16 Maggio 2021 - Ascensione di Gesù al Cielo Anno B
- don luigi
- 16 mag 2021
- Tempo di lettura: 10 min
At 1, 1-11; Sal 46/47; Ef 4,1-13; Mc 16,15-20
Ascensione:
verso una rinnovata tensione alle cose di lassù

Nella settima domenica di Pasqua la Chiesa ci fa celebrare la festa dell’Ascensione di Gesù al Cielo. Un evento che a livello liturgico comincia ad essere celebrato solo a partire dalla seconda metà del IV secolo. Fino ad allora, infatti, l’attenzione era tutta concentrata sugli eventi della Risurrezione e della Pentecoste. Nel V sec., invece, viene come compreso il suo significato teologico, da qui la ragione della sua diffusione universale. Anche noi, sulla scia di questa convinzione ecclesiale, ci sforzeremo di capire l’importanza che essa ha per la vita spirituale di ciascuno di noi e della Chiesa, ma anche per la vita di quanti, pur lontani dal Cielo, intendono scoprire il mistero della propria origine e il fine della loro esistenza, specie in questo particolare momento storico di smarrimento esistenziale. L’ascensione, infatti, contrariamente a quanti si nutrono solo di un materialismo empirico e terreno, dice che il fine dell’esistenza è ben oltre l’orizzonte storico. Perciò essa costituisce, al tempo stesso, un monito per quanti ritengono che tutto il senso della vita sia esclusivamente immanente; e uno stimolo per quanti, invece, custodiscono e nutrono una speranza trascendente, verso “le cose di lassù” (cf. Col 3,1).
Per introdurci nel suo significato teologico prenderemo in esame la testimonianza evangelica. I brani che la menzionano ne parlano come di un evento con cui Gesù porta a termine tutta la sua parabola esistenziale: di chi venuto dal Padre ritorna a lui (cf. Gv 16,28). Non è possibile perciò parlare dell’Ascensione senza avere come sfondo l’evento dell’Incarnazione. Tra i due eventi c’è un’intrinseca connessione che è importante rilevare, se intendiamo cogliere il senso dell’identità divina e umana di Gesù, e alla sua luce, anche la nostra identità umana, ovvero il mistero della nostra origine e fine divina.
Tra gli evangelisti Luca è quello che ne parla più estesamente. Egli la menzione sia al termine del suo Vangelo (cf. Lc 24,50-52), che agli inizi del libro degli Atti degli Apostoli (cf. At 1,6-11). Marco ne fa un brevissimo riferimento, al termine del suo Vangelo, limitandosi solo a citarla, in termini di “elevazione” (cf. Mc 16,19). Matteo non ne parla affatto; mentre Giovanni la lascia intendere nell’apparizione di Gesù alla Maddalena, alla quale dice: “Non mi trattenere, poiché non sono ancora salito al Padre” (Gv 20,17)[1]. Senza citarla esplicitamente, tuttavia, nel Discorso di Addio, pronunciato da Gesù, alla viglia della sua passione e morte, Giovanni offre numerosi e fecondi spunti di riflessione su questo argomento. In particolare vi segnalo alcuni versetti, sui quali, volendo, potrete soffermarvi a meditare: Gv 14,33.36; 14,1-6.19-20.27-29; 16,5-7.16-23.28; 17,13.24). Luca, dunque, è l’unico evangelista che si sofferma su di essa, evidenziandone il significato spirituale di cui è impregnata. Lo fa ricorrendo al simbolismo numerico. Per lui, infatti, l’Ascensione è l’ultimo episodio della vicenda storica di Gesù e conclude tutto il ciclo delle sue apparizioni, durato quaranta giorni, a partire dalla Risurrezione (cf. At 1,3). Un simbolismo che è utile rilevare, poiché ci consente di agganciarci direttamente alla tradizione biblica. Il numero quaranta infatti ricorre spesse volte nella Bibbia, non tanto per indicare esattamente un periodo cronologico, quanto un ciclo di prove, di purificazione o di formazione. Quaranta sono i giorni del diluvio (Gen 7,4.12.17); quaranta sono gli anni che il popolo vive nel deserto, prima di giungere alla terra promessa (Nm 13,25; 14,33-34); quaranta i giorni in cui Golia lancia la sfida agli Israeliti (cf. 1 Sam 17,16); quaranta i giorni in cui Mosè è rimasto sul monte Sinai, durante la rivelazione delle