15 Dicembre 2024 - Anno C - III Domenica di Avvento
- don luigi
- 13 dic 2024
- Tempo di lettura: 9 min
Sof 3,14-17; Sal (Is 12,2-6); Fil 4,4-7; Lc 3,10-18
Vivere l’attesa
nella gioia della conversione

“Poiché il popolo era in attesa e tutti si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: Io vi battezzo con acqua, ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i legacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” (Lc 3,15-16).
L’attesa messianica è, come lascia intendere questo brano evangelico di Luca, caratterizzata dell’imminenza. Cristo è prossimo a venire! Protagonista di questo annuncio profetico è Giovanni il Battista, chiamato da Dio ad essere “Voce di uno che grida: nel deserto preparate la via del Signore” (Lc 3,4; Is 40,3). La corrispondenza di questo annuncio con la vicinanza del Natale, diventa per noi motivo di gioia. Non a caso questa 3a Domenica di Avvento viene definita anche “Gaudete” (letteralmente rallegratevi, dal latino gaudium che significa godere, gioire). “Siate lieti”, dice san Paolo ai Filippesi. Il suo non è solo un invito, ma un imperativo: “Gioite! Ve lo ripeto, rallegratevi!” (Fil 4,4). Questa sorta di ‘comando’ traspare ancora più chiaramente dal brano del profeta Sofonia, quando rivolgendosi al popolo d’Israele in esilio dice: “Rallegrati … grida di gioia Israele, esulta … perché il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico. Il Signore è in mezzo a te, non temere alcuna sventura … non lasciarti cadere le braccia. Il Signore in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia” (Sof 3,4-7). Entrambi i brani biblici ci esplicitano dunque le ragioni della gioia: per Sofonia, essa consiste nella revoca della condanna e nella rinnovata percezione della presenza di Dio che opera a favore del suo popolo; per san Paolo, invece, consiste nella certezza dell’imminente venuta del Signore, come lui stesso afferma: “Il Signore è vicino” (Fil 4,5).
Per meglio predisporci ad accogliere, con gioia, l’arrivo imminente del Cristo ci lasciamo interpellare dalla domanda che le folle posero al Battista: “Che cosa dobbiamo fare?” (Lc 3,10). Si tratta di una domanda molto concreta che rivela il desiderio di tradurre in pratica il cammino di conversione, suscitato dal Battista. Ed è proprio su questo rinnovamento di vita che intendiamo soffermare ora la nostra attenzione.
Nell’immaginario collettivo il termine conversione viene spesso associato a una condizione immediata, radicale e definitiva della nuova vita nella fede cristiana[1]. In realtà il Battista, nel rispondere alle folle, ci fa capire che essa prevede una gradualità, continuità e progressione che dura per tutta la vita. Non si finisce mai di convertirsi a Cristo. L’ideale che Gesù propone ai suoi discepoli: “Siate perfetti, com’è perfetto il Padre che è nei cieli” (Mt 5,48), è una perfezione che raggiungeremo solo nella nostra comunione d’amore piena e definitiva con lui. Ciò non esclude la possibilità di poterla sperimentare già durante il cammino di conversione, nella misura in cui ci disponiamo a praticare, nel quotidiano della nostra fede, la volontà di Dio.
Ma vediamo più da vicino quali sono le esigenza e le indicazioni del Battista. A nessuno degli astanti Giovanni chiede di lasciare tutto e di condurre la sua vita di penitenza e preghiera, ma di vivere appieno, con giustizia ed onestà, il proprio stato di vita. In fondo lo scopo ultimo della conversione altro non è che: vivere alla luce di Dio la propria vita, sforzandosi di conformarla alla sua volontà. Così, alle folle non chiede di praticare la giustizia distributiva, ovvero di dare a ciascuno il proprio, ma di mettere in comune i propri beni; ai pubblicani chiede di non esigere dai connazionali Israeliti più di quanto essi disponevano già attraverso il loro lavoro di esattori, ma di compiacersi del loro guadagno; ai soldati di non estorcere, sottraendo con inganno e ricatto, i beni degli altri, in virtù del proprio potere militare, ma di accontentarsi solo delle loro paghe. In altre parole Giovanni fa capire che una comunità credente fa di più, se ciascuno vive appieno la propria vocazione.
Ma queste indicazione giovannee valgono anche per noi, oggi? E in che modo possono diventare motivo di gioia? Nel tentativo di scoprirlo mi permetto di stimolare la vostra riflessione con ulteriori domande: la conversione viene percepita come un dovere morale e religioso o come la condizione della nostra libertà? L’adesione a Cristo prevede la rinuncia di noi stessi. Questo rinnegamento viene esperito come motivo di tristezza o di gioia? L’idea dell’imminente venuta di Cristo è veramente causa di letizia? Se non lui chi, o che cosa, ci rende liberi e gioiosi? In un contesto di nichilismo e pessimismo esistenziale come il nostro, riteniamo ancora possibile aspirare alla gioia e alla libertà? Al di là delle varie forme di sofferenza che possiamo sperimentare nella nostra quotidianità, pensiamo che la gioia e la libertà possano costituire un moto stabile e permanente della nostra vita spirituale? Cosa dovremmo fare per custodirle e cosa evitare per sottrarle al logorio del tempo? Quanti tra noi credenti considerano veramente Dio come il principio, il senso e il fine della propria gioia e libertà?
