il Dio della pace ci santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è nostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Colui che ci chiama è fedele e farà tutto questo” (1Ts 5,23-24).
[1] A giudicare da quello che gli evangelisti dicono di lui, non sarà stato certamente una persona facile. Nell’immaginario collettivo egli riveste il ruolo di un profeta scomodo, dalla voce tuonante, che non ha peli sulla lingua e non ha paura di dire la verità, anche se sa dirla al momento giusto e nel modo giusto. Un uomo dal fisico asciutto, energico, sobrio, essenziale; di quelle persone integerrime, giuste, che come dice il libro della Sapienza crea imbarazzo, perché contrario alla logica di vita comune, e che quindi è meglio eliminare, perché con la sola presenza condanna le scelte di vita accomodanti (cf. Sap 2, 12-15). La sua nascita sa di un evento prodigioso: la mamma Elisabetta, sterile, rimane incinta a seguito di una visione che il padre Zaccaria ha nel Tempio, nella quale gli viene preannunciato perfino il nome da dare al figlio: Giovanni (cf. Lc 1, 5-25). Interessanti sono i vari parallelismi che gli evangelisti creano tra l’infanzia e la missione del Battista e quella di Gesù, a partire dai quali viene delineata la particolare superiorità di Cristo (cf. Lc 1-2). La sua vocazione profetica è legata soprattutto alla profezia di Isaia 40,3 (cf. Mc 1,3) e a quella di Malachia 3,1 (cf. Mc 1,2), a partire dalle quali egli svolge un’intensa attività predicativa, specie intorno al fiume Giordano, dove praticava un battesimo di conversione, dovuto alla forte percezione che aveva dell’imminente venuta del Messia (cf. Mc 1,4ss). Lo stesso Gesù, riconoscendogli l’alto profilo profetico, svolto nell’orizzonte del piano salvifico di Dio, si lascia battezzare da lui (Mc 1,9ss). Sappiamo che svolgeva la sua missione sostanzialmente nel deserto, dove viveva una vita ascetica, specie se consideriamo quello che mangiava: “cavallette e miele selvatico”; e quello che vestiva: “peli di cammello e una cintura intorno ai fianchi” (Mt 3,4), eppure non disdegnava di partecipare alla vita sociale, specie quella gerosolimitana, dove era particolarmente conosciuto e dove non mancava di far sentire la sua voce, denunciando alcune situazioni moralmente incresciose, come quella del tetrarca Erode, per la quale venne incarcerato e poi condannato a morte (cf. Lc 3,19s), e dove con toni piuttosto aspri, rimproverava coloro che cercavano con astuzie, seduzioni e bugie pur di sottrarsi al giudizio divino (cf. Lc 3,7). Tutti gli evangelisti, all’unanimità, lo definiscono la “voce” profetica per eccellenza, non tanto per quello che ha detto del Messia, quanto per averlo saputo riconoscere tra la folla e indicarlo come “L’Agnello di Dio che toglie i peccato del mondo” (cf. Gv 1,29.36), a quanti attendevano la salvezza in Israele, secondo la profezia del vecchio Simeone (cf. Lc 2,34). Una persona apparentemente implacabile, come l’immagine di Dio di cui si faceva annunciatore. Alquanto diversa da quella misericordiosa divulgata dal Messia (cf. Lc 7,33-34). L’evangelista Giovanni, nel suo Prologo, parla di lui come di chi “venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui” (Gv 1,7).
[2] I Giudei (termine con cui Giovanni definisce in questo caso le autorità religiose del popolo) mandano a Giovanni una delegazione costituita da “sacerdoti e leviti” che in qualità di specialisti dei riti purificativi avrebbero affrontato con maggiore competenza la questione relativa alla natura del suo battesimo. Normalmente col termine “levita” si allude a una classe sacerdotale inferiore, ma a volte, nei documenti rabbinici, alla polizia del tempio. Appaiono di rado nella scena del Nuovo Testamento (cf. Lc 10,32; At 4,36). Lo stesso Battista era figlio di un sacerdote (cf. Lc 1,5).
[3] Pertanto è opportuno avere almeno una conoscenza generica di esse, se non altro per acquisire quei criteri spirituali che potrebbero aiutarci a discernere e a valutare meglio le nostre attese religiose. Anche noi, infatti, attendiamo “qualcuno” che dia una svolta decisiva alla nostra vita, dal quale però veniamo costantemente delusi, perché i nostri criteri di attesa non corrispondono affatto a quelli biblico-cristiani.
[4] Cf. R.E. Brown, Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 2020, 62-64.
[5] Quest’affermazione – come fa notare R. Brown – non ha senso di rimprovero per gli ascoltatori per la loro cecità, poiché lo stesso Battista ammette di averlo riconosciuto il messia in Gesù grazie all’aiuto di Dio (cf. Gv 1,32-34) (Cf. R.E. Brown, Giovanni, op. cit. 69-70).
[6] Ancora prima che morale questa formula ha una valenza religiosa, infatti, il Battista pur vedendosi riconosciuto il diritto di ereditare il titolo di Messia, vi rinuncia perché riconosce l’immensa superiorità di Gesù che gli sta davanti, come colui che porterà a compimento il disegno salvifico di Dio. Giovanni si rivela dunque una persona, sincera, autentica sotto il profilo morale e religioso.




Commenti