14 Gennaio 2024 - Anno B - II Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 12 gen 2024
- Tempo di lettura: 8 min
1Sam 3,3b-10.19; Sal 39/40; 1Cor 6,13c-15°-17-20; Gv 1, 35-42
Chiamati a dimorare in Cristo

“Venne il Signore, stette di nuovo accanto a lui e lo chiamò ancora come le altre volte: Samuele, Samuele! Samuele rispose subito (e disse): Parla, perché il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,10).
“Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: Ecco l’Agnello di Dio! E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: Che cosa cercate? Gli risposero: Rabbi … dove dimori? Disse loro: Venite e vedrete. Andarono dunque e videro dove dimorava e quel giorno rimasero con lui” (Gv 1,35-39).
Dopo la straordinaria celebrazione dell’evento incarnativo, che ci ha dato modo di cogliere la novità della vita filiale rivelataci da Cristo e ciò che essa comporta per la nostra vita relazionale, la Chiesa ci propone quest’oggi il tema della “chiamata”. È significativo che una simile proposta coincida con l’inizio del Tempo Ordinario, perché ci suggerisce l’idea che la fede cristiana trova nella chiamata di Dio l’inizio del suo cammino ordinario e la sua concreata attuazione nel vissuto quotidiano. Noi cercheremo di cogliere questa opportunità, per approfondire questo aspetto della fede che ci riguarda personalmente e in modo comunitario. Di essa cercheremo allora di capire la sua origine divina; la dinamica con cui si dispiega nella nostra vita; i criteri per discernerla; la comunione d’amore con Cristo di cui ci rende partecipe e suoi inevitabili risvolti ecclesiali.
Prima però di introdurci nel tema, vorrei suggerirvi alcune indicazioni metodologiche, nella speranza che esse ci aiutino ad acquisire – come afferma san Paolo – quell’intelligenza spirituale che ci permette di giungere ad una più profonda conoscenza della volontà di Dio, così da essere ricolmi del suo Spirito di sapienza (cf. Ef 1,17; 4,13; Col 1,9). Vi propongo allora di leggere e meditare sui due capitoli precedenti alla chiamata di Samuele, per avere un quadro più generale della sua storia. Magari, chi vuole, potrebbe estendere la lettura pure ai capitoli successivi e confrontare poi la sua vocazione profetica con quella di Ezechiele 1,1-28; Geremia 1,4-5.17-19; Isaia 6,1-13; Mosè (cf. Es 3,1-4-17), per citare solo quelle più illustre, senza contare quella di Abramo che costituisce l’emblema di ogni chiamata (cf. Gen 12,1-9)[1]. Lo stesso discorso vale anche per il racconto di Giovanni. Si tratterà perciò di confrontarlo con quello parallelo dei Sinottici. Questa operazione ci aiuterà a capire non solo gli aspetti specifici di ogni racconto, ma anche la sensibilità teologica e spirituale del narratore. È importante questo esercizio perché noterete che nessuna chiamata nasce in modo estemporaneo – come dal nulla – ma si inserisce sempre in un preciso contesto storico, personale e comunitario, in risposta ad alcune situazioni particolari, spesso anche dolorose, come quella della mamma di Samuele (cf. 1Sam 1,9-18). Questo esercizio ci consentirà di capire che il tema della chiamata è comune a tutte le figure bibliche e tutti i racconti veterotestamentari sono concordi nel riconoscere la sua origine divina. Nella letteratura neotestamentaria, invece, la chiamata divina viene mediata da Cristo. In lui è Dio stesso che chiama. Tutti gli evangelisti riconoscono questa straordinaria novità, sebbene Giovanni[2], a differenza dei Sinottici che esaltano maggiormente l’iniziativa di Cristo, la lasci intendere anche come il risultato di una preliminare ricerca spirituale, come attesta l’affermazione di Andrea a Pietro: “Abbiamo trovato il Messia” (Gv 1,41). La ricostruzione giovannea si presenta perciò più verosimile, grazie all’annotazione che egli fa dell’appartenenza di questi due primi discepoli alla scuola del Battista. Nei Sinottici invece, a parte Luca[3], non abbiamo alcuna indicazione che essi abbiano conosciuto precedentemente Gesù[4].
