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14 - 16 Aprile 2022 - Anno C Triduo pasquale

Aggiornamento: 16 apr 2022


Il sacrificio che redime


L’obiettivo di questa omelia non è quello di svolgere un commento ai diversi brani biblici – cosa pressoché ardua, data la quantità dei testi che la liturgia propone in questa circostanza – ma mettere a fuoco il nucleo teologico del Triduo Pasquale. Per farlo ci lasceremo accompagnare da alcune domande, alle quali mi sforzerò, per quanto è possibile, di dare una risposta: in cosa consiste il Triduo Pasquale? Perché è così importante per la nostra fede cristiana? Qual è il suo messaggio centrale? Perché la passione, morte e risurrezione di Gesù ha valore redentivo? In che modo avviene la sua salvezza? Cos’hanno di speciale la passione e morte di Gesù rispetto alla sofferenza e morte di tutti gli uomini? In che modo esse soddisfano l’istanza salvifica di ciascuna persona? Si tratta com’è evidente di domande molto impegnative, ma estremamente importanti. La loro risposta qualifica il fondamento della nostra fede, dà respiro alla nostra speranza e giustifica il nostro amore per gli altri. Perciò è indispensabile che ciascuno faccia proprio il suo contenuto, per meglio rendere credibile e autentica la fede nel contesto sociale in cui vive. Non è facile gettare uno sguardo nel nucleo incandescente di questo mistero, ma l’operazione è necessaria, se vogliamo imparare a dare ragione della salvezza a chiunque ce ne chiede conto (cf. 1Pt 3,15-16). Io stesso mi sforzo di compierla nella piena consapevolezza di entrare in un terreno molto delicato e spinoso e per di più cercando di esprimerlo con un linguaggio comune, lontano dai tecnicismi teologici che potrebbero disagiare i meno addetti. Tale sforzo viene giustificato da un solo motivo: nutrire la fede di ciascuno di voi, con un linguaggio tanto chiaro quanto semplice e accessibile. Ciò non toglie che la comprensione di un simile contenuto necessita, da parte vostra, di una adesione piena e totale. Senza avere la pretesa di essere esaustivo, mi sforzerò di esplicitare il senso del Triduo Pasquale attraverso alcune parole chiavi: sacrificio, consegna, dono, passaggio con le quali mi auguro di favorire l’accesso a questo mistero. Esse pur distinte tra loro interagiscono all’unisono, per dire l’unico mistero della salvezza operata da Cristo. In questo senso non è possibile parlare dell’una senza tener presente l’altra.

Prima di addentrarci nel commento credo sia importante chiarire che sotto l’aspetto liturgico, il Triduo Pasquale non si riferisce tanto al tempo cronologico (non si tratta infatti di tre giorni effettivi), quanto a quello kariologico, ovvero al tempo in cui Dio interviene per manifestare la sua grazia salvifica. Più estesamente esso è relativo al tempo in cui noi lasciamo compiere efficacemente l’azione del suo Spirito in noi. Il Triduo si riferisce al tempo che va dai Vespri del Giovedì Santo ai Vespri del giorno di Pasqua; in cui ogni liturgia viene considerata come parte integrante di un’unica grande celebrazione. La Messa in CaenaDomini del Giovedì Santo, infatti, non si conclude, come di consueto, col saluto finale: “Andate in pace”, ma col silenzio. Di conseguenza anche l’Adorazione della Croce del Venerdì Santo, non comincia con l’usuale segno della croce, accompagnato dal saluto, ma direttamente con la Colletta e termina anch’essa col silenzio. Lo stesso discorso vale per la solenne Veglia, cuore di tutto il Triduo: comincia in silenzio e termina con il saluto finale.

Il termine sacrificio necessita di una breve spiegazione, per meglio comprendere il modo con cui viene compiuto da Cristo e il senso che gli viene conferito dalla Chiesa. In maniera molto semplificativa nell’Antico Testamento (AT) ci sono due modi con cui possono essere offerti dei doni al Signore e ciascuno viene espresso con un termine preciso: sacrificio ed olocausto. Mentre il sacrificio prevede l’offerta di un qualsiasi dono, come possono essere i frutti della terra; l’olocausto prevede invece il dono di un animale che viene interamente bruciato e consumato dal fuoco. Da qui la definizione di sacrificio cruento e sacrificio incruento, ovvero con e senza spargimento di sangue. L’animale con cui viene solitamente compiuto il sacrificio cruento è l’agnello. Il suo uso ha radici antichissime e rimanda al rito della cena pasquale istituita da Mosè. Il sangue sparso (sull’altare) sta ad indicare che la vita, di cui il sangue è simbolo, viene da Dio e a Dio ritorna. Nello specifico cristiano l’agnello è Cristo stesso che si offre a Dio (cf. Gv 1,29), perciò il termine viene usato nell’accezione di cruento, quando si riferisce al dono che Gesù ha fatto di sé sulla croce e incruento, quando si riferisce a quello che viene compiuto dai cristiani durante la celebrazione eucaristica.