Alla luce di queste domande proviamo ora a rileggere con calma il brano di Isaia 12,2-6 che la Liturgia ci propone come preghiera salmica, e ci accorgeremo subito dell’enorme distanza che intercorre tra il nostro modo superficiale e distratto di vivere la fede e quello del profeta, che trova in Dio e più specificamente nella salvezza da lui donata, la ragione profonda della propria gioia: “Dio è la mia salvezza; / io confiderò, non temerò mai, / perché mia forza e mio canto è il Signore; / egli è la mia salvezza / … / Cantate inni al Signore, perché ha fatto opere grandi, / … / Gridate giulivi ed esultate, … / perché grande in mezzo a voi è il Santo di Israele”. Isaia sembra volerci svelare il segreto della sua gioia: “mia forza e mio canto è il Signore; / egli è la mia salvezza”. Perciò “Gridate giulivi ed esultate”. Ecco lo stile di vita della nostra fede.
È bello notare come tutti i protagonisti di questi brani biblici: il Battista, Isaia e San Paolo convergano nel ribadirci, oggi più che mai, la necessità di una conversione alla gioia e alla libertà. Essi ci chiedono di non guardare a questo rinnovamento come a un dovere morale, ma come a un cammino di gioia e di conoscenza della verità che ci fa liberi (cf. Gv 8,32). Un simile cambiamento, tuttavia, scaturisce solo dal sentirsi amati da Dio e dal condividere il suo amore col prossimo. Il dovere, infatti, genera obbligo, mentre l’amore genera libertà e gioia. E solo chi è libero decide di cambiare la propria vita. La gioia che essi ci propongono consiste allora nell’essere salvati da Dio, che in Cristo si fa prossimo a noi. È partecipando di questa salvezza, attraverso la sua vita battesimale[2], che abbiamo già ora modo di gustare la pienezza della sua gioia, come lui stesso afferma: “Vi ho detto questo perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). L’acquisizione di questo stile di vita non dipende da un momentaneo desiderio di cambiare, ma scaturisce da un costante anelito a conformare la propria vita a quella di Cristo. Qui è il fondamento della nostra gioia e il segreto della sua permanenza nella nostra vita. Vi auguro perciò di cogliere, sia pure per un solo istante, la pienezza della gioia di Cristo.
[1] Non è escluso che questi significati scaturiscano anche da una lettura superficiale dei racconti evangelici della chiamata, nei quali viene spesso sottolineata l’istantaneità, come emerge, per esempio, da questo racconto: “Mentre camminava lungo il mare di Galilea, (Gesù) vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: Seguitemi, vi farò pescatori di uomini. ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono” (Mt 4,18-20). Lo stesso accade anche per la chiamata di Giacomo e Giovanni, i quali “subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono” (Mt 4,22). Letta in questo modo la loro immediatezza spesso ci spaventa, specie se consideriamo l’idea di rinunciare istantaneamente al benessere in cui viviamo, spesso accompagnato anche da un lassismo morale che ci impedisce di praticare questa prontezza. In verità questi racconti evangelici sono caratterizzati da uno stile narrativo dettato dal criterio della sobrietà, brevità e semplicità del messaggio. All’evangelista interessa comunicare direttamente l’essenza del messaggio, senza troppe architetture narrative che per quanto attraenti e suggestive, possono risultare dispersive dal punto di vista spirituale.
