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13 Marzo 2022 - Anno C - II Domenica di Quaresima


Gen 15,5-12.17-18; Sal 26/27; Fil 3,17-4,1; Lc 9,28-36


La Trasfigurazione: preludio della Risurrezione


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Dopo l’esperienza del deserto, nel quale Gesù è stato messo a dura prova dal diavolo con una serie di tentazioni che ci hanno aiutato a verificare l’autenticità della sua identità divina e della sua missione salvifica, la liturgia della Parola di oggi ci introduce nell’evento della Trasfigurazione, come a voler lasciarci intravedere la realtà della vita nuova alla quale siamo chiamati, attraverso la Risurrezione di Cristo (cf. Fil 3,20-21; Rm 6,3-8). Tentazioni e Trasfigurazione diventano così due tappe che contribuiscono a disegnare ulteriormente il profilo del nostro itinerario quaresimale verso la Pasqua.

È interessante notare che l’una e l’altra tappa sono accomunate dalla stessa esperienza di preghiera. Tuttavia, mentre nel brano delle Tentazioni essa viene praticata da Gesù come condizione per vincere le lusinghe del diavolo che insidiavano l’autorevolezza del suo potere divino (cf. Lc 4,4.8.12); nella Trasfigurazione essa viene vissuta come requisito per la manifestazione della sua vita divina (cf. Lc 9,29). Nell’uno e nell’altro caso essa ci fa capire che per superare le tentazioni, alle quale siamo continuamente esposti durante la vita quotidiana, non bastano le sole virtù[1], che il digiuno e l’elemosina ci aiutano a sviluppare, ma occorre la preghiera che ci abitua a tessere con Dio quell’intima relazione di fiducia, nella quale diventa possibile sperimentare la grazia e la forza che ci vengono dallo Spirito Santo.

Gli stessi luoghi nei quali essa viene praticata da Gesù ci aiutano a capire anche la sua funzione: il deserto (cf. Lc 4,1) ci ricorda la sua necessità nei momenti di aridità spirituale; il monte (cf. Lc 9,28), invece, ci suggerisce lo sforzo ascetico[2], al quale essa ci sprona durante il cammino di conversione. Deserto e monte diventano così simboli di due condizioni fondamentali della preghiera, di cui una ci abitua a sostenere il peso della prova e a perseverare in essa, specie nelle tentazioni più insidiose e tenaci; l’altra a entrare nella dimensione della contemplazione, intesa come comunione d’amore di Dio, nella quale dimorare quotidianamente. Queste due forme di preghiera vanno necessariamente praticate se s’intende vivere la vita secondo lo Spirito[3]. Nessuno, infatti, può pretendere di vincere le tentazioni appellandosi solo ad una volontà tenace o alle sole virtù umane, ma con Gesù, occorre lasciare agire in se stessi la potenza trasfigurativa della Parola di Dio, esattamente come lui fa durante ogni tentazione (cf. Lc 4,,4.8.12). È nella preghiera che la nostra vita, come il volto di Gesù, “cambia d’aspetto” (Lc 9,29). È con la preghiera che riveliamo alle persone l’immagine di Cristo dentro di noi, in vista della quale siamo stati creati (cf. Col 1,16; Ef 3,9). Ed è sempre con la preghiera che contribuiamo a manifestare al mondo e al creato la gloria dei figli di Dio (cf. Rm 8,19-23).

Luca introduce il brano della Trasfigurazione con due importanti annotazioni che passano spesso inosservati ad un lettore disattento, ma che costituiscono la chiave di lettura dell’intera pericope: “Otto giorni dopo” (Lc 9,28). Una formula palesemente pasquale con la quale Luca prefigura il giorno della manifestazione escatologica di Cristo. L’altra annotazione è: “Dopo questi discorsi”, essa rinvia il lettore a rileggere quanto meno il capitolo 9 del vangelo, entro cui è inserito il nostro episodio. Rileggendo questo capitolo, infatti, si capisce che i discorsi ai quali Luca si riferisce sono: la prima missione pubblica dei discepoli, la moltiplicazione dei pani, il primo annuncio della Passione e le condizioni per seguire Gesù. Subito dopo l’evento della Trasfigurazione troviamo, invece: il secondo annuncio della passione e la sua salita verso Gerusalemme. Inserita all’interno di una simile cornice diventa chiaro che la Trasfigurazione assume una valenza chiaramente simbolica. Essa non è un evento che evoca la realtà divina, ma è la manifestazione stessa della vita eterna di Dio nel presente. In altre parole quella realtà divina che Mosè intravide oltre il velo del mondo, Gesù la rende realmente visibile. In lui è Dio stesso che si dà a vedere nell’oggi della storia.

