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13 Febbraio 2022 - Anno C - VI Domenica del Tempo Ordinario


Ger 17,5-8; Sal 1; 1Cor 15,12.16-20; Lc 6,17.20-26


La beatitudine del povero evangelico


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I brani evangelici di queste ultime domeniche sembrano essere collegate da un’invisibile filo conduttore che ci dà modo di penetrare più a fondo nel cuore di Cristo e conoscerne i pensieri che lo animano. Dopo aver assistito al suo deludente esordio nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,28-29) e riprendere, senza indugio, il cammino della predicazione a Cafarnao (cf. Lc 4,31-32); lo vediamo dichiarare, nell’odierno brano evangelico, “beati” quei discepoli che nel condividere la sua causa, diventano, come lui, oggetto di derisione, calunnia, disprezzo e odio da parte dei loro persecutori (cf. Lc 6,22). Queste sue parole ci danno modo di interrogarci sulla “beatitudine evangelica”.

La beatitudine a cui si riferisce Gesù non ha nulla a che vedere con quella comunemente auspicata dalla nostra cultura, che la fa dipendere dalla ricchezza smisurata. Paradossalmente “beato” è per Gesù il “povero evangelico”. Questa beatitudine costituisce per lui motivo di glorificazione da parte di Dio: “Rallegratevi ed esultate perché grande sarà la vostra ricompensa nel cielo” (Lc 6,23). Una visione la sua che contrasta perfino con quella veterotestamentaria, secondo la quale “beato” è chi viene retribuito da Dio con ogni tipo di prosperità materiale. Si tratta allora di capire l’originario senso che Gesù attribuisce alla “povertà evangelica”, e soprattutto di cogliere le condizioni per renderla l’emblema del nostro stile di vita ecclesiale. Essa non è riferita a quella materiale, ma a quella spirituale. Si capisce allora la ragione per cui Matteo nel descrivere la stessa beatitudine, aggiunge: “Beati i poveri in spirito” (Mt 5,3). Il povero “in spirito” è chi non ritiene motivo di vanto, di confronto e perfino di disprezzo, i beni spirituali, come quelli intellettivi, morali, creativi, cognitivi di cui dispone (cf. Lc 18,10-14), ma li pone a servizio della comunità. La vera forma di povertà spirituale è, allora, quella descritta da Paolo nella sua lettera agli Efesini, ovvero di chi si spoglia, come Gesù, di tutto ciò che può costituire motivo di privilegio divino, per assumere la condizione di servo, umiliando se stesso fino alla morte di sé (cf. Ef 2, 5-11). Paolo, dà prova di aver colto questo aspetto della povertà di Gesù, anche nella sua seconda lettera ai Corinti, quando dice che egli “Da ricco che era si è fatto povero perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8, 9).

Alla luce di questi rinnovati criteri interpretativi proviamo ora ad osservare più da vicino lo stile di vita di tanti di noi cristiani, e notiamo, immediatamente, l’evidente stridore con la prassi evangelica, specie quando siamo attraversati da sentimenti di invidia, verso chi fa della ricchezza materiale il proprio ideale di vita. Chiaramente questa forma di ricchezza non va confusa con quello stato di ben-essere equilibrato, che costituisce un’espressione della dignità umana[1]. Scandalo agli occhi di Gesù non è la ricchezza in sé, ma l’avidità mentale che ne alimenta l’accumulo esagerato, a discapito degli altri. Questa forma di ricchezza è strettamente legata ad una prassi di vita radicata nello sfruttamento e nella strumentalizzazione degl’altri. A livello sociale essa si manifesta quando un bene comune, viene usurpato per diventare oggetto di possesso di uno solo, diventando, in questo modo, causa di conflitti sociali. San Giacomo, nella sua lettera, si pone una domanda fondamentale a questo riguardo: “Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male” (Gc 4,1-3). In questa prospettiva non è possibile risolvere il problema della povertà materiale, finché persiste l’ingordigia che la genera. Tante forme di povertà sociali non sono accidentali, come quelle provocate dalle calamità naturali per intenderci, ma conseguenza di una mentalità “politica”, tesa a creare sacche di povertà intellettive e culturali, per tenere sotto controllo la società. Ed è proprio questa la forma più estrema e abietta di povertà; indice, molto spesso, di una ristrettezza mentale, culturale, politica e nel peggiore dei casi, di una miseria morale. La povertà sociale è allora solo un sintomo di quella più invisibile che alberga nel cuore dell’uomo. La sua risoluzione, pertanto, non può essere solo di ordine politico, economico, ma culturale. Si capisce allora la ragione per cui Gesù è intervenuto soprattutto a livello spirituale.

Osservando, infatti, più attentamente il suo atteggiamento nei confronti della fame, come nel caso della moltiplicazione dei pani, egli non ha messo a disposizione di questi problemi il suo potere divino, come s’aspettava la gente di allora e come ci aspetteremmo noi, oggi; e non propone neppure soluzioni di tipo giuridico, come prevede la giustizia distributiva (dare a ciascuno il proprio). La sua soluzione va, invece, nella direzione della condivisione o, più chiaramente, della comunione dei beni, che consiste nel mettere a disposizione di tutti, i propri beni, in vista di un patrimonio comune che consente a chiunque di goderne, ma anche di alimentarlo col proprio lavoro. Egli sa benissimo che finché l’uomo continuerà a covare il male, la povertà sarà sempre presente (cf. Mc 14,7). Si tratta allora di intervenire nel cuore dell’uomo, ovvero in quel luogo, dove egli decide il tipo di relazione che intende stabilire con l’altro, con Dio e col creato: di antagonismo, di rivalità, di lotta, di concorrenza, oppure di concordia, di amicizia, di armonia, di amore. La povertà non è la causa dei mali sociali, ma la conseguenza di una mentalità egoica, di chi non è mai pago dei suoi beni e usurpa quelli degli altri, per ingrandire i propri granai. In altre parole è la conseguenza di chi pensa di gestire la propria vita e quella degli altri, confidando solo in se stesso, nelle proprie ricchezze, nella propria intelligenza, nella propria ragione, conoscenza, abilità e strategie comunicative e organizzative; tutte espressioni di quella mentalità che viene denunciata dal profeta Geremia, quando afferma: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella sua carne il suo sostegno” (Ger 17,5), le sue consolazione (cf. Lc 6,24) e le garanzie del suo futuro (cf. Lc 12,16-21); esattamente il contrario del povero evangelico, di cui i Salmi 1; 37/36; 112/111, 118/117, per citarne solo alcuni, ci danno un’emblematica descrizione. Il povero evangelico è chi vive la vita in uno stato di perenne precarietà esistenziale e spirituale, di assoluta dipendenza da Dio e dalla sua provvidenza, ovvero chi confida in Dio e pone solo in lui la speranza della sua esistenza e della sua salvezza.

La povertà in spirito, dunque, lungi dal ridursi a una situazione di indigenza materiale, costituisce la condizione spirituale più idonea per gustare, già nel presente, la straordinaria ricchezza della vita divina, autentica forma di benessere evangelico.



[1] Mi riferisco a quel decoro umano che scaturisce dall’equilibrio tra le attività salutari, morali, intellettive, affettive, relazionali, economiche e lavorative.

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