14 Marzo 2021 - 4° Domenica di Quaresima Anno B
- don luigi
- 14 mar 2021
- Tempo di lettura: 9 min
2Cr 36,14-16.19-23; Sal 136/137; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21
Nicodemo: il pavido coraggio di un convertito

Vorrei introdurre il commento a questa quarta domenica di Quaresima con un ulteriore richiamo alla conversione, alla cui luce stiamo rileggendo tutti i brani biblici che la Chiesa ci sta proponendo durante il cammino preparativo alla Pasqua. Convertirsi significa rinnovare il proprio modo di pensare Dio, rispetto a quello comune con cui siamo soliti esperirlo e conoscerlo. In questo senso la conversione, quando è autentica, determina un vero e proprio cambiamento di rotta, inteso non solo come inversione di senso, ma anche come approfondimento e aumento radicale della conoscenza di Dio. Ciò prevede l’acquisizione di due aspetti, strettamente interagenti tra loro: la conoscenza della vera identità di Dio e l’acquisizione dei criteri che ne garantiscono la conoscenza. Non si tratta solo di conoscere Dio, ma di acquisire anche la coscienza critica che ci consente di verificare se quello che abbiamo acquisito di lui corrisponde al vero. Occorre perciò confrontare continuamente quella conoscenza di lui che acquisiamo attraverso le comuni fonti cognitive e cioè: il sentito dire, l’esperienza della vita, le relazioni interpersonali e lo studio con quella che scaturisce dalla Rivelazione di Dio, sedimentata nella Bibbia. Non basta perciò accontentarsi di quella conoscenza che conseguiamo con i naturali mezzi umani, come la ragione e l’intelligenza, ma occorre aprirsi anche a quella che Dio deposita in noi attraverso l’opera rivelativa di Cristo e del suo Spirito. Queste diverse fonti ci fanno prendere atto che la conoscenza di Dio non è solo una questione mentale, ma in primo luogo relazionale. Il Dio biblico è innanzi tutto un “Dio vivo e vero” (cf. 1Ts 1,9; Ger 10,10). Il che significa che non lo si conosce solo pensando, ma soprattutto vivendo e più specificamente relazionandosi a lui attraverso l’altro. Questa è la principale particolarità dell’approccio religioso proposto dalla testimonianza biblica, rispetto a quella che deriva dalla conoscenza filosofica, sostanzialmente fondata sulla ragione. Tali approcci tuttavia non vanno considerati come antagonisti, com’è tipico della cultura contemporanea. Senza escludere le dovute differenze esse convergono verso una conoscenza sinergica, caratterizzata cioè da una dimensione umana-divina. Le tensioni alle quali spesso danno adito, nel panorama culturale contemporaneo, sono dovute più alle loro assolutizzazioni che non alla loro naturale distinzione.
Questa premessa, apparentemente astratta e fuori luogo, in realtà fa luce sullo sforzo conversivo a cui è chiamato Nicodemo e con lui, ciascuno di noi, in questo tempo quaresimale. Nel caso specifico la conversione di Nicodemo, come quella di molti di noi, non riguarda tanto l’aspetto morale e spirituale, sui quali si fa molto spesso leva, come fossero gli unici aspetti della conversione, ma soprattutto religioso e intellettivo. Egli è chiamato ad una rinnovata struttura religiosa e perciò ad una nuova disposizione mentale. Nicodemo fa fatica a capire le parole di Gesù non perché sia moralmente indurito, ma perché non dispone delle nuove categorie mentali e religiose proposte da Gesù. Il suo comportamento religioso ci fa capire che senza un’adeguata struttura mentale non è possibile fare un’esperienza di Dio. Il gap intellettivo che lo caratterizza si manifesta nell’incapacità di riuscire a compiere il passaggio da una relazione con Dio fondata sul precetto, alla quale era stato educato attraverso la tradizione mosaica, ad una relazione fondata sulla libertà, come quella proposta da Gesù. Era stato abituato a relazionarsi con Dio sulla base di norme rigide, principi astratti e insegnamento precettistico; Gesù invece vuole introdurlo in una relazione fondata sulla libertà, il che prevede un’originaria esperienza d’amore personale con Dio. È qui il principio cognitivo e il senso fondativo di tutto il discorso che Gesù tiene a Nicodemo e che l’evangelista Giovanni sviluppa con un suo tipico approfondimento teologico: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
È chiaro che l’esperienza dell’amore di Dio di cui parla Gesù, non è affatto nuova nella testimonianza della fede biblica. Essa affonda le sue radici nelle origini della fede stessa. Sin dall’inizio della sua rivelazione Dio manifesta il suo volto misericordioso. E in diverse circostanze, malgrado l’indomabile senso di ribellione manifestato dal popolo, Dio continua a mostrarsi compassionevole, come attesta anche la rilettura sapienziale che l’autore del secondo libro delle Cronache, fa della storia salvifica del popolo d’Israele, durante la sua terribile esperienza dell’esilio babilonese. Straordinaria è l’affermazione che qualifica l’atteggiamento di Dio verso il suo popolo: “Il Signore si era consacrato a Gerusalemme” (2Cro 36,14), come a voler dire che si era dedicato totalmente alla causa del suo popolo, facendo di tutto pur di fargli sperimentare la tenerezza del suo amore viscerale. A questo scopo “mandò continuamente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti” (2Cro 36,15-16). Nonostante tutto “il Signore suscitò lo spirito di Ciro” il quale su incarico di Dio permette al popolo di tornare nella sua terra e di ricostruire il Tempio (cf. 2Cro 36,22-23).
