15/11/2020 - 33° Domenica del Tempo Ordinario - Anno A
- don luigi
- 15 nov 2020
- Tempo di lettura: 10 min
Aggiornamento: 16 nov 2020
Prv 31, 10-13.19-20.30-31; Sal 127/128; 1Ts 5, 1-6; Mt 125, 14-30
I talenti a servizio del Regno

Il discorso escatologico nel quale siamo stati introdotti domenica scorsa, con la parabola delle Dieci vergini (cf.Mt 25, 1-13), viene ripreso e ulteriormente sviluppato dalla parabola dei Talenti (cf. Mt 25, 14-30). Matteo le raccoglie all’interno di una sezione del suo libro che va proprio sotto il nome di Discorso escatologico (cf. Mt 24-25), che vi invito a leggere con attenzione per acquisire quel modo di considerare le vicende umane, personali e comunitarie, dal punto di vista di Dio, nella luce del suo piano salvifico. Si tratta di una visione che consente di sottrarsi alla cappa asfissiante delle quotidiane preoccupazioni umane e di non lasciarsi schiacciare dal peso delle situazioni drammatiche, come quella che stiamo vivendo a causa della pandemia, che sembra precluderci ogni possibilità di rinascita. Fare propria questa visione della vita significa perciò avere la possibilità di conservare quel clima di fiducia e di mitezza spirituale, anche quando tutt’intorno è angoscia e siamo fortemente attraversati dalla tentazione di lasciarci andare a noi stessi. Significativi a questo riguardo sono i salmi 27 e 118, 5-13, che meditati nell’attuale contesto sociale, consentono di intravedere un barlume di speranza, perfino nel buio più pesto e disperante della vita.
Sono due capitoli nei quali Matteo raccoglie tutte quelle esortazioni, discorsi, detti, parole che Gesù pronuncia in merito agli eventi che caratterizzeranno la fine dei tempi. Non sappiamo con precisione se si tratta della fine del tempo cronologico o della fine della logica del peccato nel mondo. In ogni caso si tratta di un tempo profondamente trasformativo, simile a quello che accade ad una persona o ad un popolo, quando è coinvolto in un processo di radicale conversione spirituale; solo che in questo caso tale processo riguarderà anche il cosmo intero (cf. Mt 24, 29-31), che come afferma san Paolo, anch’esso attende la rivelazione dei figli di Dio (cf. Rm 8, 18-25). Questo tempo viene qualificato col termine di apocalisse che letteralmente significa rivelazione, da qui quei continui riferimenti a Dio, che attraverso segni sconvolgenti e perfino catastrofici, manifesterà, in modo chiaro ed inequivocabile, il suo piano di salvezza ad ogni persona e popolo, e ciascuno avrà modo di prendere coscienza della propria identità, delle conseguenze della propria condotta di vita e della propria fede in Cristo, alla luce del suo amore. Non a caso questi due capitoli si concludono con un brano relativo al Giudizio finale (cf. Mt 25, 31-40). È importante dunque meditare attentamente queste due parabole, senza tralasciare quella del Fico (cf. Mt 24, 32-44), del Maggiordomo (cf. Mt 24, 45-51) e degli altri argomenti compresi in questo Discorso, perché contribuiscono a sviluppare la nostra immaginazione spirituale e conoscenza teologica, in merito a questo avvenimento universale.
