13 Giugno 2021 - XI Domenica del Tempo Ordinario Anno B
- don luigi
- 13 giu 2021
- Tempo di lettura: 8 min
Ez 17, 22-24; Sal 91; 2 Cor 5, 6-10; Mc 4, 26-34
La logica mite e discreta
del Regno di Dio

Dopo le celebrazioni delle grandi solennità la Chiesa ci introduce nel vissuto quotidiano della fede attraverso una pagina evangelica che racconta la predicazione ordinaria di Gesù, tutta incentrata intorno al Regno di Dio. Si tratta di una realtà con la quale, purtroppo, noi cristiani non abbiamo molta familiarità, forse perché contrasta fortemente con una mentalità culturale e religiosa tutta incentrata nel “qui ed ora”. Il Regno di cui parla Gesù, infatti, è caratterizzato da una logica di vita che induce costantemente ciascuno ad andare al di là del proprio orizzonte terreno e a lasciarsi impregnare di quella tensione divina e trascendente che ci fa cercare le cose di lassù (cf. Col 3,1), ovvero la vita divina del Padre. Gesù parla di questa vita divina come dell’unico tesoro che ogni suo discepolo è chiamato ad accumulare (cf. Mt 6,19-21) e per il quale deve investire tutte le sue energie e potenzialità (cf. Mt 25,14-30). Potremmo perciò considerare la tensione verso il Regno di Dio, come quell’‘oltre divino’, anima la nostra vita spirituale ed evangelica che, mentre da una parte ci invita a prenderci cura del mondo e a trasfigurarlo con la logica dell’amore di Cristo, dall’altra ci invita a non confidare in esso, come di chi può soddisfare pienamente le nostre speranze (cf. Ger 17,5-8; Sal )[1]. Questa tensione dovrebbe animare anche la nostra vita ecclesiale. Se c’è una ragione che giustifica il nostro essere Chiesa nel mondo questa è proprio l’anelito a realizzare il Regno di Dio. La Chiesa, infatti, altro non è che una manifestazione umana ed immanente della realtà divina e trascendente del Regno di Dio. Queste parabole del Regno diventano allora l’occasione per conoscere ed acquisire quelle dinamiche spirituali che caratterizzano la fede di chi condivide con Gesù la stessa causa e ansia evangelica.
Come si fa a riconoscere il regno di Dio? Questa domanda viene posta, sia pure con un’intenzione diversa, anche a Gesù, da alcuni scribi e farisei: “Maestro vorremmo che tu ci facessi vedere un segno” (Mt 12,38). Nel rispondere Gesù fa riferimento al loro modo di prevedere il tempo, attraverso l’interpretazione dell’aspetto del cielo: “così voi dite: quando il cielo rosseggia la sera, significa che bel tempo si spera al mattino; e quando il cielo è rosso cupo, significa che è in arrivo una burrasca; se dunque siete in grado di prevedere il tempo a partire dall’aspetto del cielo, come mai non sapete distinguere i segni dei tempi? (cf. Mt 16,1-4). La difficoltà degli scribi, farisei e sadducei viene rilevata anche dai discepoli di Gesù. Non a caso egli comincia spesso le parabole sul regno con queste parole: “A cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo?” (Mc 4, 30). Gesù, com’è evidente, si sforza di trovare l’immagine più adatta per descrivere e rendere comprensibili le caratteristiche del regno. Occorre perciò imparare da questi paragoni di Gesù, per cogliere i segni con cui il regno si manifesta, ed acquisire i criteri con cui discernere la sua opera nel mondo.
