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16 Aprile 2023 - Anno A - II Domenica di Pasqua


At 2,42-47; Sal 117/118; 1 Pt 1,3-9; Gv 20,19-31


I segni della passione: il criterio della fede in Cristo


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La principale difficoltà che gli apostoli hanno sperimentato a seguito dei drammatici fatti della “passione e morte” di Gesù è stata quella di riconoscerlo come Risorto. Malgrado le diverse apparizioni e i primi annunci della sua risurrezione, tra i quali quello di Maria di Màgdala e dei due discepoli di Emmaus, gli Undici rimangono sostanzialmente scettici. E tra essi in modo particolare Tommaso, la cui incredulità sembra riflettere così da vicino la nostra. Sarà lo stesso Gesù a offrire loro il criterio per riconoscerlo: “mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore” (Gv 19,20).

Anche noi, come gli apostoli, facciamo fatica a riconoscere Cristo risorto, perfino nell’oggi della nostra vita ecclesiale. Spesso perché, come loro, “non abbiamo ancora compreso le Scritture” (Gv 20,9). Eppure, come a loro, non mancano le testimonianze evangeliche che, malgrado la nostra “stoltezza e lentezza di cuore” (cf. Lc 24,25), continuano a suggerirci il criterio fondamentale della fede. È importante perciò saperle interpretare per cogliere tale criterio, così da essere pronti, come dice Pietro, a dare ragione e testimonianza della nostra fede in Cristo (cf.1Pt 3,15), specie in un contesto religioso come il nostro, così attraversato da crisi spirituali e scandali morali.

Ogni brano evangelico relativo alle “apparizioni di Cristo” che la Chiesa ci sta offrendo in questo periodo pasquale racconta, a suo modo, la modalità con cui gli apostoli hanno preso coscienza di questo criterio fondamentale della fede: Pietro e Giovanni lo compresero entrando nel sepolcro dove, alla vista delle bende e del sudario, “videro e credettero in lui” (cf. Gv 20,8); i due discepoli di Emmaus lo acquisirono quando “riconobbero Gesù nello spezzare il pane” (cf. Lc 24,31); gli Undici lo compresero quando Gesù “mostrò loro le mani e il costato” (Gv 20,20); Tommaso quando, mettendo la mano nel costato, vinse la sua incredulità (cf. Gv 20,27). Ciascuno di essi lo ha compreso quando si è ritrovato a tu per tu con la sofferenza di Gesù, ritenuta per altro come condizione “necessaria” dallo stesso Cristo per entrare nella sua gloria (cf. Lc 24,26.46).

Indubbiamente le parole di Gesù sulla “necessità della sofferenza” (cf. Lc 24,25-27), urtano la nostra sensibilità spirituale e scuotono profondamente la nostra coscienza. E ciò accade specie quando come i due discepoli di Emmaus ci scopriamo “sordi e duri di cuore”, quando cioè facciamo fatica ad aderire o addirittura rifiutiamo la logica della passione di Cristo. Tuttavia è proprio quando decidiamo di lasciarci “spezzare” la nostra “dura cervice” (Es 32,9) che egli si dischiude alla nostra intelligenza, permettendoci di vederlo e riconoscerlo nella veste del Risorto (cf. Lc 24,30-31). Tra tutti i brani evangelici che raccontano questa “necessaria sofferenza” la liturgia di oggi ci dà modo di soffermarci su quello di Tommaso, del quale intendiamo vedere il modo con cui lui, accettandola, ha superato la sua resistenza e scetticismo.

In che modo anche noi possiamo rifare la sua stessa esperienza di fede? Dinanzi a questa domanda si rivelano cariche di speranza le parole che Gesù gli rivolge al termine della sua travagliata ricerca: “Tu hai creduto perché mi hai veduto. Beati quelli che non vedono e credono” (Gv 20,29). Dobbiamo ritenerci beati allora quando possiamo incontrarlo nelle “piaghe” della nostra vita. Per questa ragione trovo assai utile rifarci all’attuale brano evangelico per conoscere le tappe che hanno condotto Tommaso ad esprimere una delle più belle formule di fede cristiana: “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20,28).

Tommaso vien colto in uno di quei momenti di crisi, di cui anche noi facciamo esperienza, quando delusi nelle nostre attese, veniamo attraversati dall’idea di ritornare alla vita di prima. Da qui quel pernicioso pensiero che si insinua progressivamente, come un tarlo nella nostra mente, fino a farci ritenere utile appartarci e isolarci dalla comunità, sottraendoci alle nostre responsabilità ecclesiali. Al pari dei suoi amici apostoli anche Tommaso era rimasto profondamente sconvolto dall’atteggiamento assunto da Gesù durante la sua passione e soprattutto dall’epilogo inaspettato della sua morte. Egli che per l’innanzi s’era abituato a vederlo “potente in opere e parole” (Lc 24,19), faceva fatica ad accettarlo fragile e indifeso “dinanzi ai suoi carnefici” (cf. Is 53,6-8). E non è difficile immaginarlo triste e ripetere le stesse parole dei due discepoli di Emmaus: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele” (Lc 24,21). Ma come loro anch’egli rimane scettico davanti ai discepoli che gli ripetono: “Abbiamo visto il Signore” (Gv 20,25). Malgrado tutto si ostina nel suo scetticismo: “Se non metto le mie mani nel suo costato … io non credo” (Gv 20,25).