tavole della Legge (cf. Es 24,18); quaranta i giorni in cui il profeta Elia è rimasto nel deserto prima di giungere al monte Oreb (cf. 1Re 19,8); quaranta i giorni in cui, dopo la nascita, Gesù viene presentato al Tempio (cf. Lc 2,22); quaranta ancora i giorni di Gesù nel deserto prima di dare inizio alla sua attività pubblica (cf. Lc 4,1-2). Tale simbolismo è alla base anche del periodo liturgico della Quaresima. Per Luca l’associazione del numero quaranta alle apparizioni di Gesù sta ad indicare un ciclo formativo col quale Gesù intende portare a termine tutto il percorso di fede, al quale aveva iniziato i suoi apostoli, a partire dalla loro chiamata. Un percorso formativo dal quale neppure noi cristiani possiamo esimerci, tanto importante e necessario si rivela per la nostra esperienza e testimonianza di fede, personale ed ecclesiale. Significativo perciò è anche il modo con cui Gesù appare dopo la Risurrezione. Egli lo fa incontrando personalmente le persone che avevano condiviso la sua vita: la Maddalena al sepolcro (cf. Gv 20,11-18), i discepoli lungo la strada verso Emmaus (cf. Lc 24,13-35), gli apostoli nel cenacolo (cf. Gv 20,19-23) e sul lago di Tiberiade (cf. Gv 21,1-23), Tommaso nel cenacolo (cf. Gv 20, 24-29). Occorreva riprendere il discorso dal punto in cui tutto si era interrotto a seguito della sua morte, anzi passando attraverso la morte. Questo significa che la fede richiede un tempo di maturazione, secondo il quale non è opportuno anticipare né posticipare la sua manifestazione. Ogni cosa deve poter avvenire a tempo debito, per evitare il rischio di bruciare le tappe o di snaturare lo sviluppo della fede. Secondo Luca, dunque, Gesù, convinto di dover concludere il ciclo formativo di fede degli apostoli, appare loro come il vivente, in carne ed ossa. Tra gli evangelisti Luca è quello che maggiormente insiste sulla “carnalità” di Cristo. Egli parla di un Gesù che mangia e beve alla maniera di un uomo concreto (cf. Lc 24,30.41; cf. Gv 21,5.9-10.13). Questa insistenza lucana, al pari di quella giovannea, sulle apparizioni corporee di Gesù, viene giustificata dal fatto che alcuni discepoli, condizionati dalla mentalità greca che disprezzava il corpo a favore di una visione spirituale, cercavano di ridurre l’apparizione di Gesù ad un “fantasma” (cf. Lc 24,39). Il termine usato da Luca è infatti “vedere” e non “visione”.
Il significato dell’Ascensione, tuttavia, non si racchiude solo in questo simbolismo numerico, ma ne rivela uno ancora più profondo e teologico. San Paolo nel brano della lettera agli Efesini che ci viene proposto per la circostanza, a proposito di Cristo, si domanda: “Cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terrà? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose” (Ef 4, 9-10). Paolo ci fa capire che i termini “discendere” e “ascendere” fanno parte di un linguaggio metaforico che ha la funzione di introdurci nel mistero della nostra salvezza. In realtà Dio non “discende” né “ascende”. Tali termini sottolineano il dinamismo spirituale con cui Dio traccia il cammino salvifico dell’uomo. Come Cristo anche l’uomo è chiamato a incarnarsi, ovvero accettare la condizione della propria umanità. Può sembrare paradossale questa affermazione, eppure rivela un aspetto così poco compreso e vissuto dall’uomo: l’incapacità di accettarsi per quello che è. Provo a spiegarmi meglio: c’è nell’uomo una tentazione antica che alimenta costantemente il suo desiderio di voler essere dio, senza Dio. Questa tentazione impedisce all’uomo di essere pienamente se stesso. Nel tentativo di essere ciò che non è ancora, dimentica di essere ciò che è già: uomo. Cristo, invece, con la sua incarnazione, ci dice che la via per essere veramente Dio è l’umanità. Accettandola e vivendola con tutto ciò che essa comporta: fragilità, limitatezza e finitudine. Solo chi accoglie fino in fondo questa condizione è in grado di esplicitare l’intrinseca natura divina di cui