Prima di addentrarci però nella visione che Gesù aveva del regno, una breve panoramica biblica potrebbe aiutarci a capire il senso del suo sviluppo storico. È chiaro che il Regno costituisce per Gesù lo scopo principale del suo annuncio evangelico: tutto ciò che egli pensa, dice e fa è in vista del Regno di Dio. Tuttavia esso non è affatto una novità assoluta della sua predicazione, poiché affonda le radici nella rivelazione della tradizione veterotestamentaria ebraica. L’idea del regno comincia ad affiorare quando gli israeliti chiedono al giudice Samuele di stabilire su di loro un re che li governi, come avviene per i popoli circostanti (cf. 1Sam 8). Una richiesta questa che suonò alle orecchie di Samuele come una “cattiva proposta” (1Sam 8,6), poiché gli parve un atto col quale gli israeliti intendevano rigettare la regalità di Jhwh. Tale richiesta infatti diete luogo ad una discussione piuttosto conflittuale, poiché c’era chi era favorevole ad un’organizzazione anche politica del regno e chi invece riteneva che esso dovesse avere solo una dimensione religiosa, senza contare che tale istanza esponeva il re ad un’interpretazione idolatrica, come avveniva per i sovrani degli imperi del tempo, considerati perfino come divinità. Nella valutazione biblica invece il re è e rimane un semplice uomo mortale, limitato nei suoi poteri. L’unico, invece, in grado di guidare veramente il popolo verso la salvezza è Jhwh. Egli è il Sovrano dei signori, il re dei re, il Signore degli eserciti, come ama definirlo spesso il profeta Isaia (cf. Is 10,23.24). Nonostante tutto Samuele coglie in questa paradossale richiesta una volontà divina, tanto da ungere come re il giovane Davide (1 Sam 16). In questo gesto profetico Israele vede una sorta di riconoscimento divino della propria domanda. Con Davide, infatti, Israele assume la fisionomia di un regno e acquista tutti i connotati di un’istituzione politica, al pari degli altri regni. Essa, sia pure tra mille difficoltà, si rivela determinante per lo sviluppo di quella tensione immanente della fede biblica che prepara le basi alla salvezza cristiana, compiuta da Cristo. Nell’immaginario collettivo, il regno davidico costituiva e forse costituisce ancora, la forma più concreta e convincente di regno, l’unica in grado di garantire al popolo ebraico la possibilità di un riconoscimento sociale, civile e giuridico presso gli altri popoli. Non mancano infatti i tentativi di ripristinare in Israele l’antico regno davidico, idea che è alla radice anche dell’attuale conflitto tra lo Stato d’Israele e quello Palestinese.
Col tempo questa visione politica del re comincia ad essere purificata e ad essere sostituita con quella del Messia regale, inteso come persona divina in grado di estendere il regno fino agli estremi confini della terra (Sal 2,7; Sal 110,1ss). Egli viene presentato dai profeti come un discendente del re Davide, il cui compito era quello di restaurare il regno davidico (cf. Is 2,2). La figura e la predicazione di Gesù si inseriscono all’interno di questo filone messianico, il quale però dà all’intuizione davidica un significato ben diverso. A suo avviso il rischio a cui espone una visione solo trascendente di Dio era quello di una salvezza esclusivamente escatologica, invece egli conferisce al regno una dimensione anche immanente, tale da considerarlo come un luogo di salvezza, già nell’oggi della storia. Egli stesso diviene questo luogo di salvezza. Non mancano, tuttavia, i tentativi, perfino tra i suoi discepoli, di ristabilire un regno politico. Da qui l’estrema cautela che Gesù manifesta tutte le volte che i suoi discepoli riconoscono in lui il Messia atteso, come attesta anche l’episodio a Cesarea di Filippo[2].
È importante allora inserire la realtà del regno nel contesto della predicazione di Gesù, se s’intende cogliere il significato che egli gli attribuisce. L’evangelista Marco sintetizza l’oggetto questo suo annuncio evangelico con le seguenti parole: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1, 15). Il “compimento” di cui parla Gesù non è quello del tempo cronologico, ma quello del tempo kairologico, quello in cui Dio manifesta la sua presenza e la sua opera attraverso l’azione salvifica di Gesù. I vari esorcismi e le diverse guarigioni che egli compie più che come gesti prodigiosi vanno interpretati come segni di questa presenza operante di Dio in mezzo al suo popolo: “Se io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio” (Lc 11,20). Si tratta, come giustamente annota Giovanni, di segni che lasciano lo spazio alla libertà interpretativa della fede. Solo chi dispone di questo criterio di lettura teologico-spirituale è in grado di riconoscerli come tali. Il regno infatti è caratterizzato da una logica manifestativa che contrasta fortemente con quella spesso sontuosa, imperiale e spettacolare dei nostri Stati. Al contrario esso si presenta come una realtà apparentemente piccola e insignificante, con una forma appena appena percepibile, perciò rischia di passare inosservato. Gesù stesso dice che “il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione” (Lc 17,21), e nessuno può dire: eccolo qui, o: eccolo là. Esso si presenta “come un granello di senape che quando viene seminato nel terreno, è il più piccolo di tutti i semi, ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra” (Mc 4,31-32).