Per introdurci nel significato della nostra parabola ci lasceremo guidare da alcune domande: a cosa allude Gesù con i talenti? Perché il padrone decide di condividerli con alcuni servi? Chi sono i servi nei quali il padrone pone tutta la sua fiducia? In che modo costoro e in vista di che sono chiamati a gestire un simile patrimonio? È chiaro che il padrone di casa sottintende Gesù stesso che dopo aver vissuto tra di noi, decide di partire, ovvero di ritornare al Padre e di lì poi tornare di nuovo tra noi, mentre il periodo in cui il padrone rimane assente, rimanda alla nostra vita terrena e a tutto ciò che noi siamo chiamati a fare per la Chiesa e nel mondo, in attesa della sua venuta. Questa brevissima descrizione ci induce a fare alcuni chiarimenti, il primo dei quali riguarda proprio i talenti. Ad una lettura più superficiale, saremmo portati a identificare i talenti solo con quelle qualità, abilità, attitudini, capacità che riscontriamo in tanti di noi e che Dio distribuisce secondo un criterio che ci appare fortemente discriminate. Non sono pochi coloro che non comprendendo l’esatto significato dei talenti, e ancora meno la logica con cui Dio li distribuisce alle persone, sono tentati dal giudicare Dio come ingiusto: non si capisce, infatti, perché mai egli dia ad alcuni più e ad altri meno. In realtà se osserviamo più attentamente prendiamo atto che i talenti di cui parla Gesù, più che indicare solo queste generiche qualità umane, per altro presente in tutti anche se in modo diverso, stanno ad indicare soprattutto le modalità con cui ciascuno li esercita in funzione del Regno. Provo a spiegarmi meglio: gli interlocutori a cui Gesù destina questa parabola non sono persone generiche, ma suoi discepoli, ovvero coloro che hanno deciso, in un modo o in un altro, chi più chi meno, di condividere con lui la fatica del Regno e ciò che la sua realizzazione comporta nel mondo. In tal senso i talenti di cui lui parla stanno ad indicare le responsabilità che essi si assumono in merito ai doni ricevuti. Si tratta perciò di persone che già lavorano per il suo Regno e dipendono da lui e che lui conosce al punto da sapere bene a chi dare cosa, come attesta il preambolo della parabola: “Chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi talenti”. Dio dunque non distribuisce a casaccio i suoi averi, ma con oculatezza e discernimento, attraverso una chiamata personale, come a dire che ciascuno viene creato da lui per realizzare uno specifico compito nel suo piano d’amore. Agli occhi di Dio nessuno vale più o meno di un altro. Questa è una visione tipicamente individualistica della vita, secondo la quale ciascuno fa di tutto per primeggiare sugli altri. Diversamente, invece, quando noi osserviamo la nostra vita, le nostre storie nella prospettiva unitaria del corpo o del concetto di popolo, dove ciascun membro vale quanto l’altro e nessuno può dire di essere più indispensabile dell’altro, allora la diversità e la ricchezza di cui ciascuno dispone, non è motivo di conflitto, ma di condivisione e di comunione. La testa per esempio per quanto nobile e raffinata sotto il piano intellettivo e creativo, può ben poco senza il tronco sul quale reggersi e dal quale attingere la vita; il tronco, a sua volta, per quanto ricco di organi, può ben poco senza la testa che ne armonizza la funzionalità e così gli arti, non hanno motivo di andare in un verso o in un altro, senza la testa che indica loro la direzione. Lo stesso discorso vale anche per i diversi ruoli che ciascuno di noi ricopre nell’ambito della vita sociale o ecclesiale. Cosa sarebbe se ci fossero solo artisti, o solo meccanici, solo professori, solo medici, solo sacerdoti, solo teologi, solo donne, solo uomini …? Non avremmo di che condividere o chiedere l’un l’altro. Poiché ciascuno basterebbe a se stesso. L’umanità, la vita sociale come quella ecclesiale è costituita in modo tale che ciascuno necessita dell’altro in un rapporto di reciproco scambio e condivisione. Ed è appunto questo sistema relazionale che ci costituisce come persone e non come individui. Questo chiarimento ci permette di sgombrare il campo da ogni equivoco o malinteso che può dare adito ad un possibile sospetto su Dio o sentimento di invidia sul piano spirituale. Dio distribuisce i talenti non in vista di un riconoscimento individuale, bensì in vista dell’espansione del suo capitale, ovvero del suo Regno. I talenti sono tutti in funzione del Regno, non degli individui. Questi ne dispongono