15 Settembre 2024 - Anno B - XXIV Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 13 set 2024
- Tempo di lettura: 8 min
Is 50,5-9; Sal 116/114-115; Gc 2,14-18; Mc 8,27-35
Pensare secondo Dio

“Voi chi dite che io sia?” (Mc 8,29) è la domanda che Gesù pone ai discepoli di ogni tempo e alla quale ciascuno,come Pietro, è chiamato a dare una risposta personale, se intende verificare la consistenza della propria fede in Cristo. L’episodio petrino, pertanto, ci viene proposto dalla Liturgia come l’occasione per mettere a fuoco le condizioni che possono aiutarci a partecipare della sua stessa intuizione spirituale: considerata fondamentale per chiunque si accinge a compiere, nell’oggi della Chiesa, un autentico cammino di fede, che Marco ci sta tracciando attraverso la lettura del suo Vangelo.
A questo proposito si rivela importante un collegamento con la parola chiave del brano evangelico di domenica scorsa: “Effatà” cioè “Apriti!” (Mc 7,34). Pronunciandola Gesù aprì l’orecchio e la bocca del sordomuto, all’ascolto e alla proclamazione della Parola di Dio. La stessa parola si presta anche all’interpretazione dei brani biblici di oggi: quello profetico di Isaia (cf. Is 50,5-9), e quello evangelico di Pietro (cf. Mc 8,29). Anche in questi due casi assistiamo all’apertura dell’orecchio di Isaia, con cui si pone in ascolto della parola di Dio; e dell’intelligenza di Pietro, che gli consente di cogliere l’identità messianica di Gesù. Il senso di questa parola, dunque, si rivela decisivo e fondamentale per imparare, come dice Gesù a Pietro, a “pensare secondo Dio” (Mc 8,33), che consiste essenzialmente nell’aderire al suo disegno di salvezza.
Alla domanda di Gesù Pietro dà una risposta che costituisce un autentico capolavoro di fede. “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29), non dice solo il nucleo della fede cristiana, ma è rivelativa anche di una tradizione biblica fortemente caratterizzata dall’attesa messianica, come attesta anche la condivisione che Andrea fa proprio a Pietro al momento della sua chiamata: “Abbiamo trovato il Messia” (Gv 1,41). Attesa che ci fa capire che quella di Pietro non è una risposta avulsa dal contesto religioso, ma si inserisce all’interno di un piano rivelativo che Dio va dischiudendo nella storia degli uomini.
Ma proviamo ora a ricostruire l’episodio evangelico, non tanto per un’esigenza storica, quanto spirituale, per capire come possiamo anche noi diventare oggetto della stessa rivelazione di Dio a Pietro. Si tratta allora di predisporsi all’umiltà, come Gesù raccomanda nel Discorso delle Beatitudini, dove chiede ai suoi discepoli di essere “poveri in spirito” (Mt 5,3). Di contro l’arroganza, la presunzione, la superbia rischiano di ridurre tutto a una questione esclusivamente intellettiva. Fin dalle prime battute, invece, Gesù fa capire a Pietro che la sua intuizione, pur non escludendo la brillantezza della sua intelligenza, è essenzialmente un dono del Padre, del quale viene reso partecipe per mezzo del suo Spirito, come attesta la versione matteana dello stesso episodio: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16,17). In altre parole, per cogliere l’identità messianica di Gesù occorre pensare come Dio e per pensare come Dio occorre lasciarsi guidare dallo Spirito. È questa circolarità relazionale tra il Padre che rivela, lo Spirito che conduce e l’intelligenza umana che accoglie, alla base della conoscenza di Cristo.