è impregnata l’umanità. Questo processo comporta però la partecipazione personale all’Evento Pasquale di Cristo, ovvero della sua Passione-Morte-Risurrezione, in virtù del quale Gesù consente allo Spirito di Dio di operare nell’umanità dal di dentro, cosi da trasfigurarne la natura. La passione e morte costituisce la via che Gesù percorre per giungere a Dio, come si deduce dalle parole che egli rivolge a Tommaso, durante il Discorso di Addio (cf. Gv 14,4-7). L’assunzione nella propria vita di questi due eventi fondativi della fede, consente non solo di rileggere la propria esistenza alla luce di quella di Cristo, ma permette all’uomo di identificare Dio come il fondamento del proprio io, ovvero come il centro della propria identità umana. Cristo, perciò, rivela all’uomo la radice, il principio, il senso e il fine divino della sua esistenza umana. Egli, gli rivela il nucleo vitale e pulsante, ovvero l’io della sua umanità, inteso non come una monade, chiusa nella propria individualità, ma come un’entità relazionale, allo stesso modo della relazione trinitaria che è all’origine della vita di Cristo. L’io, pur essendo unico, è, al tempo stesso, caratterizzato da una relazione dinamica con Dio, che egli stringe e custodisce nella cella più segreta di sé. In Cristo l’uomo comprende che il suo io è relazionale: umanodivino. Tutta la sua esistenza è inscindibilmente umanodivina. Per assimilare questa rinnovata identità umanodivina l’uomo deve rinunciare non al suo desiderio di essere dio, ma al modo con cui egli desidera esserlo. Per farlo, deve uscire fuori di sé, ovvero dalla logica individualistica ed egocentrica dell’io, e andare verso Dio, aderendo alla logica trinitaria del suo io. Cristo traccia questo percorso attraverso l’Incarnazione. Egli decide di uscire fuori della sua condizione divina, svuotandosi del potere che essa comporta, per accettare la piccolezza, la fragilità e la limitatezza dell’umanità, come condizione della sua incarnazione (cf. Fil 2,5-11). Vivendo appieno questa condizione umana egli la trasfigura, rinnovandola dall’interno, in virtù del comandamento dell’amore, vissuto come donazione totale di sé, fino a dare la vita per gli amici (cf. Gv 15,13). L’umanità diventa quindi per Gesù non una condizione di cui svincolarsi, alla maniera della cultura egiziana e greca, secondo le quali il corpo costituiva una prigione di cui liberarsi per diventare dio, ma il presupposto per partecipare della stessa vita divina. In questo modo Cristo non reprime nell’uomo il desiderio di essere Dio, al quale è chiamato (cf. Sal 82,6; Gv 10,34), ma lo trasfigura, indicando la vera via per raggiungerla, il modo per realizzarla pienamente. Cristo non dice all’uomo che egli è dio, come ritenevano i faraoni, ma che è chiamato ad essere in Dio, per mezzo suo, nello Spirito.
I Padri della Chiesa insistono ripetutamente sul fatto che Dio si è fatto uomo perché l’uomo si faccia Dio. La logica vissuta da Cristo rompe categoricamente con quella tipicamente pretenziosa dell’uomo di farsi dio senza Dio. Gesù invece ci dice che l’unico modo di essere Dio è quello di esserlo con Dio, per mezzo del suo Spirito. San Leone Magno afferma che siamo chiamati ad elevarci come Cristo, per partecipare della sua stessa gloria. L’ascensione dice dunque la nostra trasfigurazione, la pienezza in Dio, la nostra chiamata a divenire creature nuove, come afferma san Paolo, è per essere più precisi, ad essere figli di Dio nel Figlio (cf. Gal 4,6-7; 1Gv 3,2-3). La salvezza consiste dunque nella partecipazione della vita divina e relazione filiale di Cristo. Ascendere, sotto l’aspetto spirituale, significa salire, ovvero divenire pienamente quello che già siamo in Cristo: figli nel Figlio (cf. Rm 8,14-17). Non si tratta di separarsi dalla vita concreta e quotidiana, al contrario significa cambiarla radicalmente dall’interno, a partire dalla nostra partecipazione al movimento incarnativo e redentivo del Verbo.