non per se stessi, ma per l’espansione del Regno. È importante non perdere di vista questo obiettivo. Diversamente corriamo il rischio di ridurre tutto ad un discorso competitivo. Il talento, dunque, ha senso non se finalizzato a se stesso o al prestigio individuale, ma se riferito alla realizzazione del Regno nel mondo. Il capitale che ciascuno servo ha avuto in dono, come atto di fiducia estrema da parte di Dio e che deve custodire, difendere e sviluppare, è il Regno. Si capisce allora perché Dio premia chi ha avuto il coraggio di rischiare, l’audacia di investire, la perseveranza di attendere i frutti in vista del Regno e non chi invece per paura, pigrizia e negligenza ha considerato il talento come un trofeo personale di cui magari vantarsi, ma atrofizzandolo col suo modo pensare, dire e fare. Quante persone talentuose conosciamo che per motivi culturali, personali, morali finiscono con lo sperperare l’enorme capitale intellettivo, creativo, economico di cui dispongono. Costoro non sono forse tra quelli che non hanno ancora colto il significato della dimensione sociale o ecclesiale e continuano a vivere sempre chiusi all’interno di una visione egocentrica della vita? A pensare a dire e fare solo in funzione di se stessi? E quanti di questi pur facendo professione di fede cristiana, vanno continuamente alla ricerca del successo personale, conservano tenacemente un modo individualistico di vivere, senza mai convertirsi alla dimensione ecclesiale? Senza uno scopo ben preciso verso cui farli convergere, tutti i talenti di cui possiamo disporre rischiano di disperdesi nel non senso o non svilupparsi mai. E per Gesù lo scopo principale verso il quale il suo discepolo deve orientare la propria vita e far convergere tutte le proprie energie e forze è il Regno di Dio. I talenti hanno senso solo se finalizzati ad esso. Così mentre noi volgiamo l’attenzione al talento in sé e al prestigio che esso può arrecare alla nostra immagine, Gesù, attraverso questa parabola, ci aiuta a capire che essi sono solo, un modo, un mezzo, o più specificamente, un dono attraverso il quale Dio ci chiama a realizzare il suo Regno. E noi abbiamo il compito, non il diritto, di svilupparli e farli fruttare. Ciò che Dio premia non è solo l’abilità con cui alcuni dei suoi servi hanno fruttato i suoi talenti, ma la bontà e la generosità con cui hanno compiuto il loro investimenti e la fedeltà all’impegno preso. Non a caso egli si congratula con loro con queste parole: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto, prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25, 21). Il senso dei talenti è tutto qui: nel riconoscerli come condizione per prendere parte alla gioia di Dio. Questa partecipazione che Dio intende fare della sua gioia è la ragione della distribuzione dei talenti. Egli ci crea donando a ciascuno una parte di sé, per rendere piena la sua gioia. Ecco il motivo per cui anche Gesù, rivolgendosi ai suoi discepoli dice: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15, 11). Da qui l’assurdo comportamento di uno dei suoi servi quando invece di riconoscere il talento come motivo di partecipazione della gioia di Dio, nel tentativo di custodirlo lo atrofizza con la pigrizia e la paura, precludendosi così l’accesso alla comunione di Dio.
In questa ottica il talento di cui parla Gesù si riferisce a quella disposizione d’animo con cui una persona decide di mettere a servizio di Dio, tutte quelle qualità intellettive, creative, affettive, relazionali che contribuiscono alla realizzazione del suo Regno nel mondo. Il vero servo fedele diventa così colui che fa di tutto pur di vedere realizzato il piano d’amore di Dio e che trova in questa opera la massima realizzazione della propria vita. Diversamente chi per pigrizia, indolenza, negligenza, paura fa poco o nulla per contribuire alla diffusione, espansione, sviluppo, progresso, crescita del suo amore nel mondo è destinato alle tenebre, ovvero a sperimentare la forma più assurda e disperante della vita. Il che significa che la vita, l’intelligenza, l’amore, la fede, la ragione, lo spirito con tutto ciò che essi comportano, non sono affatto optional di cui possiamo disporre a nostro piacere, come purtroppo una certa cultura ci abitua a pensare, ma un talento, una responsabilità che riceviamo da Dio e che abbiamo il dovere di sviluppare in tutte le loro forme, latitudini e longitudini umane, personali e relazionali, così da prendere parte alla gioia di Dio stesso.