[2] Giovanni esplicita la differenza tra i due battesimi in questi termini: “Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. In altre parole il battesimo di Giovanni, come tutti i sacrifici dell’Antico testamento, non poteva rimettere il peccato, ma aveva solo la funzione di generare la coscienza del peccato. La remissione del peccato non è un atto che scaturisce dalla volontà religiosa, ma un atto di grazia che solo Dio può operare. È qui che si esplicita la particolare azione di Cristo rispetto alle pratiche religiose mosaiche. Nessuno può rimettere il peccato se non Dio solo. Gesù rimette i peccati non perché si arroga il potere di Dio - autentico sacrilegio - ma perché Dio stesso gli rende testimonianza della sua divinità. Non a caso quando viene Battezzato da Giovanni nel Giordano si sente la voce del Padre che dice: “Questi è il Figlio mio prediletto, ascoltatelo”. Gli scribi, i farisei, i sacerdoti lo contestano perché lo ritengono solo un uomo. Gesù non si dà testimonianza, ma lascia al Padre dargli testimonianza con i miracoli, autentici segni della presenza operosa di Dio in lui. col suo battesimo di conversione Giovanni Battista ha la piena consapevolezza di compiere solo un gesto simbolico. Il suo battesimo non ha una efficacia giustificativa, come quello di Gesù. Egli è semplicemente un precursore, di colui che viene dopo. Lui è più forte. È lui “l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. È a lui che spetta il titolo di Unto, di Consacrato di Dio. Solo Lui ha la forza di rimettere i peccati. Io non sono degno neppure di chinarmi a slegare i lacci dei suoi sandali. Questa formula risulta per noi piuttosto incomprensibile. Per lo più viene intesa come manifestazione di umiltà da parte di Giovanni. In realtà si tratta della citazione di un detto, relativa ad una pratica antichissima, del tutto scomparsa già ai tempi di Gesù. Per capirla occorre leggere il capitolo quarto del libro di Rut. Secondo le antiche abitudini i matrimoni avvenivano nell’ambito di famiglie tra loro già imparentate. Per poter sposare una donna occorreva dare la precedenza a colui che era prima. Ora poteva capitare che uno pur disponendo del diritto di successione poteva rinunciarvi. La rinuncia avveniva attraverso un gesto pubblico, fatto per lo più davanti alla porta della città, dove tutti potevano vedere. Tale gesto consisteva nello slegarsi il sandalo, toglierselo e consegnarlo al successore. Quando Giovanni dice: “non sono degno di slegare il sandalo”, significa che lui riconosce di non poter essere lo sposo d’Israele (i profeti spesso parlano del rapporto tra Dio e Israele in termini sponsali cf. Is 62,5), benché ne abbia diritto, ma di consegnare la sua sposa direttamente al suo successore, riconosciuto come il Messia atteso. È lui lo sposo che Israele attende. La sua funzione profetica è quella di preparare la sposa così da consegnarla allo sposo.
Per avere un’idea di questa missione di Giovanni possiamo paragonare il suo gesto a quello del padre che accompagna la figlia in chiesa e davanti all’altare la consegna allo sposo, dicendo: ecco, questa è mia figlia. Io l’ho preparata, l’ho educata, l’ho formata. Ora la consegno a te, alla tua totale responsabilità. Da questo momento essa è tua. Ma c’è ancora un’altra formula che ci consente di capire ulteriormente la missione preparativa del Battista, che cito nella traduzione precedente a questa: “(Egli) Tiene in mano il ventilabro [tradotto con pala] per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la pula [tradotta con paglia] con un fuoco inestinguibile». Si tratta di un altro detto proverbiale importante, legato all’uso agricolo di quei tempi e comprensibile per noi se facciamo memoria del recente passato del lavoro dei nostri contadini. Che cos’è il ventilabro? È uno strumento agricolo che serve per vagliare il grano, per separare il grano dalla pula. In genere è uno strumento come un grande cesto che si tiene in mano e viene usato per far saltare e ricadere il frumento; in un giorno di vento l’aria porta via la leggerissima pula, la pellicola che avvolge i chicchi di grano. Il grano più pesante rimane e, facendo questa operazione più volte, si riesce a separare il grano dalla pula. È una immagine apocalittica. Giovanni Battista era un predicatore apocalittico, cioè apparteneva a una corrente spirituale, teologica, che annunciava l’intervento di Dio, separatore e giudice, alla fine dei tempi. Questo è proprio un elemento caratteristico del discorso apocalittico: attendere e annunciare l’intervento di Dio che distingua, separi, facendo separazione fra i buoni e i cattivi, eliminando i cattivi e garantendo la vita ai buoni. La predicazione di Giovanni Battista è una predicazione che annuncia il giudizio imminente di Dio. Quel Forte che porta il fuoco ha lo strumento per vagliare, per pulire l’aia, per separare, per distinguere. Una volta che avrà raccolto il grano lo metterà nel granaio, ma della pula… che ne farà? La brucerà! La pula non serve a niente, è uno scarto inutile, verrà bruciata con un fuoco inestinguibile. L’immagine è fortemente apocalittica, escatologica: c’è un fuoco che non si spegne, un fuoco che distrugge la pula, immagine dello scarto, del male, di quello che viene eliminato. La nuova traduzione ha pensato di cambiare i termini. Così nel tentativo di rendere comprensibile un significato si è alterato quello originale. Il ventilabro è diventato la pala e la pula è diventata paglia. Così il contadino tiene in mano la pala per pulire l’aia sporca di paglia. L’immagine della separazione si è perciò persa. Per altro i contadini non bruciano la paglia, bensì la usano, invece è la pula che viene dispersa. In altre parole il Battista sta dicendo: “Se siete grano buono il Signore vi metterà nel granaio, se invece siete leggeri come la pula il Signore vi lascerà portare via dal vento. Se, invece, il vento non vi porterà via egli vi brucerà con il fuoco. Pensateci”.




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