Sebbene la testimonianza biblica fosse costellata di esperienze di un Dio d’amore come questa, non è stato facile per Nicodemo comprendere il senso delle parole di Gesù, benché lui fosse “maestro in Israele” (Gv 3,10). In realtà non lo è neanche per noi, nonostante la nostra mentalità e il nostro linguaggio religioso sia impregnato di questo dato evangelico. Tuttavia è proprio qui il nucleo della conversione alla quale siamo chiamati. Anche noi, come Nicodemo, pur appartenendo ad una tradizione religiosa ormai consolidata, siamo invitati non solo a rinnovare il nostro rapporto con Dio, ma a rivisitare la nostra relazione evangelica con Cristo. È qui infatti il mistero della salvezza, come Giovanni dimostra invece di aver ben compreso: “Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,17-18).
La questione nevralgica dunque non è la salvezza alla quale tutti in un modo o in un altro aspiriamo – c’è chi parla addirittura di salvezza laica, come una sorta di autoliberazione umana – ma la salvezza che Dio offre a ciascuno per mezzo di Cristo. Ecco lo zoccolo duro di tutto il discorso. Gesù si propone a Nicodemo come “l’unigenito Figlio di Dio nel quale c’è salvezza” (cf. Gv 3,16). Questa affermazione che per noi è del tutto scontata, suona agli occhi di Nicodemo come un’autentica bestemmia, dalla quale però lui, a differenza dei farisei, si lasciava interpellare, poiché riconosceva Gesù come un uomo di Dio (cf. Gv 3,2).
Questo “pavido coraggio” di Nicodemo riflette molto da vicino quello che anche noi assumiamo durante il nostro cammino di conversione. Anche noi ci riveliamo “pavidi” quando ci lasciamo condizionare e spesso addirittura bloccare, dall’opinione comune e dai pregiudizi che gli altri ingenerano su Gesù. Non mi riferisco solo alle opinioni e pregiudizi suscitati dai lontani, ma anche a quelli prodotti dai nostri stessi ambienti religiosi. Al tempo stesso dimostriamo di avere “coraggio”, quando nonostante tutto, anche noi come lui, ci lasciamo interpellare dallo Spirito che ci parla dentro e ci invita a fidarci di Cristo e a porre in lui tutta la nostra speranza di salvezza: “Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio, nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui” (Gv 3,2). Anche noi, non poche volte, nel tentativo di scoprire la verità, riusciamo ad andare oltre l’opinione comune e talvolta anche le convinzioni dei nostri amici più stretti. Sono quei rari casi in cui, pur di essere noi stessi e di rimanere fedeli alla voce di Dio che ci parla dentro, dimostriamo di saper metterci contro tutti e tutto. Tra il comune modo di pensare e la rivelazione di Dio c’è, dunque, la nostra esperienza personale che può conferire una svolta decisiva alla conversione. In questa personale esperienza religiosa Cristo fa da ago della bussola. Egli non solo orienta, ma costituisce il luogo stesso della rinnovata scoperta di Dio. Scegliere Cristo significa allora uscire fuori dal comune senso di vivere la religione ed aderire a quello spirito che scaturisce dalla sua folle e divina avventura dell’amore evangelico.
In questo senso la conversione alla quale molti di noi, come Nicodemo siamo invitati ,non prevede necessariamente l’abbandono di un atteggiamento di peccato e l’acquisizione di un comportamento giusto e moralmente integerrimo, ma l’abbandono di un modo tradizionale di vivere la fede, quello cioè che ci induce a stabilire spesso un rapporto molto superficiale, vago e generico con Dio, a favore di una relazione più intensa e personale con lui, ricompresa alla luce della nostra rinnovata e fondativa esperienza di Cristo.