Riletta insieme alla parabola delle Dieci Vergini questa dei Talenti ci aiuta a capire ulteriori aspetti sui quali volgere la nostra attenzione e più precisamente sulla modalità con cui vivere l’attesa di Cristo e quindi la vita in chiave escatologica. Così mentre domenica scorsa siamo stati invitati a riflettere sulla imprevedibilità di Dio, quest’oggi, veniamo invitati a cogliere la modalità con cui ciascuno mette a frutto i talenti ricevuti. Se attraverso l’una siamo chiamati a vivere la vita come attesa di Cristo, a scrutare e a riconoscere nella notte i segni della sua presenza, per farci trovare pronti al suo arrivo, attraverso l’altra veniamo invitati a capire i modi (veglia, vigilanza, attenzione, cura, custodia, coraggio, audacia, rischio, creatività) con cui vivere l’attesa. Perciò tanto la verginità quanto i talenti rimandano alla fede in Dio e al modo con cui siamo chiamati a sviluppare le nostre energie, a investire i nostri capitali a impegnare insomma tutte le nostre risorse intellettuali, creative, affettive per il suo sviluppo. Ogni parabola, pertanto, fa luce sulla vera natura del nostro rapporto personale con Dio che stando a Gesù, necessita di essere vissuto non all’insegna della paura o della pedissequa obbedienze servile, ma come la condizione più favorevole di cui disponiamo, per esercitare al massimo le nostre potenzialità e qualità, sperimentare appieno la nostra libertà e portare a compimento la nostra vita. La fede è un capitale troppo prezioso per essere ridotta ad uno sterile spiritualismo, svigorito e refrattario, come fa il servo “pigro e malvagio”, essa va incarnata nella vita con tutti i rischi che una simile operazione comporta. La fede non viene conferita per garantirsi la salvezza personale, ma per coinvolgere e rendere partecipi, il maggior numero di persone possibili, della comunione d’amore di Dio.
La modalità con cui ciascuno si impegna ad esercitare i propri talenti determina anche il loro sviluppo o il loro declino, pertanto chi più ha il coraggio di osare e di investire i propri talenti, più aumenta la possibilità di far fruttare il capitale gli è stato affidato: “Chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza”. Diversamente chi per paura non osa investire non solo non aumenta il capitale, ma gli “sarà tolto anche quello che ha” (Mt 25, 29). Il che tradotto a livello spirituale significa che più avremo il coraggio di lanciarci con generosità, altruismo e disinteresse nell’avventura divina della fede più aumenteremo la possibilità di partecipare dell’amore salvifico di Cristo. Meno vivremo in questo modo e più ci precluderemo una simile possibilità.
Si comprende così anche il senso della prima lettura, tratta dal libro dei Proverbi, nella quale viene descritto l’atteggiamento tipico di chi con disciplina, diligenza, attenzione, pazienza, accuratezza, oculatezza, ragionevolezza, intelligenza, esperienza, attitudine, abilità si dà da fare non solo per portare a termine il proprio dovere, ma vive tutto ciò come un pretesto per acquisire quella Sapienza che le dà la possibilità di partecipare intimamente della gioia del marito. E chi è il marito se non lo Sposo con cui la vergine condivide il suo banchetto e talamo d’amore? E cosa sono tutte queste caratteristiche della donna, forte e saggia, se non le condizioni con le quali ciascuno di noi è chiamato a vivere la vita come attesa dell’incontro con Cristo? Noi, come ribadisce san Paolo nella sua lettera ai Tessalonicesi, non sappiamo quando tale incontro avverrà, a maggior ragione abbiamo il dovere di mantenerci attenti e vigilanti, anche quando tutto intorno sembra svolgersi nella più assoluta pace, sicurezza e tranquillità (cf. Ts 5, 3). Ancora più questo avvertimento vale per noi, ovvero per quanti sono consapevoli e responsabili di dover vivere sempre con la tensione dell’attesa, affinché non accada di farci trovare impreparati e quindi ingiustificabili.
Al termine di questo commento proviamo, allora, a lasciarci interpellare da alcune domande: sono cosciente di disporre di alcuni talenti? Riesco a riconoscerli come dono in vista della vita sociale ed ecclesiale o li esercito solo per un prestigio personale? Su quali aspetti della vita tendo ad investire le mie energie intellettive, creative, affettive: su quelle scientifiche, artistiche, sportive, politiche, economiche o anche religiose, spirituali, relazionali? Vivo la fede solo in vista di una salvezza individuale o per quella ecclesiale della quale faccio parte? Cosa faccio per rendere feconda la fede e farla crescere in coloro che la condividono con me? A queste e ad altre domande che lo Spirito suscita dentro di noi possiamo, se vogliamo, dare una risposta personale ed ecclesiale.




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