16 Ottobre 2022 - Anno C - XXIX Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 15 ott 2022
- Tempo di lettura: 9 min
Es 17,8-13; Sal 120/121; 2Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8
Una preghiera instancabile e insistente

Ancora una volta la Chiesa ci offre ulteriori occasioni per estendere e approfondire la nostra conoscenza della preghiera. Essa, come già abbiamo avuto modo di vedere, è caratterizzata da diversi aspetti tra i quali quello della “convinzione”, sul quale ci siamo soffermati nelle domeniche precedenti. Quest’oggi, invece, la liturgia della Parola ci dà modo di esaminare l’“insistenza” e l’“instancabilità” della preghiera. Pertanto una preghiera fatta con “convinzione”, in modo “insistente” e “senza stancarsi mai” (Lc 18,1) è ciò che consente alla fede di crescere e progredire nella relazione con Dio. Senza queste qualità la preghiera rischia di isterilirsi e ridursi a parole monotone, prive del loro vigore spirituale. Ma prima di prendere in considerazione questo aspetto, mi preme fare una breve nota sulla preghiera.
Spesso riteniamo la preghiera un moto istintivo ed estemporaneo dello spirito, legata a sentimenti che scaturiscono dalle circostanze occasionali della vita, come possono essere i momenti di gioia, di lode, di gratitudine oppure di dolore, di sconforto, di tristezza, di aridità spirituale. E a seconda del tipo di sentimento o dello stato d’animo, regoliamo la nostra frequenza nei suoi confronti, che può andare dallo slancio mistico all’assiduità, oppure dalla saltuarietà alla totale indifferenza. Insomma ci capita di sperimentare un’incostanza spirituale, spesso determinata dalla volubilità del nostro umore. Questo modo di praticare la preghiera ci porta ad essere sballottati da un eccesso all’altro, che difficilmente si presta a uno sviluppo progressivo della vita spirituale e della conoscenza di Dio. In realtà la preghiera, al pari di tutte le discipline umane, richiede l’acquisizione e la pratica di una serie di facoltà che ne garantiscono l’“accrescimento” (cf. LC 17,6). In questo senso essa non va considerata come un dono compiuto e perfetto, elargito gratuitamente e in maniera definitiva a pochi eletti, ma come una disposizione o, meglio ancora, un “talento” (cf. Lc 19,12-27; Mt 25,14-30) dello spirito, che necessita di essere cercato, accolto, custodito, curato, praticato, sviluppato, promosso, impiegato, investito. Tra tutti questi atteggiamenti che hanno la funzione di allenare[1] lo spirito e conformarlo sempre più adeguatamente alla spiritualità di Cristo, ve ne sono alcuni provenienti direttamente dalla testimonianza biblica ed evangelica, come quelli suggeriti dalla liturgia della Parola di quest’oggi. Essa, infatti, attraverso il brano della prima lettura, tratto dal libro dell’Esodo e quello evangelico di Luca, ci riferisce della necessità della preghiera insistente, perseverante e continua, quali condizioni per essere esauditi da Dio.
Nella prima lettura questa pratica viene addirittura associata alla guerra[2], dove Mosè, ormai anziano e incapace di sostenere lo sforzo fisico del combattimento, ricorre al supporto della preghiera, per condurre gli Israeliti alla vittoria. Il brano ci riferisce della battaglia di Israele contro gli Amaleciti, i quali tentarono di impedire al popolo di Dio di ricevere l’eredità della terra promessa. Dinanzi all’infuriare della battaglia, Mosè non trova altro modo per offrire il suo contributo, se non quello di intercedere a favore del suo popolo, invocando l’aiuto di Dio attraverso la preghiera. Ma contrariamente alle sue attese, la battaglia si prolunga oltre ogni misura e con essa anche la preghiera, spossandolo notevolmente. Gravato dal “peso” della preghiera, di tanto in tanto si ferma e quando ciò accade il popolo viene meno. Diversamente quando riprende a pregare, immediatamente cambiano le sorti della battaglia. Da qui l’idea di farsi aiutare dal fratello Aronne e dal collaboratore Cur i quali, saliti sul monte dove si trovava Mosè, “presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani” (Es 17,12). Grazie al sostegno dei suoi collaboratori “le mani (di Mosè) rimasero ferme fino al tramonto del sole” finché “Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo” (Es 17,13).