Proviamo dunque, sulla base di questi racconti, a individuare quelle condizioni fondamentali che ci permettono di riconoscere la chiamata di Dio anche nella nostra vita e di capire come essa costituisca il presupposto per una scelta di totale consacrazione a Dio. Lo facciamo partendo da una brevissima annotazione sulla situazione critica della vita religiosa al tempo di Samuele, con la quale l’autore del libro sembra farci cogliere la ragione che ha permesso l’insorgere della vocazione profetica presso il popolo d’Israele. “La parola del Signore era rara in quei giorni” (1Sam 3,1). In un primo momento questa annotazione potrebbe lasciarci intendere un silenzio piuttosto prolungato di Dio, in realtà essa ci suggerisce un significato più preciso. La “rarità”, di cui parla l’autore, non è tanto riferita alla loquacità di Dio, quanto piuttosto alla scarsità delle persone capaci di ascoltare la sua Parola, interpretarla e annunciarla. Da qui la necessità della vocazione profetica, il cui specifico significato non è quello di “presagire” il futuro, quanto quello di interpretare gli eventi della storia come segni della presenza operante di Dio nel mondo; e prevedere le possibili conseguenze che il rifiuto della sua Parola comporta per la vita personale e comunitaria degli uomini. Una situazione religiosa, dunque, piuttosto analoga alla nostra, specie se consideriamo la confusione e l’ambiguità morale e teologica che si è andata profilando recentemente nell’attuale contesto ecclesiale. La difficoltà fa sentire impellente il bisogno di educare le persone a vedere la storia dal punto di vista di Dio. Un compito niente affatto facile, neppure per Samuele. Perciò è importante vedere come Dio lo ha formato.
L’autore del libro, infatti, ci informa che egli venne gradualmente educato a questo sguardo sin dall’infanzia quando, su voto della madre Anna, venne consacrato al servizio di Dio nel tempio, dove operava il sacerdote Eli. Da lui apprende l’arte del discernimento spirituale, ovvero la capacità di distinguere, sulla base di alcuni criteri, le numerose voci che pullulano nel cuore dell’uomo[5]. Samuele, infatti, come ci ricorda l’autore del libro “fino ad allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata rivelata la parola del Signore” (1Sam 3,7). La presenza di Eli si rivela determinante per Samuele. Da lui apprende non solo l’arte del discernimento, ma anche la docilità con cui lasciarsi condurre dallo Spirito alla scoperta della propria vocazione profetica. Un ambito questo nel quale Samuele diventa una figura autorevole in quel tempo. Egli infatti “acquistò autorità poiché il Signore era con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole” (1Sam 3,19).
Alla stessa stregua di Eli anche il Battista si rivela determinante per “due dei suoi discepoli” (Gv 1,35), dei quali uno è Andrea, mentre l’altro viene riconosciuto dalla tradizione cristiana come Giovanni. È a loro, infatti, che il Battista si rivolge quando, vedendo passare Gesù, lo indica come “L’Agnello di Dio”[6]. Un dato questo che ci conferma non solo l’importanza del discernimento nel cammino vocazionale, ma anche della presenza di un maestro che educhi ad acquisirne l’arte. Confrontando questi due brani notiamo che ogni vocazione viene favorita dalla presenza di un testimone di Dio che la rende concreta, autentica e credibile nel vissuto quotidiano. Questi testimoni, in diversi casi, precedono, accompagnano e talvolta precorrono il futuro della nostra vocazione. Dio opera in noi attraverso la loro parola, il loro esempio, il loro annuncio, il loro stile di vita. Certo anch’essi talvolta si rivelano fragili, ma chi non lo è; neppure noi siamo sempre all’altezza. Per questo il nostro cammino vocazionale ci appare misterioso e talvolta persino assurdo e incomprensibile. In ogni caso la loro è una presenza che segna come pietre miliari la nostra ricerca di Dio. Grazie a loro impariamo a conoscere i criteri con cui Dio si manifesta nella nostra vita personale e, a diventare a nostra volta, trasmettitori della fede a quanti, come noi, sono animati dalla stessa ricerca e dalla stessa ansia di trovare Dio nella vita, esattamente come accade ad Andrea, il quale una volta conosciuto il Cristo lo annuncia immediatamente a Pietro suo fratello, al quale dice: “Abbiamo trovato il Messia”, come a dire che la loro ricerca spirituale è stata finalmente esaudita da Dio. Questa condivisione è a fondamento della diffusione e della dimensione pubblica della fede. Diversamente essa rischia di inaridirsi nel nostro individualismo spirituale.
Ad ogni modo la chiamata di questi due discepoli costituisce un episodio biblico molto importante, perché ci aiuta a comprendere il delicato passaggio dalla fede mosaica, alla fede cristiana, nonché il passaggio dalla dimensione personale a quella comunitaria e più specificamente ecclesiale. Significativo a questo riguardo è il distacco che i due discepoli compiono nei confronti del Battista, per dirigersi, su sua indicazione, a Cristo: “Ecco l’Agnello di Dio”, dice Giovanni ai suoi due discepoli, e questi “sentendolo parlare così”, da quel giorno “seguirono Gesù” (Gv 1, 36-37). Gesù viene riconosciuto come colui che porta a compimento l’attesa messianica, di cui aveva parlato già Mosè a suo tempo, quando rivolgendosi al popolo disse: “Per te il Signore, il tuo Dio, farà sorgere in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto” (Dt 18,15).