L’atto del sacrificio accanto a quello della preghiera, costituisce una delle forme più antiche del culto religioso. Esso è presente in tutte le varie esperienze religiose, sia pure compiuto in diversi modi e sensi. La sua funzione è quella di stabilire un contatto con Dio, oppure quella di implorare un aiuto. Altri termini con cui viene solitamente tradotto sono quelli di dono, offerta. In ambito veterotestamentario (AT) esso viene esercitato nel tentativo di ristabilire la riconciliazione a seguito di un peccato o anche per intensificare la comunione con Dio. Esso costituisce perciò un modo con cui l’ebreo riconosce la sovranità di Dio e quindi sottomette a lui qualsiasi cosa creata. Ogni cosa ha origine da Dio e a lui viene riconsegnata e donata. In questo senso esso può essere svolto come forma di ringraziamento o come riconciliazione. Lo specifico del sacrificio biblico, come viene ripetutamente ribadito da Dio attraverso i profeti, non consiste tanto nell’offrire a Dio i doni della terra o degli animali, in quanto Dio non necessita affatto di tutto ciò, ma nel manifestare la riconoscenza piena e totale dell’uomo nei suoi confronti. Emblematici a questo riguardo sono i brani dei profeti Isaia ed Amos che chiariscono, come non mai, il senso del sacrificio, voluto da Dio (cf. Is 1,10-18; Am 5,21). Per questa ragione la forma più alta del sacrificio è e rimane quello di lode. Tale sacrificio consiste nel confessare e quindi nel riconoscere Dio come origine e principio della propria esistenza. L’uomo donando a Dio ciò che a sua volta ha ricevuto da lui, dimostra di saper rinunciare ad ogni cosa che garantisce la sua sussistenza, testimoniando così che la propria vita dipende in tutto e per tutto solo da Dio. È in questa offerta che l’uomo fa di sé che si attua la trasformazione redentiva della sua vita. Egli non vive in funzione delle cose e del loro possesso, ma di tutto dispone come dono e come condizione per vivere appieno la sua esistenza in relazione a Dio.

Questo modo di intendere il sacrificio, pur contenuto in modo implicito già nelle dichiarazioni dei profeti, trova il suo compimento e la sua massima espressione in Cristo: egli più di tutti interpreta, esplicita e realizza la volontà salvifica di Dio; non solo ridona a Dio ciò che da lui riceve, ma dona perfino se stesso, come atto di gratitudine. E ciò come espressione dell’infinito riconoscimento all’amore che Dio nutre nei suoi confronti. La sua diventa così un’esistenza eucaristica che trova la sua massima forma espressiva nelle parole che egli pronuncia durante l’Ultima Cena: “prendete e mangiate, questo è il mio corpo” - “prendete e bevete, questo è il mio sangue” (Mt 26,26-29 e //; 1Cor 11,23-29). L’Eucaristia che lui istituisce diventa il modo con cui lui prefigura il reale dono che farà di sé al mondo, durante la passione e morte. Essa sugella lo stile evangelico della sua vita e, al tempo stesso, costituisce il modello al quale ciascuno di noi è chiamato a conformare il proprio stile di vita. È in questo dono che si compie il senso delle nostre celebrazioni eucaristiche. In Cristo tutta la nostra esistenza diventa una perenne eucaristia, ovvero un eterno atto di gratitudine. È alla luce di tutto ciò che possiamo cogliere il senso delle parole che il Padre rivolge, agli astanti, durante il Battesimo e la Trasfigurazione di Gesù: “Questi è il figlio mio prediletto, ascoltatelo” (Mc 9,7; 1,11); “… nel quale mi sono compiaciuto” (Mt 3,17; Lc 3,22); “Egli è il mio eletto” (Is 42,1), ovvero, quello che più di tutti ha saputo interpretare la sua volontà salvifica. La modalità con cui Cristo vive la sua esistenza tra gli uomini esplicita ed esprime l’intenzione più autentica e profonda dell’amore salvifico di Dio. Ne manifesta la forma piena e totale. Cristo, infatti, non si limita a donare qualcosa di sé, ma giunge perfino a donare tutto se stesso: la sua volontà, la sua forza; la sua intelligenza, la sua creatività, il suo amore, in altre parole: la pienezza della sua vita. Egli vive la sua esistenza come un atto di totale consegna di sé a Dio e al prossimo. La particolarità di questo gesto sta nel fatto di consegnarsi non a chi lo ama, come accade, per esempio, nel caso di una mamma per il figlio, ma a chi ha deciso di ucciderlo: “La mia vita non è tolta, ma sono io che la dono” (Gv 10,18). Non sono gli uomini che rapiscono la sua vita, ma è lui che la consegna come espressione dell’amore che nutre per loro. E in quanto Figlio la consegna che fa di sé diviene a sua volta espressione della consegna che Dio fa di sé all’umanità. È partecipando di questo amore di Cristo che l’uomo ristabilisce la riconciliazione con Dio e quindi la sua definitiva comunione con lui.