Stranamente però Marco non fa alcuna menzione di questo processo rivelativo che Gesù stesso considera “beato”, capace di generare gaudio spirituale oltre che intellettivo, in chiunque ne assimila la metodologia. Tutta la sua attenzione sembra invece essere assorbita dallo strano discorso che Gesù tiene subito dopo questo episodio, che a livello esegetico viene qualificato come: “Primo annuncio della passione” (cf. Mc 8,31-35). Esso costituisce praticamente il cuore del nostro brano evangelico. Cerchiamo allora di capire le ragioni per cui Marco tralascia l’elogio di Gesù a Pietro per concentrarsi suquesto discorso che sembra cominciare già dal versetto precedente, e precisamente quando Gesù “ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno” (Mc 8,30). In realtà abbiamo già incontrato questo imperativo nel capitolo precedente, con una formula molto simile: “E comandò loro di non dirlo a nessuno” (Mc 7,36). Ci appare alquanto paradossale questo veto di Gesù: nel mentre da una parte indaga tra la gente e tra gli apostoli che idea avessero del messia, dall’altra proibisce severamente di non diffondere la sua identità messianica. Da dove nasce questa proibizione e perché Gesù la raccomanda così decisamente? Già domenica scorsa abbiamo accennato a questo aspetto, considerato caratteristico della sua metodologia evangelizzatrice. Nel caso specifico la proibizione, oltre ad evidenziare il “nascondimento”, tipico della dinamica rivelativa di Dio – della quale per altro Gesù si rende partecipe, come colui che si nasconde per esaltare l’opera del Padre, allo stesso modo con cui lo Spirito si vela per lasciare emergere quella del Figlio –evidenzia anche una rinnovata o meglio autentica visione messianica che Gesù stava realizzando attraverso la sua predicazione. Allo stesso modo del profeta Isaia anche Gesù è convinto che la vera identità messianica non si manifesta attraverso l’esercizio del potere religioso e politico, come ritenevano molti suoi connazionali – discepoli inclusi – ma attraverso la sofferenza, la fragilità, l’umiltà, la povertà, tutte caratteristiche che contrastano palesemente con la mentalità messianica di tipo davidico, così radicata nella cultura religiosa del suo tempo.
Per questa ragione la “passione” sulla quale insiste Marco, lungi dal ridurre il pensiero di Dio a una questione puramente intellettiva, evidenzia invece la chiave interpretativa per entrare nella logica intellettiva e cognitiva di Dio e del suo Messia. Una logica che Gesù ora insegna“apertamente”, non più in parabole, come potevano essere le immagini del “granello di senape” e del “chicco di grano”. E lo fa con una semplicità disarmante, convinto che il suo discorso potesse essere accolto e compreso con la stessa chiarezza anche dai suoi ascoltatori: “E cominciò ad insegnare loro che il Figlio dell’Uomo doveva molto soffrire ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere” (Mc 8,31). Dichiarando, in questo modo, che solo vivendo queste condizioni fino all’estremo della morte di sé, si sarebbe realizzato l’evento salvifico della risurrezione.
Ma ciò che nella mente di Gesù non fa una grinza, risulta del tutto incomprensibile perfino ai suoi discepoli e in particolare a Pietro, che ancora orgoglioso e baldanzoso di aver colto la sua identità messianica, ritiene addirittura di dover “prendere in disparte Gesù e rimproverarlo” (Mc 8,32), per aver detto simili cose. Noi non conosciamo le parole con cui Pietro rivolse a Gesù, ma il suo ci appare un gesto decisamente sfrontato e audace. E non è escluso che egli ritenesse Gesù bisognoso di sapere come dover esercitare il suo ruolo messianico, specie in quegli ambienti religiosi, così intrisi di politica, dove l’esercizio del potere necessita di un’adeguata esperienza concreta e navigata, magari come lui riteneva di avere. E vista la disinvoltura con cui Pietro simuove, mai e poi mai si sarebbe immaginato una reazione così dura da parte di Gesù, il quale giunge perfino ad apostrofarlo come “Satana”: “Va dietro a me, Satana!” (Mc 8,33). Un rimprovero del quale Marco ci riporta anche le ragioni: “Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,33). Ecco allora profilarsi davanti a noi la risposta alla domanda: come si fa a “pensare secondo Dio”? Risposta che Gesù esplicita nelle condizioni spirituali, esistenziali e intellettive che subito dopo rivolge ai suoi discepoli – ovvero a chiunque decide di mettersi alla sua sequela – di vivere cioè secondo quella stessa logica messianica che ha condotto lui ad accogliere e vivere il suo ministero messianico conformemente all’immagine del “Servo sofferente” preannunciato da Isaia. Il che significa che solo coloro che sapranno accogliere e vivere nella piccolezza, nell’umiltà e nella “povertà in spirito”, “rinnegando” – o se si preferisce – rinunciando volontariamente e liberamente a sestessi, fino a morire, potranno attuare quel processo che dà origine al pensiero di Cristo e alla vita nuova in lui.
