14 Agosto 2022 - Anno C - XX Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 13 ago 2022
- Tempo di lettura: 5 min
Ger 38,4-6.8-10; Sal 39/40; Eb 12,1-4; Lc 12,49-57
L’ansia evangelica di Gesù

«Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione» (Lc 12, 49-51).
Parole decisamente sconcertanti quelle pronunciate da Gesù in questi versetti lucani che sconvolgono l’opinione di chi è abituato ad immaginarlo “mite e umile di cuore” (Mt 11,29) o “operatore di pace” (Mt 5,9), secondo il Discorso delle Beatitudini. Esse lasciano intendere un’ansia evangelica che non è facile capire se non alla luce dalla passione che Gesù nutre per il Regno di Dio. Il suo fervore è così veemente e impetuoso che non accenna a placarsi, finché non lo vede del tutto realizzato sulla terra. Si tratta allora di parole determinanti che segnano una svolta nella coscienza profetica di Gesù e in quella dei suoi interlocutori. D’ora in poi dinanzi a lui chiunque è chiamato a decidersi: “Chi non è con me è contro di me e chi non raccoglie con me disperde” (Mt 12,30).
Due sembrano gli episodi biblici che potrebbero aiutarci ad interpretare queste parole: uno è quello del “roveto ardente” che prendiamo dal libro dell’Esodo 3,1-6; l’altro è la profezia del vecchio Simeone, descritta nel Vangelo di Luca 2, 34-35. L’immagine del “roveto ardente” ci dà un’idea della profonda passione che Mosè nutriva per Dio. La sua fiamma era così incandescente da rimanere costantemente accesa nel suo cuore, senza mai consumarsi. E tale rimase per tutta la vita, anche dinanzi alle numerose prove e controversie che dovette affrontare. La profezia di Simeone, invece, porta alla luce il senso della missione di Gesù nel mondo: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori”. Una “pietra d’inciampo” (Rm 9,32), dunque, come dirà san Paolo, contro la quale si scontra la mentalità del mondo: chiunque urterà contro di essa rimarrà scandalizzato, diversamente chi crederà in lui non sarà deluso (cf. Rm 9,33); o ancora “una spada a doppio taglio” come lo definisce l’autore della lettera agli Ebrei: egli è “la parola di Dio viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto” (Eb 4, 12-13).
Ma cosa induce Gesù ad essere così radicale nei confronti dei suoi interlocutori e così provocante per noi, oggi, che ci chiediamo se e in che termini sia possibile perseguire ancora la sua radicalità, specie in un contesto sociale caratterizzato da un lassismo morale e da una cultura relativista e liquida come la nostra? Per rispondere a questa domanda ritengo opportuno innestare la risposta sull’insegnamento di Gesù, al quale abbiamo fatto riferimento in queste domeniche, tutto incentrato sulla “povertà evangelica”, intesa non tanto come rinuncia e privazione dei beni terreni, quanto piuttosto come libertà che scaturisce dal totale affidamento alla provvidenza del Padre che è nei cieli (cf. Lc 12,13-48). Aderire a questo stile di vita significa sposare, come Gesù, il suo ideale evangelico. La passione che egli nutre per il “Regno di Dio”, infatti, è così struggente da bruciargli dentro senza consumarsi, esattamente come il “roveto ardente” di Mosè. Egli concepisce la missione del Regno di Dio pari a quella di un “battesimo” (Lc 12,50), destinato a rinnovare il mondo dall’interno. Si tratta di un profondo processo di trasfigurazione, da estendere a tutti gli ambiti della vita umana. L’ansia che egli nutre per questa missione salvifica è tale da procurargli una profonda angoscia, che perdura in lui “finché tutto sia compiuto” (Lc 12,50). Nel corso del suo svolgimento egli non ammette compromessi da parte di coloro che hanno deciso di condividere con lui la sua missione, neppure nei confronti dei loro familiari: “D’ora in poi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due, e due contro tre, si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera” (Lc 12,52-53). Una radicalità questa manifestata da Gesù che ci interpella senza mezzi termini. È possibile giungere ad essere così esigenti? Può Cristo chiedere di metterci contro un familiare per amore suo e della sua causa evangelica? Quale madre sarebbe disposta a scegliere tra Gesù e la figlia? Questa sua esigenza non rasenta per caso il fanatismo? Sono domande che fanno tremare i polsi, perfino ai cristiani più convinti. Eppure le testimonianze di sequela che si sono susseguite nel corso della storia cristiana ci dicono che non sono mancati casi di scelte così estreme: basti pensare a san Francesco che dinanzi ad una simile alternativa decise di scegliere il Padre celeste, al posto di quello terreno, senza tuttavia scadere nel fanatismo. Personalmente ritengo che non è possibile comprendere questo tipo di esigenza se non all’interno di una relazione intima e profonda con Cristo. Vale perciò per essa quello che Gesù dice per il celibato: “Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso” (Mt 19,11).
Scegliere Cristo comporta esporsi alla sua stessa sorte: “Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi: se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra” (Gv 15,20). La sorte del discepolo è quella del testimone autentico che paga le conseguenze per la sua franchezza evangelica, come il Battista che non si tira indietro dinanzi alla denuncia della condotta immorale del re Erode (cf. Mc 6,17-28), oppure come, nel caso nostro, il profeta Geremia, che accetta senza esitazione le disposizioni del re Sedecia, al quale aveva osato contrastare la decisione di confidare solo nella forza del suo esercito per sconfiggere gli avversari (cf. Ger 38,4-6.8-10).
Decidersi per Cristo significa allora avere il coraggio di sottoporsi alla prova estrema della lacerazione interiore, quella cioè che scaturisce dalla scelta tra la logica del mondo e quella evangelica di Cristo, tra l’affetto umano dei familiari e l’amore divino di Cristo. Una lacerazione che egli esprime attraverso alcune immagini simboliche, apparentemente contrastanti, ma estremamente significative, come quella del “fuoco”, del “battesimo”, della “pace” e della “divisione”. Il “fuoco” incenerisce eppure la sua distruzione è anche motivo di vita nuova. Allo stesso modo anche il “battesimo”: le sue acque sono indice di morte, ma al tempo stesso origine di vita nuova in Cristo. Di pari anche la “pace” del mondo: esteriormente può essere segno di una serena convivenza, ma rivelarsi solo il risultato di un astuto compromesso; infine la “divisione”, quella di cui parla Cristo apparentemente può essere indice di una contraddizione interna, in realtà è nient’altro che il segno di una radicale presa di posizione nei confronti della mentalità del mondo.
Seguire Cristo significa allora provare la stessa ansia evangelica che egli nutriva per la salvezza del mondo. L’adesione a questa sua logica d’amore richiede una radicalità che non ammette indugi e compromessi, né col mondo né con le relazioni umane. Non si può aderire alla vita evangelica e poi vivere secondo il mondo o predicare l’amore di Cristo e poi lasciarsi imbrigliare dagli affetti umani. Seguire Cristo significa perpetuare la sua opera nel mondo, ovvero continuare il processo di trasfigurazione, inaugurato col suo battesimo e ciò richiede di morire a se stessi, esattamente come ha fatto lui che: “di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore” (Eb 12,2). Si tratta allora di “guardare attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, affinché non ci stanchiamo perdendoci d’animo” (Eb 12,3). Si tratta cioè di “tenere fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,2).




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