Proviamo allora a capire l’aspetto specifico del regno che Gesù intende rilevare con questa parabola. Essa non è l’unico caso in cui Gesù paragona il regno ad un seme. Basti ricordare quella del chicco di grano, come traspare anche dallo stesso brano evangelico di Marco (cf.Mc 4,28-29; Gv 12,24). Egli si serve di questo paragone per farci intendere che il regno non è qualcosa di statico, immobile, ma una realtà viva, dinamica, vibrante, in continua crescita che dispone di un’autonomia e di una forza propria che ne garantisce lo sviluppo, indipendentemente dalle condizioni culturali favorevoli del mondo o della volontà umana. Come tutto questo avvenga rimane un mistero. Basti pensare a tutti quei popoli e persone che indipendentemente dalla fede cristiana, praticando la giustizia, la pace, la mitezza e tutte le altre forme di beatitudini, sono per Gesù operatori del regno. Pertanto la stessa Chiesa sembra non costituire l’unica forma manifestativa del regno. Il regno esula da qualsiasi confine religioso e culturale. La forma del regno, infatti, come quella del seme, muta nel tempo, per cui necessita di un’attenta osservazione che permetta di coglierne la continuità durante le diverse fasi di sviluppo.
A cosa allude Gesù con questa parabola? Qual è il senso che egli intende trasmetterci? Gesù sembra voler aiutare i suoi ascoltatori a considerare attentamente la realtà di Dio, specie in quei momenti della vita in cui si avverte forte l’anelito a compiere delle scelte esistenziali autentiche, durature, solide, capaci cioè di orientare e dare senso e consistenza alla vita. Si tratta di momenti molto delicati nei quali non è facile scegliere e dove il rischio di vedere vanificare la propria vita è sempre in agguato. Occorre perciò essere oculati e decisi nell’investire le proprie energie e i propri talenti (cf. Mt 25,14-30) e disporre di uno spiccato senso di discernimento. Spesso viviamo, invece, queste circostanze sull’onda delle emozioni estemporanee, guidati e condizionati da idee esistenziali e affettive molto suggestive e seducenti che solo apparentemente sembrano farci toccare il cielo con un dito, ma che in realtà si rivelano inconsistenti, inducendoci a delusioni così cocenti da entrare in una visione pessimistica e nichilistica della vita. Come non vedere in questa ottica la parabola dell’uomo moderno e contemporaneo, dopo le disillusioni delle varie forme di ideologie come: l’Illuminismo, l’Idealismo, il Soggettivismo l’Individualismo, il Nichilismo ... Basterebbe fermarsi a considerare i vari epiloghi storici, come le guerre e suicidi che esse hanno determinato per capire l’estrema pericolosità di queste forme di pensiero. Gesù invece ci dice che tra le tante possibili scelte della vita ve ne una che all’apparenza sembra non disporre di alcun interesse con cui attirare l’attenzione, ma che se si ha il coraggio di scegliere come l’unico scopo della vita (cf. Mt 22,35-40) ed investire su di essa tutte il proprio capitale intellettivo, creativo, cognitivo, affettivo, morale e spirituale, allora si rivela capace di schiudere la vita in un orizzonte spirituale infinito, vero, autentico, capace di dare senso, consistenza e pienezza alla vita.
Una parabola questa di Gesù che presenta molte affinità con quella del ramoscello di cedro di Ezechiele (cf. Ez 17,22-24), con la quale egli intende evidenziare la logica mite e discreta con la quale Dio, promuove e dona la sua salvezza ai popoli, scegliendo il piccolo e sparuto popolo d’Israele. Gesù eredita e traduce questa sensibilità tipicamente divina veterotestamentaria, col suo stile di vita evangelico, attraverso il quale ripete alle persone di ogni tempo e cultura: “Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite ed umile di cuore. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,28-30).
[1] Dalla predicazione di Gesù emerge un’idea di Regno che necessita di un costante e sempre nuovo equilibrio relazionale-sociale-terreno-spirituale, niente affatto semplice da raggiungere e ancor più da mantenere nella vita quotidiana e sociale. Un autore che ha messo molto bene in evidenza questa duplice tensione umano-divina del Regno di Dio è quello della Lettera a Diogneto, che vi invito a leggere e a meditare. [2]Questa idea politica del regno è alla radice anche dell’attuale tensione conflittuale tra lo Stato d’Israele e lo Stato Palestinese.




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