Questo supporto spirituale che Aronne e Cur rendono alla preghiera di Mosè, potrebbe passare inosservato, ma invece si rivela ricco di significato, poiché ci suggerisce il modo con cui anche noi, nel nostro piccolo, possiamo sorreggere e condividere nella preghiera il peso di quei pastori che, come Mosè e Giosuè, sono chiamati a guidare il popolo cristiano nell’oggi della nostra realtà sociale, anch’essa condizionata da scelte politiche belliche e idee culturali che, come allora, continuano a minacciare la libertà e a ostacolare la salvezza. Credo importante questo supporto, poiché ciascuno di noi, a suo modo, sente il bisogno di essere sostenuto nelle proprie fatiche, specie quando siamo letteralmente investiti dal peso delle responsabilità che esse comportano. Il loro supporto, come abbiamo visto, si rivela fondamentale ai fini della battaglia, determinandone la vittoria. Lo stesso vale anche per noi, oggi, quando ci sentiamo supportati dalla comunità. Anche le nostre vittorie, senza escludere l’impegno personale, sono frutto della preghiera comunitaria. Ma c’è anche un altro significato che vorrei evidenziare: la preghiera di Mosè ci fa capire che né la forza fisica, né quella delle armi, né il vigore dell’esercito e neppure l’abilità dei soldati sono determinanti per la soluzione della battaglia. Se da una parte è vero che il popolo combatte fisicamente contro il nemico, dall’altra è ancora più vero che la loro battaglia è sostenuta dall’azione invisibile e misteriosa di Dio, come rileva anche il Salmo 120, quando dice: “Da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore … Egli non lascerà vacillare il tuo piede … poiché sta alla tua destra … Il Signore ti custodirà da ogni male: egli custodirà la tua vita”, o ancora come esplicita più chiaramente il capitolo 20 del libro del Deuteronomio[3]. Il vero vincitore perciò è Dio. La guerra costituisce perciò solo un mezzo e un luogo attraverso cui Dio manifesta la potenza della sua azione salvifica nel mondo, simbolo di quella guerra celeste che le schiere di Dio sostengono nei confronti del male. La sconfitta del nemico è perciò nient’altro che la vittoria sul male. È questa convinzione religiosa a sostenere gli Israeliti nella loro battaglia.
La stessa “insistenza” nella preghiera viene fortemente raccomandata anche da Gesù con la parabola della Vedova molesta, che vi invito a leggere insieme a quella dell’Amico inopportuno (cf. Lc 11,5-8), che presenta caratteristiche assi simili. La vedova, pur consapevole di trovarsi dinanzi allo strapotere di un giudice che non concedeva margini di soluzione alla sua situazione, manifesta una notevole forza d’animo che le impedisce di crollare sotto i colpi di un uomo totalmente insensibile alla sua causa e alla sua condizione sociale. La forza d’animo della vedova è sorretta da una fiducia incrollabile nella giustizia, consapevole che in nome suo quel giudice prima o poi si sarebbe ricreduto e impegnato ad ascoltarla. Da qui la conclusione di Gesù: se l’insistenza della vedova è stata capace di piegare la volontà traviata e corrotta del giudice, quanto più la preghiera muove Dio a manifestare la sua bontà e compassione verso coloro che gridano a lui giorno e notte?[4] Se il giudice disonesto si è mosso a compassione della vedova, quanto più il Padre buono si lascerà piegare dall’esigenza delle sue creature? Per Gesù, dunque, non basta pregare, ma occorre pregare con insistenza, se s’intende essere esauditi dal Padre. Pregare “sempre senza stancarsi” non significa ripetere incessantemente una preghiera verbale, alternandosi a turni ininterrotti notte e giorno, come si pensava di fare, nei primi secoli, in alcune comunità monastiche tebane, rischiando di diventare noiosi, abitudinari e ossessivi, ma custodire il cuore e la mente in un atteggiamento di perenne docilità all’azione dello Spirito di Dio in noi, tale da essere sempre disposti a compiere la sua volontà in tutte le circostanze.
L’efficacia della preghiera dipende allora anche dalla insistenza e dalla perseveranza con cui viene praticata. Questi due aspetti ci aiutano a capire che essa non può limitarsi a momenti di estemporaneo slancio spirituale, come abbiamo evidenziato sopra, ma necessita di un’assidua frequenza. È chiaro che l’insistenza non va confusa con l’ostinazione, la caparbietà, la cocciutaggine che spesso manifestiamo nelle circostanze in cui, pur sapendo di sbagliare, continuiamo ad affermare a tutti i costi le nostre idee o a difendere, a spada tratta, la nostra immagine. L’insistenza di cui parliamo è piuttosto l’atteggiamento fermo che nasce dalla convinzione di essere nella volontà di Dio, certi che “qualunque cosa chiediamo nel nome di Cristo” (Gv 15,16) il Padre ci esaudirà. La perseveranza, invece, è la capacità di rimanere fermi e “saldi” in questa convinzione – come chiede Paolo a Timoteo (cf. 2Tm,3,14), anche quando le circostanze sembrano affermare il contrario, come descrive in modo emblematico il Salmo 117,5-14, o ancora quando constatiamo un apparente silenzio o ritardo di Dio, rispetto alle nostre attese. È a queste condizioni che la preghiera alimenta la nostra fede e ci mette nella condizione di perseverare[5] in essa, specie quando ci ritroviamo ad attraversare prolungati periodi di dolore, di crisi o aridità spirituale. La perseveranza si rivela allora come l’atteggiamento dell’“attesa fedele”. Praticandola ci sforziamo di entrare a far parte del numero di coloro che conservano la fede fino al giorno in cui il Figlio dell’uomo tornerà sulla terra (cf. Lc 18,8), nutrendo la speranza di ripetere con san Paolo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede” (2Tm 4,7).