Come avviene questo processo di divinizzazione? Il testo lucano quando parla dell’Ascensione di Cristo dice che gli apostoli “mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi” (At 1, 9). Con un’interpretazione letterale saremmo portati a credere, un po’ ingenuamente, che Gesù su una nuvola sale in cielo. Ma evidentemente il linguaggio usato da Luca rivela una valenza simbolica che ci fa andare al di là di questa interpretazione. La nube più che essere un elemento sul quale Gesù poggia, è un elemento che avvolge il suo corpo; essa è un simbolo col quale si cerca di sottolineare la dimensione misteriosa che circonda l’evento dell’Ascensione. Come il numero quaranta anche la nube assume in Luca un significato simbolico. Essa accompagna sempre la manifestazione di Dio nei momenti decisivi della storia della salvezza. Basti ricordare la nube che accompagna il cammino di Israele nel deserto (cf. Es 13,21), oppure alla nube che ricopre Maria all’annuncio dell’angelo (cf. Lc 1,35), o ancora alla nube che avvolge Gesù nella trasfigurazione (cf. Lc 9,34.35). La nube sottolinea allora la dimensione del mistero, al tempo stesso è un elemento vitale, simbolo di fecondità. Essa accompagna, guida, protegge. Tutte azioni che Dio compie a favore del suo popolo o dei suoi prescelti, per mezzo del suo Spirito.
Anche se guardiamo alle nubi vere e proprie capiamo che senza di esse la vita sulla terra è praticamente impossibile. Senza le nubi non c’è acqua, ma solo deserto e morte. La nube è fecondità, è benedizione. La sua presenza dice pertanto che senza lo Spirito che essa esprime nessun cammino di divinizzazione è possibile. Come le nubi anche il termine cielo viene usato metaforicamente. Esso più che un luogo geografico indica l’altezza, la pienezza, la meta verso la quale l’uomo è chiamato a tendere, la condizione di trascendenza che caratterizza la natura divina e alla quale è chiamato l’uomo. Esso è inteso come simbolo della dimora divina, infinita ed immensa come l’eternità di Dio. L’ascensione che l’uomo compie attraverso la vita spirituale non è lo sforzo eroico del super uomo, ma l’accoglienza di un dono: lo Spirito che ci trasforma con l’amore. Essa non costituisce una metamorfosi, ovvero un cambiamento radicale di forma, come avviene, per esempio con la crisalide, ma una trasfigurazione. Il che significa che la nostra vita, il nostro corpo e perfino la nostra carne, pur rinnovandosi radicalmente, rimane sostanzialmente in continuità con la propria umanità. L’umanità non diventa altro da sé, ma divina, intesa come rivelazione autentica della propria identità.
Questo processo di cambiamento avviene col e nel battesimo. Non a caso Cristo chiede ai suoi: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, che non crederà sarà condannato” (Mc 16, 15-16). Non si tratta di fare proseliti, ma di annunciare l’esperienza d’amore condivisa da Gesù. Chiunque crederà e aderirà a questa nuova vita, deciderà di battezzarsi, ovvero di morire a se stesso, alla logica della mentalità incentrata sull’io che vive dominando sull’altro, per vivere, invece, tutto all’insegna della manifestazione del Padre, esattamente come ha vissuto Gesù. È questa nuova vita che diventerà motivo e di salvezza per quanti si lasceranno coinvolgere personalmente dall’annuncio evangelico dei discepoli di Cristo.
Se c’è dunque una ragione che giustifica la celebrazione dell’Ascensione questa è da individuare nelle parole che Gesù rivolge ai suoi durante il Discorso di Addio: “Io vado a prepararvi un posto … perché siate anche voi dove sono io” (Gv 14,2-3). Tutta la nostra vita, come anche quella del creato, tende alla partecipazione della comunione col Padre, attraverso la manifestazione della gloria dei figli di Dio (cf. Rm 8,18-27). Ascendere, perciò, significa assumere uno stile di vita evangelico, col quale rendiamo testimonianza di una vita che non si riduce alle cose di quaggiù, ma come ci ricorda san Paolo, tende alle cose di lassù. Dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio (cf. Col 3,1-2). È lui che risignifica e riorienta la nostra vita, manifestandoci, come ad amici (cf. Gv 15,15), il segreto della nostra origine trinitaria (cf. Col 3,1-4). Per Gesù è tutto qui il principio, il senso e il fine della nostra esistenza.
[1] Per Giovanni, sembra che la stessa Pentecoste avvenga nel giorno della Risurrezione, come traspare dalle parole pronunciate agli apostoli, sui quali alita lo Spirito Santo (cf. Gv 20,22).
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