È chiaro allora che per imparare a “pensare come Cristo” non si tratta solo di capire, ma di aderire pienamente e fino in fondo alla logica del suo amore salvifico, così come viene tracciata dal profeta Isaia. Il profeta apre il suo canto con un’affermazione che evidenzia l’opera di Dio in lui e l’adesione personale alla sua volontà: “Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza” (Is 50,5). “Aprire l’orecchio” significa ricevere dal Signore la capacità di penetrare a fondo il contenuto della sua chiamata, dinanzi alla quale li profeta non si sottrae, al contrario, aderisce con tutta la forza della sua mente e della sua volontà. In altre parole, egli, pur scoprendo che Dio gli prospetta una vita tutt’altro che idilliaca, accoglie la sua volontà nella piena libertà, come condizione fondamentale per procedere nella missione che il Signore gli aveva affidato. Senza questa libera e personale adesione diventa praticamente impossibile procedere nel cammino di conversione. Essa non si riduce ad assolvere solo qualche precetto religioso o mettere in pratica qualche norma morale, come prevedevano i farisei, ma di sposare interiormente la logica della passione. Isaia esprime tutta questa personale partecipazione con una serie di affermazioni che lasciano intendere la sua docile e definitiva conversione alla volontà di Dio e soprattutto alle responsabili conseguenze che essa avrebbe comportato nella sua vita: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi” (Is 50,6). Si tratta di un quadro persecutorio che prefigura quello sperimentato da Gesù durante la sua passione. Come Isaia anche Gesù, mentre sale verso Gerusalemme, indurisce la faccia come pietra (cf. Lc 9,51). “Indurire la faccia” non è solo un’espressione del volto, quanto una metafora per dire che, malgrado le circostanze avverse, egli è più che mai deciso a portare a termine il piano di Dio nella sua vita; ad andare, cioè, fino in fondo alla sua volontà, costi quel che costi. In questa cornice la presenza di Dio gli si rivela come fortezza della sua fedeltà, garante della sua giustizia, nonostante i ripetuti tentativi di confusione (cf. Is 50,7), ai quali lo sottopone il nemico. Ed è proprio in Dio che il profeta trova non solo la lucidità della sua mente, ma perfino la forza di rilanciare la sua sfida al nemico: “Chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste” (Is 50,8-9). Una svolta spirituale questa che solo chi confida pienamente in Dio può sperimentare in simili circostanze.
Questa consapevolezza spirituale e teologica, alla quale perviene il profeta, è ciò che più di tutto necessitiamo, oggi, in un contesto sociale, in rapido mutamento culturale, dove ogni verità sembra essere diventata relativa e “liquida”, soggetta cioè al fluido, incerto e volatile decomponimento e ricomponimento delle esperienze esistenziali personali e sociali.
La questione in gioco dunque non è il recupero della pratica religiosa che, malgrado tutto, molti custodiscono ancora tenacemente, quanto la conversione alla mentalità relazionale che Cristo è venuto a rivelarci. Essa non si riduce ad una riflessione più o meno profonda sulla conoscenza di Dio, ma prevede un’autentica metanoia, nel senso più originario del termine: da meta = oltre e nous = mente. La metanoia consiste dunque nell’andare oltre il modo abituale di pensare Dio e la vita religiosa tradizionale che ne è scaturita. Per una simile acquisizione non basta solo lo studio teologico, ma una concreta prassi evangelica. Non ci si può limitare acapire la sua parola, ma metterla in pratica secondo le indicazioni di Gesù (Mt 7,21-27). È a questo livello che la sua mentalità evangelica s’incarna nella nostra vita. Si tratta perciò di vivere con lui e come lui, nel quotidiano delle relazioni interpersonali, fino ad impregnarle del suo amore trinitario.
L’episodio di Pietro si rivela, dunque, emblematico per comprendere l’attuale crisi religiosa che preannuncia un vero e proprio passaggio epocale nel cammino di conversione a Cristo. Anche noi facciamo fatica a liberarci di quella visione di Chiesa imperiale, per acquisire invece quella umile, semplice e povera ispirata dal Vangelo. Anche noi, come Pietro, dinanzi all’annuncio della passione, ovvero delle reali e drammatiche conseguenze che la fede in lui ci prospetta, reagiamo pensando di correggere addirittura la logica del Vangelo. Come acquisire questa mentalità? Non si tratta di compiere uno sforzo intellettuale, ma di entrare nella logica rivelativa del Padre, imparare a pensare come lui, e per farlo occorre imparare a stare con Gesù, vivere con lui e come lui,conformando la nostra mentalità culturale a quella di Cristo, e più chiaramente alla sua logica crucis (cf. Mc 8,34-36).
Ma saprà questa immagine messianica di Gesù farsi spazio anche all’interno di quella mentalità ecclesiastica che considera e gestisce il potere religioso come manifestazione di sé? Una mentalità con la quale papa Francesco polemizza non poco e fatica a debellare anche tra i cristiani. La domanda cruciale è allora la seguente: siamo disposti a sposare questa logica di pensiero? Il futuro della nostra fede dipende anche dalla nostra risposta.




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