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14 Aprile 2024 - Anno B - III Domenica di Pasqua



At 3,13-15.17-19; Sal 4; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48


L’intelligenza delle Scritture


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“Aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45).

È il versetto col quale l’evangelista Luca ci esprime l’attività che, più di ogni altra, sembra impegnare Cristo all’indomani della sua risurrezione. Luca, infatti, ci descrive l’immagine di un Cristo tutto impegnato a dare ai discepoli le ultime istruzioni – prima della sua Ascensione al Cielo – durante le quali non fa altro che riprendere e sviluppare, ulteriormente, l’insegnamento cominciato già precedentemente con i vari “annunci della passione”: “Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” (cf. Lc 24,44; 24,25-27; 9,22. 44;18,31-33).

Rileggendo con attenzione i racconti lucani delle “apparizioni” prendiamo atto che in diverse circostanze Cristo viene colto nell’atto di “insegnare” e “spiegare” le Scritture, come a voler portare a termine, nei discepoli, il percorso di fede iniziato durante la sua vita terrena. Luca ci parla di questa attività di Cristo come di un’operazione niente affatto facoltativa, al contrario, necessaria e fondamentale per la fede degli apostoli. E ciò emerge, in modo particolare, anche dal brano dei due Discepoli di Emmaus, del quale spero di evidenziare i momenti salienti nei seguenti versetti: “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse tutte queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui … Quando fu a tavola con loro, prese il pane … lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero … Ed essi si dissero l’un l’altro: Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre … ci spiegava le Scritture?” (Lc 24,25-27.30-31)[1].

Si tratta, com’evidente, di versetti fondamentali, perché evidenziano non solo i modi con cui Cristo si manifesta dopo la sua risurrezione: “spezzando la parola” e “spezzando il pane”, ma anche i momenti decisivi del percorso di fede, con cui i discepoli giungono alla conoscenza del Cristo risorto. Appare chiaro allora che tutto l’insegnamento di Gesù, prima e dopo la sua risurrezione, è finalizzato a sviluppare nei discepoli l’intelligenza delle Scritture. Essa costituisce perciò un aspetto fondamentale, senza la quale la fede cristiana rischia di ridursi solo a una pratica religiosa o moralistica. Da qui la necessità di evidenziarne l’importanza, specie in questo contesto ecclesiale, particolarmente critico per la fede di molti cristiani.

Ma cos’è l’intelligenza delle Scritture? E perché viene così attentamente promossa e curata da Gesù? Per rispondere a queste domande è opportuno sgombrare il campo da tutta quella filosofia gnostica[2] che, in diverse circostanze della storia, ha portato e porta tutt’ora molte religioni, a considerare la salvezza come il risultato di una ‘conoscenza segreta’, riservata solo a pochi eletti, particolarmente dotati di qualità intellettive e speculative. L’intelligenza delle Scritture, invece, lungi dal ridursi ad un’attività cognitiva – comunque necessaria – è quella forma di conoscenza divina che scaturisce dal vissuto relazionale con Cristo, colto come il Verbo che dà senso a tutto il piano salvifico di Dio, dispiegato nelle Sacre Scritture.

Da questi due episodi emerge allora che nonostante l’intensa attività catechetica[3] di Cristo, i discepoli fanno fatica a comprendere il suo insegnamento. Viene perciò da chiedersi: perché essi si rivelano così “stolti e lenti di cuore” (cf. Lc 24,25)? Cos’è che tardavano a comprendere? Perché tale contenuto risultava così ostico alla loro intelligenza? Come mai essi riscontravano così tanta resistenza? Perché continuavano a dubitare nei loro cuori? Cosa impediva alla loro intelligenza di vedere il Cristo Risorto? E cos’è che non riuscivano a comprendere? A giudicare da questi interrogativi si capisce la ragione per cui Gesù fosse così attento a offrire loro il criterio interpretativo per comprendere la sua messianicità a partire dalle Scritture. Solo così essi avrebbero avuto modo di cogliere l’immagine del “Messia sofferente” nella sua passione, compresa come condizione necessaria per entrare nella gloria (cf. Lc 24,26-27).