[1] Interessante è l’etimologia del termine “allenare”, che deriva da “lena”, il cui significato è: respiro, fiato, forza, energia. L’allenamento consiste, dunque, nell’esercitare il respiro per adeguarlo ai movimenti del corpo, durante gli esercizi fisici, così da potenziarne la capacità, la qualità, la resistenza. Lo scopo dell’allenamento è quello di affrontare determinate prove che diversamente non potrebbero essere superate. Si capisce allora perché gli atleti necessitano di un allenamento continuo per conquistare alcuni record. Lo stesso vale per tutti gli altri ambiti della vita, come per esempio lo studio, per chi intende progredire nel sapere; la scienza, per chi intende indagare le leggi della natura e del creato; la politica, per chi intende mettersi al servizio del bene sociale; l’arte, per chi intende scrutare il mistero del bello; e quindi la preghiera, per chi decide di crescere spiritualmente nella conoscenza di Dio. Come ogni altra disciplina anche la preghiera richiede un metodo (dal greco meta = scopo, fine, obiettivo e hodos strada, via; letteralmente “via per giungere a”), grazie al quale diventa possibile conquistare un obiettivo. [2]L’Antico Testamento è costellato da episodi bellici. Lo stesso libro dell’Esodo, e successivamente quelli storici del periodo monarchico (cf. 1e2Re), ci riferiscono di continui conflitti degli Israeliti con gli altri popoli limitrofi, specie in vista della conquista e del mantenimento della “terra promessa”. Tali episodi vengono spesso giustificati come espressione della volontà di Dio, che secondo alcuni trova il suo fondamento nell’appellativo “Dio degli eserciti” Jhwh sebaot (da non confondere col “dio della guerra”, tipico dei popoli pagani, o peggio ancora col Gott mit uns “Dio con noi” dei nazisti). Nella Bibbia, tale appellativo, infatti, non si riferisce alle armate ebraiche, ma viene impiegato per celebrare la trascendenza e la signoria cosmica. Pertanto gli eserciti a cui si riferisce la locuzione sono quelli degli angeli, come viene ricordato dall’evangelista Luca 2,13: “Apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio”. Questa mentalità belligerante ha spesso condotto a parlare di “guerra santa”, in realtà per capire la necessità di quest’azione bellica occorre inquadrare l’idea della guerra nella mentalità religiosa del tempo. Essa non è mai finalizzata a se stessa, considerata cioè un modo per ostentare il potere bellico o il dominio regale, ma una condizione per conquistare la terra promessa da Dio. Certo il modo con cui essa viene esercitata dagli Israeliti non è sempre perfettamente conforme ai criteri della volontà di Dio, ma secondo quella mentalità la guerra costituisce il modo con cui essi ritenevano di attuare il piano di Dio nella storia. Ciò non esclude una previa preparazione e formazione all’arte della guerra. Tuttavia l’Israelita rimane convinto che la vittoria non dipende da un’abile strategia bellica, ma da una manifestazione dell’intervento di Dio. Nel Nuovo Testamento il linguaggio bellico perde il suo vigore fisico a favore di un significato chiaramente simbolico, come scaturisce dal libro dell’Apocalisse. In ogni caso a noi, oggi, questa associazione tra preghiera e guerra fa storcere un po’ il naso, ma in un contesto religioso e culturale come quello praticato dagli Israeliti, dove la guerra viene concepita ancora come il mezzo più efficace per farsi spazio a livello sociale, allora questa associazione diviene comprensibile, ma non giustificabile. Purtroppo non sono pochi i popoli che nel passato hanno considerato e tutt’ora considerano la religione, perfino cristiana, come un supporto per giustificare scelte politiche e militari come la guerra. Basti pensare alle crociate; all’attuale conflitto tra Russia e Ucraina, dove la religione viene strumentalizzata a fini nazionalistici; o al terrorismo islamico, dove lo stesso Corano viene interpretato alla luce di condizionamenti culturali e assunto come fonte religiosa per giustificare i propri atti terroristici, di stampo politico. [3] “Quando andrai in guerra contro i tuoi nemici e vedrai cavalli e carri e forze superiori a te, non li temere, perché è con te il Signore tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto. Quando sarete vicini alla battaglia, il sacerdote si farà avanti, parlerà al popolo e gli dirà: Ascolta, Israele! Voi oggi siete prossimi a dar battaglia ai vostri nemici; il vostro cuore non venga meno; non temete, non vi smarrite e non vi spaventate dinanzi a loro, perché il Signore vostro Dio cammina con voi per combattere per voi contro i vostri nemici e per salvarvi” (Dt 20,1-4). [4] Anche il passo matteano contribuisce ad esplicitare ulteriormente questa affermazione di Gesù, dove dice: “Se voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il vostro Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono?” (Mt 7,11). [5] Letteralmente “rimanere sotto il peso” senza lasciarsene schiacciare.




Commenti