Gesù traduce questo cammino di conversione, al quale invita Nicodemo, in termini di “rinascere dall’alto” (cf. Gv 3,3). Cosa significa? Nicodemo intende le parole di Gesù in modo letterale – ecco il gap intellettivo – per cui ritiene incomprensibile e impossibile “entrare una seconda volta nel grembo della madre e rinascere” (Gv 3,4). In realtà “rinascere dall’alto” è solo una metafora per dire che occorre imparare a pensare Dio da Dio e più specificamente da Cristo. È lui il nuovo punto di vista. Sua è la mentalità evangelica con la quale pensare Dio. Di solito ci accostiamo a Dio attraverso la nostra esperienza umana, fatta di studi, ricerche, indagini, approfondimenti, confronti. Non che tutto ciò sia sbagliato, al contrario, spesso costituisce il sostrato umano che consente a Dio di operare nella nostra vita. Ma occorre che tale esperienza sia trasfigurata dalla luce dello Spirito. È lui che guida il nostro spirito a pensare Dio come Cristo, conformandolo al suo modo di relazionarsi al Padre. E lo Spirito ci guida in molteplici modi, compresi quelli con cui plasma la nostra vita e la nostra storia attraverso le sconfitte, i dolori, le malattie. Si tratta di una guida misteriosa che avviene nell’intimo di noi e alla quale aderiamo grazie a quella sapienza che ci convince e ci fa riconoscere gli eventi della vita e le relazioni umane, come luoghi in cui Dio ci manifesta quotidianamente la sua volontà salvifica.
Solo chi accoglie e aderisce a questa modalità rivelativa di Gesù ha una reale conoscenza di Dio. Si tratta di una rivelazione paradossale che avviene secondo la logica assurda e apparentemente irragionevole della croce. Tutta l’esistenza storica di Gesù e più chiaramente la sua passione e morte, costituisce un modo tutto divino, di dire il suo amore per l’umanità. Da qui il paragone che fa della sua morte in croce con il serpente di Mosè nel deserto (cf. Gv 3,14). Come Mosè trasforma il serpente da simbolo del peccato in simbolo di salvezza, cosi Cristo trasforma la croce da simbolo di morte in simbolo di redenzione, da simbolo di giustizia in simbolo dell’amore misericordioso. L’amore di Cristo che lui traduce con la sua quotidiana vita evangelica, e soprattutto nel dono di sé che fa sulla croce, diventa così la vera condizione della salvezza divina. L’amore è l’unica ragione che giustifica l’incarnazione del Verbo. Dio non ha inviato il Figlio per condannare il mondo, ma per manifestare solo il suo amore. Solo chi fa esperienza di questo amore conosce veramente Dio. Solo l’amore salva. Gesù diventa criterio e cifra di salvezza. Fuori di questo amore nessuna salvezza diventa possibile. La condanna pertanto non è determinata dal peccato commesso, ma dal rifiuto dell’amore di Cristo: “Chi non crede è già stato condannato” (Gv 3, 18). È alla luce di questo amore che diventa possibile discernere il senso delle opere degli uomini: da quelli che agiscono per sé, per la propria gloria personale, sia pure in ambito religioso, a quelli che agiscono per il regno di Dio nel mondo. Il giudizio consiste allora nella evidente manifestazione delle intenzionalità che determinano l’agire dell’uomo. Tutto verrà alla luce e di ogni cosa ciascuno dovrà rendere ragione.
Nicodemo diventa così il simbolo di quanti non paghi di lasciarsi ingabbiare dai luoghi comuni – sia pure timidamente e nel nascondimento della notte – decidono di dare fiato a quella vocina dello Spirito, che come un lucignolo fumigante, resiste alla mentalità religiosa e culturale corrente e dilagante. Egli ci insegna che convertirsi significa uscire fuori da quella perniciosa mentalità religiosa che riduce il rapporto con Dio solo ad una questione morale o da quella intima e insidiosa convinzione che riduce la salvezza solo ad una questione di volontà. Convertirsi allora comporta lo sforzo di sviluppare quell’onesta ragionevolezza che ci fa credere il Vangelo di Cristo, come la più autentica, vera e credibile esperienza umana e divina al contempo. Il suo incontro con Cristo diventa per noi uno stimolo per confrontarci seriamente con chi fa un’autentica esperienza di Dio e si lascia da lui umilmente correggere e orientare la vita verso un sincero rapporto con Dio. La Quaresima, allora, ha senso solo se diventa occasione di verifica per capire se, in che termini e a che livello anche noi avvertiamo la necessità di questi passaggi di mentalità. Diversamente ogni percorso spirituale, per quanto pio, devoto e giusto, rischia di ridursi solo ad una pratica intimista e devozionista che non incide minimamente né sul cuore e ancor meno sulla mente.
La salvezza pertanto non è il risultato dei nostri meriti, ma dono di grazia mediante la fede: “per grazia siete stati salvati” (Ef 2, 5). “Essa non viene da noi, né viene dalle nostre opere, perché nessuno possa vantarsene” (v. 9). Malgrado il peccato Dio salva. Il suo non è un giudizio di condanna, ma di perdono. La sua è una pedagogia che si giustifica solo nell’orizzonte di un’eccedenza d’amore. Il suo unico scopo è quello di riversare nel nostro cuore il suo amore. Qui è tutta la sua gioia e il suo compiacimento. Qui è anche il senso della nostra conversione.




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