Rapportando questo discorso al nostro cammino di fede, comprendiamo le ragioni per cui anche noi oggi fatichiamo a crescere nella fede, specie quando essa si presenta sotto l’aspetto della sofferenza e della prova. Anche per noi, infatti, la sofferenza costituisce uno zoccolo duro, ovvero la realtà più resistente alla nostra intelligenza. Per cui, anche noi recalcitriamo, quando ci troviamo dinanzi a questo mistero apparentemente impenetrabile. La resistenza è sintomo del peccato ancora vivo in noi. Esso genera nel cuore di ciascuno quel senso di ribellione che induce a rifiutare Cristo e a riconoscerlo come il vero salvatore del mondo. Ed è appunto questo atteggiamento ostile del cuore umano che rende duro l’insegnamento di Gesù: “Il Cristo dovrà patire” prima di “risuscitare dai morti il terzo giorno”, e solo a queste condizioni “nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati” (cf. Lc 24,46-47).

La mancata comprensione della croce è perciò all’origine della resistenza, della durezza, e dello scetticismo dei discepoli (cf. Lc 24,11.22-24.38; Gv 20,19). Ed è interessante osservare come Gesù, per aiutarli a superare questi limiti, si accosti a loro in silenzio, compiendo con loro un tratto di strada, come a voler entrare con discrezione nella loro vita, per condividere le loro paure (cf. Lc 24,15). E anche quando appare ai Dodici le prime parole e il primo gesto che egli compie verso di loro sono: “Pace a voi” (Lc 24,36) e “mostrò loro le mani e i piedi” (cf. Lc 24,39-40). Si tratta di un saluto e di un gesto che Gesù ripete spesso durante le apparizioni, specie agli apostoli (Lc 24,36.39-41; Gv 20,19-21). La pace che egli porta ai suoi è quella della definitiva riconciliazione con Dio, ovvero, quella condizione spirituale che si sperimenta quando si ha il coraggio di sciogliere tutte le tensioni interiori e lasciare definitivamente a Dio le redini della propria vita. Finché queste barriere psicologiche, morali, razionali ed esistenziali persistono, Cristo continua ad apparirci come un’illusione, un frutto della nostra immaginazione, per l’appunto, un “fantasma” come viene definito dagli apostoli (cf. Lc 24,39). Sembra, dunque, che Gesù con questo saluto e con questo gesto, abbia individuato il punto nevralgico della loro paura, il limite della loro intelligenza, che impediva loro di compiere l’ultima tappa del cammino di conversione. E questo consisteva nel far comprendere la croce come la chiave di lettura per accedere al mistero della sua identità messianica. La croce è lo scoglio contro il quale s’infrange costantemente la nostra ragione. La sua mancata comprensione impedisce, ai discepoli di ogni tempo, di rileggere la Scrittura alla luce degli eventi della “Passione, morte e Risurrezione” di Cristo; e gli eventi dolorosi di Cristo, alla luce delle profezie messianiche. Solo quando avviene questa connessione – tra ciò che la Scrittura dice in merito al Messia e alla sua missione salvifica (cf. Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12; Is 61,1-2; Sof 2,3), e ciò che Cristo ha detto e fatto (cf. Lc 9,21-27. 43-45; 13,31-35 e //) – la loro mente si illumina e accade il miracolo dell’intelligenza. Per la prima volta essi “intelligono” (da intus legere = leggere dentro), ovvero vedono dentro il mistero di Cristo, il quale sembra dischiudersi improvvisamente alla loro mente. E questa comprensione giunge quando essi hanno il coraggio di “spezzare la loro ragione”, e consegnarla a Cristo, esattamente come Cristo, consegnandosi a loro nello “spezzare il pane”, si diede a conoscere alla loro intelligenza (cf. Lc 24,30-31). “Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”[4]. I due discepoli di Emmaus, nel fare memoria di questo evento, ne descrivono anche gli effetti emotivi: “Non ci ardeva forse il cuore … mente ci spiegava le Scritture?” (Lc 24,32). Gli stessi effetti che Pietro provoca nel cuore dei suoi ascoltatori durante il Discorso di Pentecoste: “All’udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro …: Cosa dobbiamo fare?” (cf. At 2,37) [5]. Quella che Gesù fa compiere ai discepoli è un’esperienza integrale, che li coinvolge intellettivamente, spiritualmente, moralmente e culturalmente. Essa suscita una profonda pacificazione interiore, unita ad un’indescrivibile gioia e stupore (cf. Lc 20,20; 24,41).