Nel descrivere l’evento della Trasfigurazione tutti i Sinottici ci riferiscono della presenza di Mosè e di Elia, il quali conversavano tra loro sull’esodo che Gesù avrebbe portato a compimento a Gerusalemme (cf. Lc 9,31). La loro presenza contribuisce a rendere più esplicito il significato della Trasfigurazione, che evidentemente non si riduce solo a quello di una manifestazione teofanica, ma intende confermare la valenza divina del piano salvifico di Cristo, di cui Mosè ed Elia costituiscono due figure emblematiche nell’antica alleanza. Cristo viene presentato infatti come colui che ricapitola e realizza nella sua persona, non solo tutte le promesse fatte ad Abramo – alle quali fa riferimento la prima lettura tratta dal libro della Genesi (15,5-12.17-18) – e la Legge rivelata a Mosè, ma rinnova anche il modo stesso di manifestarsi di Dio, di cui Elia è simbolo. La voce del Padre che dice: “Questi è il Figlio mio, l’eletto, ascoltatelo” (Lc 9,35), riportata da Luca e dagli altri evangelisti, diventa così il segno che conferma questa visione divina. Con Gesù Dio non irrompe più nel mondo dall’esterno, attraverso segni prodigiosi, come aveva fatto con Mosè (cf. Es 3,2), ma agisce dal di dentro del mondo, di cui la sua trasfigurazione è indice di quel rinnovamento già in atto nel mondo. In questo senso la salita al cielo sul carro di fuoco con la quale Elia conclude la sua vita (cf. 2Re 2,1-18), anticipa l’Ascensione di Cristo e dice la meta escatologica al quale il mondo è orientato.

Con la sua trasfigurazione Gesù rivoluziona il concetto classico di “teofania”, ovvero di “manifestazione sensibile di Dio”. Non si parla infatti di un Dio che appare in forma umana, come prevedeva la religione greca, per esempio, ma di un uomo che lascia intravedere l’originaria immagine divina dentro di sé. Il termine greco che noi traduciamo con “trasfigurazione” è meta-morfosi che letteralmente significa “oltre la forma”. In questo senso Gesù durante la trasfigurazione non assume una forma diversa rispetto a quella umana, ma lascia emergere la realtà divina che lo costituisce. In altre parole la forma umana di Cristo è così raggiante da diventare trasparenza divina. Luca esprime tutto ciò con una formula emblematica: “Mentre pregava il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante” (Lc 9,29).

Con Cristo per la prima volta i discepoli possono vedere Dio “faccia a faccia”, senza alcuna mediazione. Quella gloria che Mosè desiderò vedere direttamente, ma ottenne di vedere solo di spalle (Es 33,18.23), ora diviene visibile in Cristo. In lui, come dice san Paolo, “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9), perché è “irradiazione della sua gloria” (Eb 1,3a) e impronta, ovvero “scultura” della sua ipostasi (Eb 1,3b). La luce con la quale Cristo si fa vedere dai suoi discepoli è la stessa con cui il Padre si fa vedere da lui. Egli diventa così il volto stesso di Dio, tanto da poter dire: “Chi vede me, vede il Padre” (Gv 14, 9). Se nell’Antico Testamento la rivelazione di Dio era essenzialmente uditiva, con Cristo essa diventa anche visiva. Ciò che nessun occhio mai vide (1Cor 2,9), né Mosè (cf. Es 33,20), né Elia (cf. 1Re 19,13), ciò che “molti profeti e re hanno desiderato vedere e udire …” (cf. Lc 10, 21-24), ora i discepoli lo vedono e l’ascoltano.

Dinanzi a questa straordinaria visione sorprende il “sonno” di Pietro e dei suoi compagni (cf. Lc 9,32), lo stesso sonno che li coinvolgerà anche nell’orto degli ulivi, durante l’angosciante preghiera di Gesù (cf. Lc 22,45). È possibile dormire durante un’esperienza così coinvolgente a livello spirituale? Il suo sopraggiungere dice l’incapacità dello spirito umano a sostenere il peso della manifestazione gloriosa di Dio, al contempo può essere interpretato come una forma di tentazione con la quale il Nemico cerca di distogliere la nostra attenzione da Dio durante una simile esperienza spirituale. Tuttavia quando si svegliarono Pietro non esitò a dire: “Maestro è bello per noi essere qui. Facciamo tre tende …” (Lc 9,33). La tenda è simbolo della presenza di Dio, come afferma anche Giovanni nel suo prologo: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare (letteralmente si attendò) in mezzo a noi (cf. 1,14). Tuttavia anche il termine “capanna” che nella nuova traduzione sostituisce quello di “tenda”, ha la sua importanza, in quanto richiama la “Festa delle capanne” con cui gli ebrei celebravano il ricordo della permanenza del popolo nel deserto durante l’esodo (cf. Dt 16,13-15). In ogni caso Gesù costituisce la dimora definitiva di Dio. La sua è “una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo” (Eb 9,11).

