15 Maggio 2022 - Anno C - V Domenica di Pasqua
- don luigi
- 13 mag 2022
- Tempo di lettura: 6 min
At 14,21-27; Sal 144/145; Ap 21,1-5a; Gv 13,31-33a.34-35
La via della glorificazione evangelica

Rileggendo i brani biblici di queste ultime domeniche ci appare strano il riferimento al Discorso di Addio che Gesù pronuncia alla vigilia della sua Passione e Morte. Viene perciò da chiedersi: come mai la Chiesa avverte la necessità di riproporci simili brani evangelici, quando potrebbe benissimo farci meditare sui Racconti delle apparizioni? In realtà essa, in questo modo, sembra volerci educare a riflettere sull’evento della Risurrezione, per farci prendere coscienza dell’importanza che tale evento assume nella nostra vita di fede. Un’operazione fondamentale dunque alla quale dovremmo educarci, poiché non basta fare un’esperienza, sia pure divina, senza poi coglierne il senso; poiché solo a questo livello l’esperienza è in grado di trasformarci, cambiare la nostra mentalità e il nostro stile di vita. Si tratta perciò di individuare le chiavi di lettura contenute in questo Discorso e di capire come esse ci possono aiutare a penetrare a fondo il significato della Risurrezione. Il Discorso di Addio riferitoci da Giovanni, fuori dal contesto della Risurrezione, sarebbe un normale discorso di commiato testamentario, che un qualsiasi maestro rivolge ai suoi discepoli prima di morire; riletto invece alla luce della Risurrezione, diventa rivelativo della vita nuova, nella quale Cristo ci introduce attraverso la sua glorificazione.
“Glorificazione” costituisce allora un termine decisivo per cogliere il significato e soprattutto il modo con cui Gesù rivela la sua identità divina, come egli stesso afferma in questo brano evangelico: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito” (Gv 13,31-32). Parole apparentemente incomprensibili queste di Gesù, in affetti lo sono per chi trova duro aderire alla sua mentalità. Molti di noi, malgrado i segni come quello straordinariamente grande della “risurrezione”, continuano a rimanere scettici e diffidenti nei riguardi di Cristo, esattamente come quei Giudei di cui abbiamo parlato domenica scorsa, i quali trovavano scandalose le affermazioni che Gesù faceva circa la sua unità col Padre: “Io e il Padre siamo una sola cosa” (Gv 10,30). Per Gesù invece la testimonianza della sua divinità non si riduce alle parole, ma viene confermata dalle opere del Padre. La Risurrezione costituisce perciò l’opera che attesta in modo inconfutabile la divinità di Gesù. Questa tuttavia va compresa all’interno di un’ottica di fede, dove è possibile acquisire i criteri che consentono di cogliere tale verità. Tra questi criteri vi è appunto quello della “glorificazione”, o meglio del significato radicalmente diverso che Gesù attribuisce a questo termine. Ed è proprio su di esso che vorrei portare la vostra attenzione, per capire come viene inteso da Gesù e in cosa differisce dal nostro modo abituale di intenderlo.
Per Gesù la “glorificazione” non costituisce un modo per ostentare la grandezza personale, ma una condizione per manifestare la potenza di Dio. Essa non si attua alla maniera umana: attraverso il successo, il trionfo, lo sfoggio delle proprie qualità personali, bensì attraverso i propri limiti, la disfatta, l’insuccesso, il fallimento come il tragico evento della sua passione e morte in croce. La morte di croce costituisce perciò la massima espressione della gloria divina. È annullando totalmente se stesso che Cristo rivela il Padre, quale principio della sua divinità. Una vera e propria logica paradossale quella che insegna Cristo, per nulla attraente e suggestiva, rispetto a quella che possiamo attingere dalla nostra cultura, dove ogni cosa che pensiamo, diciamo e facciamo è in funzione di noi, dell’affermazione e dell’esaltazione della nostra soggettività. Pensiamo, solo per un attimo, a come esercitiamo le nostre capacità, abilità, qualità, in tutti gli ambiti della vita. Sin da bambini veniamo educati a considerarle e a praticarle come forme di esibizione personale, per primeggiare sugli altri, più che come talenti da mettere a disposizione del bene comune. Totalmente opposto invece è il modo con cui Gesù stabilisce le sue relazioni evangeliche: tutt’altro che tese alla testimonianza di sé, egli le vive in funzione del Padre e della rivelazione del suo piano d’amore salvifico. In altre parole lo scopo ultimo di Gesù e quindi di ogni suo discepolo non è la ricerca del consenso sociale, del successo personale, del riconoscimento delle proprie idee, delle proprie qualità, del proprio nome e della propria immagine, ma il rinnegamento di sé e di tutta quella mentalità che fa tendere alla riuscita e all’affermazione di sé. L’unico scopo che deve animare la vita del discepolo di Gesù è la realizzazione della vita nuova in Cristo nel mondo, esattamente come Cristo ha vissuto solo per la realizzazione del Regno di Dio. Comprendere questo modo di relazionarsi agli altri è fondamentale per chi si accinge a mettersi alla sequela di Cristo, poiché nella più apparente innocenza e incoscienza, noi rischiamo di seguitare a professarci cristiani mentre continuiamo a pensare, a parlare, ad agire e a vivere secondo la logica del mondo, senza cogliere la benché minima contraddizione. Ci diciamo cristiani, ma viviamo perfettamente alla maniera del mondo. Questo modo di vivere la fede, oggi, come in ogni epoca, è assolutamente improponibile.