Quella di Tommaso è la tipica situazione di chi non si accontenta più del sentito dire, ma esige un’esperienza personale. La sua esigenza interpreta perfettamente la nostra situazione: anche noi avvertiamo la necessità di passare dal “sentito dire” di una fede abituale, ad una fede fondata sull’esperienza personale, autentica, immediata e diretta. La questione è capire: qual è il fondamento della fede? Si capisce allora la ragione per cui Giovanni nel raccontare l’esigenza spirituale di Tommaso faccia riferimento ai “segni della passione di Cristo”. Anche noi, allora, come Tommaso, avvertiamo il bisogno di dover “mettere il dito nella piaga”, nel senso più teologico del termine, ovvero di partecipare al mistero della passione di Cristo. Quella di Tommaso infatti non è un’esigenza empirica, tipica del razionalista che vuole toccare e vedere, ma un’istanza specifica di chi è giunto ormai alla maturità spirituale e avverte, più che mai, il bisogno di aderire e conformarsi totalmente alla “passione e morte di Cristo”. Egli infatti non chiede di toccare una qualsiasi parte del corpo di Gesù, ma di “mettere il dito nella sua piaga”, ovvero di partecipare personalmente alla sua passione. “Passione e morte di Cristo” diventano in questo modo la sua “passione e morte in Cristo”. È questa la condizione che lo induce a riconoscere Gesù come: “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20,28).

Quella che di solito, dunque, a una lettura più superficiale, viene considerata come un’esigenza specifica di Tommaso, in realtà non fa che esplicitare la logica manifestativa di Cristo. Non è un caso che appena dopo il saluto: “Pace a voi” Gesù “mostrò loro le mani e il fianco” (Gv 20,19-20), come a offrire loro il segno di riconoscimento della vericità del suo corpo morto e risorto. Le piaghe vengono mostrate da Gesù come criterio di riconoscimento prima ancora che Tommaso manifesti la sua l’esigenza di vederle e toccare. Ed è interessante notare come la vita gloriosa di Cristo non abbia cancellato i segni della sua passione. Tutto il corpo appare trasfigurato, tanto da non riconoscerlo più (cf. Lc 24,16), o addirittura essere scambiato per un fantasma (cf. Lc 24,37), ma i segni permangono. Non solo a testimonianza di un passato drammatico, ma soprattutto a testimonianza di una logica rivelativa di Dio che Cristo ha indicato come via inevitabile di partecipazione alla sua vita gloriosa. I “segni della passione” costituiscono allora il criterio per riconoscere Cristo risorto nelle piaghe del nostro tempo, soprattutto quelle ecclesiali. Lungi dal gettarci in crisi o dal farci gridare allo scandalo, esse costituiscono il luogo dove il Risorto si rivela più vivo che mai. E tuttavia esse diventano rivelative solo quando, come Tommaso, anche noi abbiamo il coraggio di accoglierle e farle nostre, condividendo fino in fondo la sofferenza che esse comportano. Una qualsiasi forma d’amore che non passi attraverso la piaga che la vita o gli altri inaspettatamente ci procurano è ben lontana dall’essere amore evangelico. Affondare la mano in simili piaghe significa offrire all’uomo d’oggi i segni della testimonianza più autentica e credibile della nostra fede in Cristo.

Riletta in questa ottica la “pace” che Gesù dona agli apostoli si rivela essa stessa parte costitutiva dell’esperienza di fede: essa non è appena appena la formula di un saluto, ma la disposizione spirituale necessaria per operare un simile riconoscimento. Essa costituisce la definitiva riconciliazione con Dio, quella cioè che sperimenta chi, al termine di un percorso di inquietudine spirituale, partecipa della pienezza dell’amore di Dio. La pace che Cristo posa nei cuori dei suoi discepoli è quella che mette fine alla loro prolungata resistenza e paura dinanzi alla logica della croce. È la pace di chi ha consegnato a lui totalmente la propria ragione e la propria esistenza. La fede nel Risorto non sboccia finché siamo bloccati dalla paura. Solo la pace di Cristo, che scioglie ogni tensione, ansia e preoccupazione ci dispone alla straordinaria esperienza della risurrezione. Nessuna differenza perciò tra la nostra e la fede degli apostoli, poiché nell’uno e nell’altro caso essa consiste nel riconoscere Gesù come Cristo, Figlio di Dio, perché credendo in lui possiamo partecipare della vita di Dio, compresa e vissuta come esperienza salvifica. Essa non è il risultato delle nostre riflessioni intellettive, ma un dono della rivelazione del Padre (cf. Mt 16,17). Si comprendono allora con maggiore chiarezza le parole di Pietro che sembrano esplicitare quelle di Gesù a Tommaso: “Perciò siate ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco – torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime” (1Pt 1,6-9).

Veramente un criterio decisivo quello che la Chiesa ci propone con questa pagina evangelica. E quando ciascuno di noi, in diversi modi e forme, vivrà il Vangelo agendo nella persona di Cristo, gli altri potranno dire di lui lo stesso che Giovanni dice di Cristo: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei discepoli che non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (cf. Gv 20,30). Per noi, dunque, che pur non avendolo visto Risorto, crediamo in lui (cf. Gv 20,29), attraverso la testimonianza degli apostoli e di coloro che ci precedono e ci accompagnano nella fede.


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