Ricapitolando, possiamo dire allora che l’intelligenza delle Scritture è quella forma di conoscenza che, senza escludere la valenza speculativa della mente, scaturisce dal vissuto dell’amore evangelico e dalla familiarità con la Parola di Cristo, grazie ai quali abbiamo la possibilità di cogliere nella nostra vita i segni, i luoghi e le condizioni per giungere alla salvezza (cf. Sal 15). Tale conoscenza è quella che, in altri termini, viene espressa anche come intelligenza spirituale, ovvero quella conoscenza che scaturisce dalla sinergia tra l’attività intellettiva del nostro spirito e quella creativa dello Spirito di Dio; quello Spirito che Cristo elargirà con eccedenza ai suoi apostoli, a Pentecoste. Il brano degli Atti che la Liturgia ci propone nella prima lettura, costituisce uno straordinario esempio di questa intelligenza. Pietro, infatti, nel suo Discorso al popolo, dà testimonianza di aver ben compreso l’identità di Cristo alla luce delle Scritture, evidenziando come la sua missione salvifica altro non è che il compimento delle profezie (cf. At 3,13-15.17-19). Pertanto potremmo concludere questa meditazione ripetendo con san Gerolamo: L’ignoranza delle Scritture è indice dell’ignoranza di Cristo.  

 


[1] Vi suggerisco di leggere in continuità questi due episodi e, magari, di trascriverli a mano, in un vostro quaderno personale, nel quale, volendo, potrete appuntare anche le vostre esperienze e intuizioni spirituali che la Parola vi suggerisce. Questa operazione, apparentemente elementare, si rivela, invece, molto efficace ai fini di una lettura più attenta e proficua dei Vangeli. Essa vi insegnerà, per esempio, a scoprire le parole chiavi del testo, soffermandovi sul loro significato, molto spesso trascurato a causa di una lettura superficiale. Così facendo vi accorgerete che certe parole si rivelano estremamente illuminative per la nostra mente.

[2] La gnosi (dal greco gnosis “conoscenza”), è una forma di conoscenza religiosa di Dio, raggiunta per mezzo di un processo di illuminazione interiore, considerata come una fonte sicura di salvezza, prevista però solo per coloro che praticano alcuni riti misterici. Tutta la salvezza dipende esclusivamente dalla conoscenza intellettiva, a discapito della fede e delle opere. Questa forma di conoscenza è presente in molte religioni, tra cui anche il cristianesimo primitivo, come attestano gli scritti giovannei, nei quali troviamo diversi elementi cari allo gnosticismo, come le antinomie luce-tenebre, verità-menzogna, Dio-diavolo. Per questa ragione lo gnosticismo divenne motivo di forte polemica da parte di diversi Padri della Chiesa, che lo combatterono strenuamente.

[3] Catechesi deriva dal greco katékhesis che significa “insegnare a viva voce”. 

[4] E interessante notare come questa visione mostri tanta affinità con quella di Paolo sulla via di Damasco, del quale viene detto che dai suoi occhi caddero come delle “squame” (cf. At 9,18).

[5] Nel rivelare la sua identità Gesù partecipa agli apostoli la potenza trasfigurativa della Parola di Dio. Come Gesù, anche Pietro, perciò suscita negli ascoltatori la salvezza, convertendoli alla vita evangelica (cf At 2,37-41; Lc 24,33-35). 

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