Per vivere allora secondo la vita nuova che scaturisce dalla risurrezione di Cristo occorre, come ci ribadiscono ancora una volta Paolo e Barnaba nel libro degli Atti: “entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni” (At 14,22). Un passaggio necessario che già domenica scorsa abbiamo avuto modo di considerare, quando abbiamo commentato il brano apocalittico di Giovanni 7,14, dove la purificazione avviene “lavando le proprie vesti rendendole candide col sangue dell’agnello”. Un’immagine chiaramente contrastante questa di Giovanni, con la quale egli allude alla partecipazione personale alle tribolazioni di Cristo, quale condizione fondamentale per giungere alla salvezza. Pertanto una fede priva di qualsiasi forma di prova, sofferenza, difficoltà, limiti che contrastino col nostro stile di vita borghese, agiato, accomodante, compiacente, appagante è ben lontana dall’essere evangelica. Ciò non significa mettersi alla ricerca delle afflizioni, dei dolori, delle sconfitte, ma vivere quelli che la vita ci prospetta come forma di purificazione spirituale, convinti che essi costituiscono un modo con cui il Signore corregge e trasforma la nostra mentalità e la nostra vita, per conformarle a quella evangelica di Cristo.
A rendere ancora più esplicita la logica della “glorificazione” evangelica di cui parla Gesù, contribuisce la dinamica del “comandamento d’amore” (Gv 13,34), che egli definisce “antico” e “nuovo” al contempo. “Antico” perché già la Legge mosaica prevedeva d’amare il prossimo come se stessi, “nuovo” perché egli conferisce all’amore una nuova forma manifestativa che consiste nel “dare la propria vita”, esattamente come ha fatto lui sulla croce. Se c’è dunque un modo evangelico per “glorificare” se stessi, questo sta nel “dare la vita”, ovvero nel consegnare se stesso all’altro, come atto di supremo rinnegamento di sé e quindi di massima manifestazione dell’amore di Dio. È sulla croce che Gesù ha dato realmente la propria vita; ed è morendo a noi stessi, nelle diverse circostanze che la vita ci presenta, che anche noi realizziamo le parole di Gesù: “Io offro la mia vita. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso … Questo comando ho ricevuto dal Padre mio” (Gv 10,18). Una totale spogliazione di sé quella che richiede Cristo, quale condizione che consente a Dio di operare attraverso di noi e più specificamente attraverso le nostre debolezze, poiché è quando siamo deboli, nel senso che non siamo più nella condizione di appellarci alle nostre qualità, capacità, abilità, conoscenze, che si manifesta in noi la potenza di Dio, come dice san Paolo nella seconda lettera ai Corinti (cf. 2Cor 12,10). La novità di questo amore sta nel trasfigurare le relazioni quotidiane facendole nuove dall’interno, secondo la potenza di colui che “fa nuove tutte le cose” (cf. Ap 21,5). La “glorificazione” evangelica, pertanto, non mira al successo personale, ma al trionfo di Dio, non all’affermazione di sé, ma alla realizzazione del regno di Dio nel mondo. Cos’è allora la vita eterna che Cristo ci prospetta attraverso la sua risurrezione, se non quella presente, ma totalmente trasfigurata dall’amore divino di Cristo? A noi perciò il compito trasformare quelle insidiose e perniciose tentazioni che quotidianamente ci inducono a strumentalizzare i nostri servizi ecclesiali, a praticare i nostri talenti, ad esercitare il nostro ministero come forme di prestigio personale, più che come modi per glorificare l’amore di Dio. Contro queste tentazioni Gesù ci propone il totale rinnegamento di sé, quale condizione per la glorificazione di Dio in noi. È così facendo che possiamo contribuire a trasformare il cielo e la terra di prima e a proclamare con san Paolo: “Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose di prima sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17).




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