La Trasfigurazione di Gesù diventa così un’anticipazione, nell’oggi della fede, della realtà verso la quale non solo i cristiani, ma il mondo stesso, sono orientati. Una realtà che diventa concreta e visibile nella misura in cui noi cristiani, come Gesù, sapremo lasciarci trasfigurare dalla potenza della preghiera, vera condizione capace di rinnovare il mondo dal di dentro, malgrado gli evidenti segni di contraddizione di cui oggi siamo spettatori. Si comprende allora ancora più concretamente la straordinaria intuizione dei Padri Conciliari: “Questo mondo ha bisogno di bellezza per non cadere nella disperazione”.


[1] La virtù è l’esercizio con cui una persona crea le giuste disposizioni d’animo, per vivere la vita orientata al bene. La fede cristiana eredita dalla tradizione sapienziale pagana e biblica questa pratica umanistica, operando una distinzione tra virtù cardinali e teologali. Quelle cardinali sono: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza: Esse sono qualità tipicamente umane, scaturite dalla secolare esperienza di vita delle persone. Esse vengono definite cardinali perché costituiscono i cardini della vita, nel senso che favoriscono lo sviluppo di quelle disposizioni fondamentali della volontà e dell’intelligenza, atte a orientare la propria vita al bene anziché al male. La loro funzione è quella di regolare le tensioni che scaturiscono dalle nostre passioni, per meglio gestire le scelte della nostra vita. La prudenza per esempio aiuta a valutare attentamente le azioni individuando il modo più opportuno e corretto di comportarsi nelle diverse situazioni. Inoltre aiuta a riconoscere il bene e a capire il modo migliore per realizzarlo. La giustizia è fondamentalmente un atteggiamento di onestà interiore, non solo morale e spirituale ma anche intellettiva, e consiste nel saper riconoscere e dare a ciascuno il proprio, secondo le relative capacità di ricezione. La fortezza è quella capacità che permette di affrontare le difficoltà e sofferenze della vita senza scoraggiarsi, perdersi d’animo o scadere nel pessimismo e nella disperazione. Essa assicura la fermezza e la costanza nel raggiungimento di un obiettivo, anche quando questo viene messo fortemente in discussione dagli altri o offuscato dalle prove più dure della vita. Una persona forte è fiduciosa, paziente, perseverante e disposta al sacrificio e ha maggiore possibilità di sopportare le avversità, le contrarietà e gli ostacoli che s’incontrano lungo il cammino. La temperanza, infine, aiuta a moderare l’attrattiva dei piaceri e consente di raggiungere un equilibrio nell’uso dei beni. Essa favorisce lo sviluppo di un dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. Le virtù teologali sono fede, speranza e carità. Rispetto a quelle cardinali che educano a saper gestire la vita umana nel modo migliore possibile, quelle teologali aiutano a vivere la relazione con Dio e a conformare la propria vita ai principi evangelici di Cristo. Queste virtù, a differenza di quelle cardinali, non possono essere ottenute per mezzo del solo sforzo umano, ma necessitano della grazia divina. Per mezzo della fede la persona crede in Dio e in tutto ciò che egli ha rivelato attraverso Cristo ed è stato espresso dalla Dottrina cristiana della Chiesa. La speranza è la virtù con la quale la persona desidera e attende da Dio la vita eterna, compresa come la massima espressione di felicità, e ripone nello Spirito l’aiuto per sperimentarla. La carità è la virtù che consente alle persone di crescere e perfezionarsi nell’amore verso Dio e verso il prossimo, vissuto secondo il comandamento dell’amore di Cristo. Secondo san Paolo la carità, rispetto a tutte le altre virtù cardinali e teologali, è l’unica che rimane anche quando entreremo nella comunione della vita divina (cf. 1Cor 13,13). La sua funzione è quella di abituarci fin d’ora a vivere secondo la logica dell’eterno amore di Dio. [2] Il termine ascesi letteralmente significa “esercitare”. Si tratta di una pratica spirituale volta al conseguimento della perfezione dell’amore di Dio, conseguita mediante la rinuncia di sé, intesa e vissuta come condizione per conformare la propria volontà, la propria mente, il proprio cuore a quelli di Dio. [3] San Paolo nella lettera ai Galati esorta i suoi discepoli a “camminare secondo lo Spirito”, ovvero ad aderire alla logica dell’amore di Cristo, così da conformare la propria vita a quella del suo stile evangelico (Gal 5,16.25).

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