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14 Maggio 2023 - Anno A - VI Domenica di Pasqua


At 8,5-8.14-17; Sal 65/66; 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21


Il dono del Paraclito nell’oggi della fede

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“Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità” (Gv 14,15). È la promessa che Gesù fa agli apostoli dopo aver comunicato loro che, da lì a poco, sarebbe tornato al Padre, garantendo così la continuità della sua presenza in mezzo a loro, senza lasciarli orfani (cf. Gv 14,18). Dinanzi alla percezione dello sconforto gli apostoli si sentono così rassicurati con la promessa dello Spirito, che Gesù definisce con tre appellativi: “Paraclito”, “Consolatore” e “Spirito di verità”, titoli che rivelano l’attività dello Spirito nella nascente comunità ecclesiale. Nel tentativo di scoprire il loro significato, cogliamo l’occasione per conoscere più da vicino l’identità di questo “Dio sconosciuto”, come lo definisce qualche teologo nel titolo di un suo libro[1] e che Gesù, malgrado tutto, continua a donare alla sua Chiesa, per aiutarci a proseguire la sua opera nel tempo.

Paraclito” significa: chiamato presso, invocato, da cui l’equivalente latino ad-vocatus, cioè “Avvocato”. Egli infatti viene in-vocato in tutte le circostanze, specie quelle in cui gli apostoli si scoprono impreparati nel sapere cosa dire durante le persecuzioni: “Non preoccupatevi di quello che dovrete dire, perché in quel momento non siete voi a parlare, ma lo Spirito Santo” (Mc 13,11); oppure quando essi devono discernere il sostituto di Giuda (cf At 1,15-26), o ancora quando vengono invitati a “pregare per i Samaritani perché ricevessero lo Spirito Santo” (At 8,15.17), o ancora quando avvertono l’esigenza di estendere il loro annuncio evangelico anche agli Etiopi (cf. At 9,29), o in occasione dei primi battesimi ai pagani (cf. At 10,44ss).

In tutte queste circostanze il Paraclito rivela anche la sua missione ‘consolatrice’, da qui l’altro termine, con cui viene solitamente tradotto. “Consolatore” indica infatti: colui che sta con chi è solo. Non a caso Gesù lo definisce “altroConsolatore”, per distinguerlo da lui stesso (Gv 14,16). Lo Spirito infatti li consola allo stesso modo di Gesù, durante la missione che essi sono chiamati a svolgere nel mondo, a loro sconosciuto, dove più che mai essi avvertono l’esigenza di avere accanto qualcuno che li aiuti a capire cosa fare e come fare. Egli consola infondendo forza, intelligenza, coraggio e conferma nella fede (cf. At 1,8). La consolazione scaturisce perciò dalla certezza che lo Spirito sarà sempre con loro (Gv 14,16), allo stesso modo di Gesù: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Per questa ragione lo Spirito va inteso come dono della presenza viva ed operante di Cristo in mezzo a loro. Lo Spirito è Cristo stesso nella forma nuova della vita gloriosa.

Il terzo appellativo con cui Gesù definisce il suo dono è: “Spirito di verità” (Gv 14, 17), grazie al quale essi potranno indagare le profondità del mistero di Dio, che li guiderà alla comprensione della “verità tutta intera” (Gv 16,13), ovvero alla conoscenza della relazione d’amore che sussiste tra Cristo e il Padre. Lungi dall’essere una nozione astratta la “verità” di cui parla Gesù è la vita relazionale stessa di Dio, quella cioè che lui intesse col Padre, nello Spirito Santo. In altre parole è la vita trinitaria. Di questa vita gli apostoli vengono resi partecipi per mezzo dello Spirito, il quale “apre loro la mente alla comprensione” (cf. Lc 24,45) del suo pieno significato. L’insegnamento che lo Spirito dovrà svolgere presso i discepoli, pertanto, non è diverso rispetto a quello già svolto da Gesù: egli, infatti, non parlerà da se stesso, né dirà qualcosa in più o meno rispetto a quello che Gesù ha detto e fatto, ma: “vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto” (Gv 14,26; 16,13-15).

Si tratta perciò di un dono che non può essere conferito a tutti indistintamente, ma solo a coloro che sono stati predisposti da Gesù col suo insegnamento, alla sua accoglienza. Fuori di questa disposizione non è possibile comprenderlo e ancor meno riceverlo: “Il mondo non può riceverlo, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi” (Gv 14,17). Grazie alla sua presenza, allora, anche noi, come gli apostoli, nella misura in cui entriamo a far parte della comunità ecclesiale di Cristo, veniamo introdotti nella stessa dinamica d’amore: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò” (Gv 14,21); “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).

Segno evidente di questa presenza mistica di Gesù tra i suoi è dunque l’amore: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12). Amare è perciò la principale opera che gli apostoli sono chiamati a compiere nel mondo, attraverso la loro predicazione. L’amore è ciò che dà prova del comandamento che Cristo ha trasmesso loro: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35); allo stesso tempo rende gloria al Padre: “In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore” (Gv 15,8-10); e attesta la fedeltà all’insegnamento di Cristo in coloro che, attraverso gli apostoli, accoglieranno e metteranno in pratica i suoi comandamenti: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” (Gv 14, 21).

Tre dunque sono le condizioni che ci consentono di rendere viva ed operante l’azione dello Spirito nella Chiesa: l’accoglienza del suo dono; il rapporto di fede con Cristo; la vita secondo il comandamento del suo amore reciproco. È animati da questo Spirito di Cristo che anche noi, come Filippo, impareremo a “dare ragione della fedeche è in noi” (1Pt 3, 15) a coloro che “presteranno ascolto alle nostre parole”, non perché saremo capaci di fare discorsi forbiti, ma perché confermati dalla testimonianza delle nostre opere.



[1] Renè Laurentin, Lo Spirito Santo, questo sconosciuto, Queriniana, Brescia 1998.

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