Questa rinnovata comprensione di Dio in Cristo, porta i due discepoli a compiere anche una straordinaria esperienza di comunione con lui. “Che cosa cercate?” chiede loro Gesù, ed essi, senza mezzi termini, dicono: “Maestro dove dimori?”. Essi non hanno più bisogno di conoscere l’identità di Gesù, poiché il Battista lo aveva già indicato loro come il Messia. Ora avvertono una maggiore esigenza: vogliono dimorare con lui, abitare nella sua stessa casa, partecipare della sua stessa vita. È chiaro che la domanda non si riferisce ad una dimora fisica, per altro Gesù non disponeva neppure di un cuscino dove poggiare il capo (cf. Mt 8,20), ma alla sua relazione col Padre. È questa la dimora nella quale i discepoli chiedono di entrare e nella quale sostarono “quel giorno” (cf. Gv 1,39). Mettersi alla sequela di Gesù significa allora aderire alla sua comunione col Padre, consacrarsi a questa rinnovata vita d’amore con lui. “Li chiamò perché stessero con lui”, ribadisce a questo proposito l’evangelista Marco 3,14; e Paolo ne conferma l’unità quando nella prima lettera ai Corinti dice: “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito” (1Cor 6,17). Qui è la vera dimora di Gesù. Qui è anche la nostra, come replica Gesù: “Se uno mi ama … anche il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (cf. Gv 14, 23). “Venite e vedrete” diventa perciò l’invito che Cristo rivolge a ciascuno di noi, e quello che a nostra volta, oggi più che mai, anche noi siamo chiamati a rivolgere ai nostri fratelli, se intendiamo rendere visibile e credibile la vita evangelica di Cristo nel mondo.
[1] La Bibbia, tuttavia, non esita a raccontare anche le difficoltà inerenti alla chiamata, come quelle provocate dai dubbi. A questo riguardo la chiamata di Gedeone offre interessanti spunti di riflessione (Gdc 6).
[2] Il racconto giovanneo si distingue anche per una diversa collocazione geografica della chiamata dai primi discepoli. Rispetto ai Sinottici che la collocano intorno al Lago di Galilea, egli infatti la situa lungo il Giordano e precisamente a Betania, nella Transgiordania, poco più in alto del Mar Morto.
[3] Tra i Sinottici l’evangelista Luca sembra voler evitare interpretazione che essi abbiano seguito Gesù al loro primo contatto, ponendo il racconto di alcuni miracoli, tra i quali quello della guarigione della suocera di Pietro, prima della loro chiamata (cf. Lc 4,38-5,11).
[4] L’evangelista Marco per esempio si limita a riferire solo l’essenziale della vocazione: la chiamata di Cristo e la risposta immediata dei discepoli.
[5] Discernere significa capire l’origine di una voce: essa può venire da Dio, dall’io, dalle persone o dal nemico. Non si tratta di un’abilità tecnica, ma di una qualità che scaturisce dalla prolungata familiarità con la vita di Dio. Stando alla testimonianza dell’autore Samuele faticò non poco ad acquisire quest’arte. Dio dovette chiamarlo per ben quattro volte (cf. 1Sam 3,4.6.8.10) prima che lui cominciasse a riconoscere l’origine divina della voce. Infatti nelle prime tre volte essa viene confusa con quella di Eli. L’insistenza diventa così anche un criterio per capire se una voce viene da Dio o meno. Diversamente essa tende ad affievolirsi nel tempo.
[6] Nella visione giovannea l’appellativo “Agnello di Dio” indica soprattutto il Cristo, al quale viene riconosciuto il carattere sacrificale della sua missione: come l’agnello anche Cristo non si sottrae alla sua morte, anzi pur consapevole della drammatica sorte che gli spetta, si mostra docile e obbediente alla volontà di Dio che si dischiude attraverso di essa. L’idea di associare Cristo all’agnello ha radici antiche: nel libro dell’Esodo il sangue dell’agnello, posto sugli stipiti delle porte, salva i figli d’Israele in Egitto al passaggio dell’angelo sterminatore (cf. Es 12,3-5). A memoria di questo evento il sacrificio dell’agnello era prescritto regolarmente nel Tempio di Gerusalemme. Sempre in questa ottica teologica il profeta Geremia aveva prefigurato nell’agnello il Cristo-vittima per i peccati del popolo, in virtù della sua innocenza e mansuetudine (Ger 11,19).




Commenti