Gesù incarna questa volontà salvifica del Padre durante tutta la sua vita, attraverso quelle relazioni interpersonali che egli stabilisce nel vissuto quotidiano. In questo senso la sua vita diventa un unico sacramento, attraverso il quale egli lascia defluire l’amore di Dio verso gli uomini e degli uomini verso Dio. Tale amore trova una sua estrema concentrazione nella Passione e morte di Cristo, riconosciuta, sin dall’inizio, dagli evangelisti come il nucleo fondativo della salvezza operata da Cristo. Da qui tutta l’attenzione particolareggiata che assume la descrizione narrativa di questo evento nei Vangeli, tanto da occupare almeno un terzo del loro racconto. È in questo momento così estremo che si compie la redenzione, intesa come manifestazione della forma più alta dell’amore salvifico di Dio: in Gesù Uomo-Dio è il Padre stesso che si consegna all’uomo e al contempo è l’uomo che si consegna al Padre. Con la sua morte Gesù consegna al Padre la linfa stessa della vita, facendola diventare linfa della vita trinitaria degli uomini. Il dono che Gesù fa di sé, compiuto nella più totale gratuità, libertà e consapevolezza, è perciò il centro vitale e il nucleo propulsivo di questo mistero salvifico compiuto da Cristo. Esso costituisce il kerigma, ovvero il cuore della fede cristiana, che si manifesta nella forma della passione, morte e risurrezione. È qui che accade il passaggio dalla morte alla vita nuova in lui, ovvero la definitiva conversione della vita dell’uomo alla vita di Dio. È qui che si compie l’Evento Pasquale. Qui si rinnova l’Antica alleanza mosaica prefigurata dal passaggio del Mar Rosso. Qui ha origine la vita nuova in Cristo (cf. Rm 6,3-11).

Gratuità, libertà e consapevolezza costituiscono l’alveo della sua esperienza d’amore divinoumano. L’amore è il principio, il senso e il fine di ogni suo pensiero, parola e atto. Tutto viene concepito, maturato e compiuto nell’amore. Tutto nasce dall’amore e ha come fine l’amore. Esso è il seno vitale entro cui accade il respiro dello Spirito di Dio in lui e quello suo in Dio. L’amore è il fuoco che alimenta la sua ansia salvifica: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso” (Lc 12,49). È in questo fuoco d’amore che egli consuma la sua vita, allo stesso modo con cui il fuoco consumava il corpo degli animali offerti a Dio sull’altare, nel Tempio. L’amore rimane l’unica chiave di lettura per accedere ad un mistero così grande. Fuori di questo orizzonte d’amore nessuna speculazione razionale, benché meno teologica, può giungere a sviscerare il cuore e la ragione che ha portato Gesù a compiere un gesto così estremo e radicale.

Egli compie tutto ciò non per conseguire un’ideale d’amore umano, al quale rimane fedele, alla maniera socratica per intenderci, ma esclusivamente per compiere quel piano salvifico che Dio rivela nell’arco di tempo che va dalla chiamata di Abramo fino alla sua morte sulla croce. È da questa volontà divina che egli si lascia interpellare, rinunciando totalmente a se stesso. Ed è da questa stessa volontà che ciascuno di noi è invitato a lasciarsi interpellare. In questa prospettiva la sofferenza e la morte che ciascun uomo e donna compie in Cristo, ovvero quando soffre e muore per la stessa causa di Cristo, non fa che perpetuare la sua salvezza nel mondo e nel tempo. Ognuno è chiamato ad attualizzare questo amore con la propria vita, facendo dono di sé, allo stesso modo di Cristo. È in questa consegna di sé a Dio e al prossimo che si compie la celebrazione eucaristica realizzata da Cristo. È qui che trova senso e risposta quell’indomabile inquietudine che alberga nel cuore di ogni uomo e che fa dire a Sant’Agostino: “Signore, il nostro cuore è inquieto, finché non riposa in te”.

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